Il documento 3 “Per la Rifondazione di un Partito Comunista” si presenta con grandi ambizioni e una radicale contrapposizione (almeno nelle intenzioni dichiarate) alle tesi di maggioranza.
La prima contraddizione clamorosa pertanto emerge già nel primo paragrafo laddove si dice che l’intenzione dei promotori non era di presentare una mozione ma dei semplici emendamenti o tesi alternative. Se si dichiara che tutta la linea fin qui seguita è stata sbagliata, che il gruppo dirigente è incapace, che il partito va ricostruito dalle fondamenta a partire dalle sue basi teoriche, e via dicendo, non si capisce proprio come una critica di questo genere possa essere inquadrata in una logica emendataria. Come vedremo, non è l’unica incoerenza di questa mozione.
Il documento è infarcito di affermazioni battagliere e dal suono molto radicale: necessità dell’analisi di classe, rompere col Pd, uscire dal capitalismo, porre la questione della presa del potere da parte del proletariato, ecc. Tutto questo però va in soffitta quando si tenta di abbozzare un programma o delle parole d’ordine.
I punti su cui più si insiste sono: la difesa della sovranità nazionale (a volte identificata con una misteriosa “sovranità monetaria”); la difesa della Costituzione e della democrazia. Ecco alcuni esempi: “…oggi la questione nazionale e quella internazionale sono strettamente legate, da un punto di vista di classe, a quella della cancellazione dei residui di sovranità popolare. E anche da questo discende la necessità di unire la difesa della democrazia residua alla lotta per una sua estensione con nuove forme di rappresentanza diretta e di classe” (cap. 5).
Al cap. 15 si dichiara: “il nostro scopo deve essere quello di mettere a profonda critica le logiche stesse su cui questa Europa si mantiene. Dobbiamo tornare a parlare con chiarezza di possibili alternative alla moneta unica, che facciano tornare in capo agli Stati ed alla sovranità popolare le scelte di politica economica, ma anche monetaria e fiscale”. Più oltre si propone “la decisa messa in discussione dell’Euro (che non può più essere un tabù se davvero pensiamo che non possa esistere sovranità popolare senza una effettiva sovranità su moneta e economia”.
Ora, tralasciando il fatto che una “messa in discussione” non è esattamente una posizione “decisa”, risulta chiarissimo che qui abbiamo una concezione non di classe ma nazionalistica. La sovranità popolare di cui si parla non è altro che la democrazia borghese, magari abbellita con “nuove forme di rappresentanza diretta e di classe” e infatti si dice testualmente che “le istituzioni, e quindi le elezioni, riflettono i rapporti di forza nella società”. Siamo noi quindi i poveri tonti che pensano che le “istituzioni”, ossia lo Stato borghese nelle sue diverse strutture, siano gli strumenti del dominio di classe…
È quindi del tutto logico che si insista più volte sulla battaglia per la difesa della Costituzione, una battaglia, si badi bene, che non viene proposta come sacrosanta lotta per i diritti democratici, ma come una battaglia per la difesa dell’impianto costituzionale in quanto tale. “Se capitola la Costituzione, l’intero assetto democratico-istituzionale della nostra Repubblica verrà liquidato” (cap. 19). “Il nostro obiettivo dev’essere quello di costruire una mobilitazione continua contro il fascismo e i pericoli che incombono sulla nostra Costituzione”.
“Proprio per il suo carattere ‘costituente’, l’opposizione al governo Letta-Napolitano non può che caratterizzarsi per una forte azione di contrasto alla linea liberista di tutte le forze che lo compongono (Pd-Pdl-Montiani). Solo nell’ambito di questa chiara opposizione ha senso ed efficacia lo sviluppo di un forte movimento per la difesa della democrazia e della sovranità popolare, contro le logiche del maggioritario e per fermare l’attacco alla Costituzione” (cap. 7).
Il rapporto col Pd
Il documento dichiara baldanzosamente che “la situazione generale è tale da risolvere anche la tradizionale discussione sul problema delle alleanze politico-elettorali che ha diviso la sinistra di oppposizione e i comunisti e che è stata spesso la base di numerose scissioni. Le motivazioni a sostegno delle alleanze col centrosinistra (in primis il fronte anti-Berlusconi) sono tutte venute meno”. (cap. 6)
La pretesa nettezza nasconde un capolavoro di ambiguità. Siamo di fronte, ci perdonerà il Segretario, a una manifestazione di “ferrerismo” allo stato puro. Prima domanda: le alleanze col centrosinistra erano giuste o sbagliate? Era giusta o sbagliata la parola d’ordine del “fronte democratico contro Berlusconi” che fu una delle basi dello scorso congresso?
La nostra critica in proposito è chiara e conosciuta, e la scrivemmo nero su bianco nella nostra mozione del 2011. Non altrettanto possono fare gli estensori del terzo documento, per l’ottimo motivo che su questo avevano posizioni e collocazioni opposte fra loro. Ci si nasconde dietro una presunta oggettività: la questione si è risolta da sé, scrivono. E la domanda inevitabile è: che posizione prenderete se la questione si porrà nuovamente? Berlusconi è certamente molto indebolito ma non è ancora fuori dalla scena, e comunque c’è sempre un “pericolo di destra” con conseguenti sirene che chiamano all’“unità di tutte le forze democratiche”…
Più oltre si dichiara “la necessità di rompere le alleanze politico-istituzionali col Pd e col centrosinistra anche a livello locale” (cap. 7): finalmente, verrebbe da dire, eppure… anche qui c’è l’uscita di sicurezza, e infatti ci si affretta ad aggiungere “laddove siano incompatibili con la possibilità di praticare un programma di alternativa”. Siamo troppo maligni se pensiamo che anche nelle fila della terza mozione c’è qualche compagno assessore che ha bisogno della “deroga”?
Ma la lotta di classe dov’è?
In un documento che giura ad ogni pagina sull’“analisi di classe” non c’è traccia della lotta di classe che segna la nostra epoca. I giganteschi movimenti che scuotono il mondo arabo non meritano una riga di analisi, così come le grandi mobilitazioni in Brasile e Turchia. Tutto il documento è intriso di nero pessimismo sulle prospettive, dappertutto si vede la destra in ascesa, il populismo rampante, il pericolo della reazione, di tutto quello che è successo in Grecia in questi anni gli estensori vedono solo “l’ascesa di Alba dorata” e “ampi strati di proletari ed il ceto medio che (…) sono divenuti permeabili alla propaganda di ideali reazionari” (cap. 19).
Lo stesso vale per l’analisi della situazione italiana, non si traccia alcuna prospettiva né un bilancio degli scorsi anni, il partito di cui si proclama la necessità è un partito che si presenta come fine in sé, come pura struttura, ma senza alcun legame con la reale lotta per l’egemonia nel movimento operaio, per costruire una direzione politica capace di porre il problema della presa del potere non in modo astratto ma legato a una strategia concreta di radicamento e soprattutto di lotta contro le direzioni riformiste. Non a caso nella tesi sindacale si ricalcano alcune delle posizioni da noi avanzate, ma privandole del perno centrale, ossia la lotta contro le burocrazie sindacali grandi e piccole. La sintesi che fanno i compagni del terzo documento è di questo genere: la Cgil è grande ma concertativa, la Fiom resiste un po’ ma non abbastanza, i sindacati di base sono radicali ma un po’ troppo frantumati… pazienza, uniamo almeno i nostri militanti su una posizione comune: obiettivo giusto ma vuoto di contenuto in quanto non viene legato a una effettiva strategia di battaglia contro le burocrazie.
Il rilancio del partito viene proposto in chiave puramente organizzativa: basta mimetismi elettorali, in alto le bandiere, apriamo nuove sedi. Segue un piano faraonico di interventi: Arci, Anpi, Italia-Cuba, associazionismo, patronati fra gli italiani all’estero, Case del popolo, reti di mutuo soccorso, circoli culturali, riaprire Liberazione in formato cartaceo, una casa editrice… La vera matrice teorica di questo ragionamento è nel cap. 8, nel quale si teorizza che la classe è frantumata e solo il partito la può ricomporre: “L’attuale frammentazione della nostra classe, indotta intenzionalmente e con successo dal dominio capitalistico, può essere contrastata efficacemente e rovesciata solo da un Partito capace innanzitutto di capire i profondi cambiamenti che stanno attraversando il mondo del lavoro. Principale obiettivo deve essere il radicamento, eventualmente elaborando opportune e inedite forme organizzative (ancora l’organizzazione…). A partire dalle condizioni di sfruttamento dei lavoratori, il Partito deve ricostruire una coscienza delle contraddizioni insite nel capitalismo, una coscienza di classe e da qui l’organizzazione politica autonoma del nuovo proletariato”.
Siamo all’idolatria dell’apparato: i lavoratori come soggetto sociale, come protagonisti del conflitto di classe, scompaiono completamente, diventano un soggetto puramente passivo e per formarsi una coscienza di classe sono gentilmente pregati di attendere che i compagni del terzo documento abbiano completato il loro progetto di rifondazione del partito comunista.
I cascami dello stalinismo
La mozione ha grandi ambizioni, tanto da affermare con nettezza che “il problema dei marxisti in Italia non è solo organizzativo, ma essenzialmente di impostazione teorica”. (cap. 10) Parole sacrosante anche se per la verità non si capisce perché si parli solo dell’Italia. In fondo sono passati 110 anni da quando Lenin scrisse nel Che fare? che finalmente il dibattito nel movimento operaio era diventato internazionale…
Proseguiamo. Per sostanziare la richiesta di dare basi teoriche alla rifondazione comunista (richiesta sacrosanta) i compagni oltre a citare molte volte i nomi di Marx, Lenin e Gramsci, ci propongono la seguente visione del socialismo. Nel primo capitolo si cita la “dissoluzione del blocco socialista dell’est europeo”. Perché sia avvenuta tale “dissoluzione” però non si spiega, come non si spiega se i compagni ritengono che l’Urss fosse effettivamente una società socialista o meno. Più oltre (cap. 16) parlano della “profonda trasformazione in senso socialista” della società in America Latina, che ha “strutturato l’alveo per l’emergere di governi socialisti anche in Ecuador e Bolivia”, oltre che in Venezuela. Ora, che la solidarietà con i paesi latinoamericani sottoposti all’aggressione Usa sia un dovere elementare per i comunisti non è in discussione. Ma in nessuno di questi paesi la rottura col capitalismo è stata portata a termine; l’economia rimane un’economia capitalista, anche se vi sono state delle nazionalizzazioni; l’apparato statale non è affatto stato demolito, quegli elementi embrionali di democrazia operaia (fabbriche occupate, organizzazioni popolari di vario tipo) che hanno svolto un ruolo chiave nello spingere avanti il processo rivoluzionario venezuelano non sono egemoni e non esercitano il potere; al contrario, l’apparato statale è pervaso dal burocratismo e dalla corruzione, provenienti tanto dalle vecchie strutture di potere quanto da un nuovo settore privilegiato di burocrati “bolivariani” in camicia rossa. I compagni danno per felicemente risolti i problemi decisivi della rivoluzione in questi paesi mentre il compito centrale sarebbe precisamente quello di spingere per completare la rivoluzione, con l’esproprio del grande capitale nazionale ed estero e la costruzione di una autentica democrazia operaia che la faccia finita col burocratismo, che è la base sociale delle politiche riformiste che rischiano di far deragliare il processo portandolo alla sconfitta.
Più oltre il documento propone di “approcciare con maggiore razionalità alle differenti e a volte contraddittorie esperienze di socialismo a livello planetario”. “Razionalmente” vorremmo chiedere ai compagni: a quali esperienze vi riferite? Non lasciateci nel dubbio se il socialismo al quale dobbiamo rapportarci (razionalmente, e chiaro!) è quello nord coreano, se ritenete la Cina un paese socialista o meno, se la Bielorussia costituisce un modello di transizione.
Nel cap. 11 troviamo poi un’affermazione sorprendente: “Tutti i maggiori partiti comunisti della storia, in Russia come in Italia, erano costituiti da diverse frazioni che però funzionavano da centri di elaborazione del dibattito che poi era svolto e sintetizzato nelle istanze centrali, con mandati revocabili e verifiche costanti tra i militanti”. Confessiamo il nostro sbalordimento: di quali partiti e di quale epoca storica parlano i compagni?
Nella fase rivoluzionaria della loro storia i partiti comunisti in effetti videro aspri dibattiti fra posizioni anche contrapposte, che si confrontavano in un clima democratico e in cui lo scopo principale della discussione (anche della polemica) era quello di innalzare il livello della discussione, portare il dibattito a un livello di principio, educare i quadri e i militanti. Misure repressive, manovre, calunnie, non avevano diritto di cittadinanza. Questa fase corrisponde grosso modo agli anni 1917-1923, ai primi quattro congressi dell’Internazionale comunista. Peraltro la “sintesi” non era affatto l’obettivo primario: a volte vi fu, quando questa era possibile su basi di principio, altre volte vi furono lotte di frazione condotte fino al prevalere di una posizione sull’altra. Non ci risulta che Gramsci e Bordiga avessero cercato la “sintesi” delle rispettive posizioni, al contrario: il loro sforzo fu quello di dare alla contrapposizione il più chiaro carattere di principio. Così come non ci risulta che quando Lenin nel 1917 tornò in Russia e scrisse le Tesi di Aprile si ponesse l’obiettivo di arrivare alla “sintesi” con Kamenev e Stalin che proponevano l’appoggio condizionato al governo provvisorio. Al contrario, Lenin dichiarò che su tale questione vitale (che poi si riduceva alla questione se si dovesse lottare per la presa del potere o no) era disposto a fare una scissione anche “da solo contro 110” (alludendo al voto solitario di Karl Liebknecht contro i crediti di guerra, in opposizione appunto ai 110 deputati socialdemocratici tedeschi che nel 1914 capitolarono allo sciovinismo e appoggiarono lo sforzo bellico nazionale).
Ma la questione centrale è che tali dibattiti si svolsero effettivamente in un clima democratico nel quale i diritti delle diverse posizioni erano rispettati e nel quale i raggruppamenti avvenivano su basi politiche e teoriche e non di gruppo o cordata.
Tutto questo finisce con l’affermarsi dello stalinismo e a partire dalla metà degli anni ’20 la democrazia operaia, così come la democrazia nel partito, viene distrutta e al suo posto di affermano il burocratismo, il conformismo e la repressione.
O forse i compagni pensano che nel 1937 in Unione Sovietica il partito di Stalin facesse una “sintesi” fra le posizioni ufficiali e quelle dell’Opposizione di sinistra, i cui militanti venivano mandati in campo di concentramento o di fronte ai plotoni di esecuzione?
La storia del movimento operaio del ‘900 che i compagni si compiacciono di citare molte volte, è segnata da una rottura profonda tra la fase dell’ascesa rivoluzionaria e quella della reazione burocratica incarnata dallo stalinismo.
È sinceramente uno scandalo che un documento che dichiara di voler rifondare il pensiero comunista in Italia giochi a nascondino su questioni di tale rilevanza.
A proposito di frazioni e correnti
Più e più volte si ripete che lo scopo di questa mozione non è di creare una nuova corrente. A leggere il testo pare che le correnti siano nate per la cattiva volontà di qualcuno. Non è un approccio serio: ogni corrente politica ha una sua traiettoria, delle basi teoriche, politiche, una pratica che devono essere analizzate per darne un giudizio, per capire se svolge un ruolo positivo o se fanno arretrare il partito e il movimento.
Quando i compagni scrivono che i comunisti si possono unire comunciando “a unire le linee e le pratiche sociali” (come se le “pratiche sociali” non discendessero da una precisa impostazione politica…) stanno in realtà dicendo che non serve teoria, non serve analisi, non serve discussione politica, basta “unirsi sul fare” e sventolare alta la bandiera rossa. Non è così, non è mai stato così e mai lo sarà.
Peraltro tanta retorica contro le correnti stride con le proposte avanzate dagli stessi promotori del documento durante la preparazione del congresso e ripetute nella premessa della mozione: proporre un congresso a tesi nel quale si dà rappresentatività proporzionale negli organismi dirigenti a chiunque propone una tesi alternativa, oltre ad essere concretamente impossibile, significava volere il trionfo del correntismo (questo sì) più becero e di basso profilo, incoraggiando chiunque voglia strappare un “posto” negli organismi dirigenti a presentare un emendamento, qualche che sia, al solo scopo di contare i voti della sua sotto-area.
Nonostante la retorica basista (la mozione si autodefinisce in premessa “una significativa inversione di tendenza rispetto alla crisi di militanza che rende diverso questo documento!”) la presenza di quest’area non è una novità per il Prc.
Nel 2008 la mozione autodenominata “dei 100 circoli” comprendeva buona parte degli attuali sottoscrittori della mozione 3. L’esito dei “100 circoli” è stata una diaspora: chi nel Pdci con la scissione dell’Ernesto, chi intruppato nella segreteria Ferrero (Pegolo), altri ancora hanno proseguito con la mozione 3 dello scorso congresso, che oggi si ripresenta con qualche spostamento di nomi. Non una realtà nuova, quindi, ma un’area con un percorso ben riconoscibile e di cui è giusto analizzare la traiettoria. Una traiettoria che oggi trova una maggiore sistematizzazione ideologica in un testo che attinge alla tradizione dello stalinismo e della sua versione italiana, il togliattismo, e tenta di proporle come punto di partenza per rilanciare il Prc.
Che questa posizione ideologica oggi tenti in parte di mimetizzarsi dietro la retorica della documento “della base” (come se non esistesse una base che sostiene le altre posizioni nel partito) non la rende più credibile.
Post scriptum
Avremmo potuto facilmente esercitarci a misurare la coerenza di questo o quel firmatario della Mozione 3, approdato alle rive della contestazione dopo aver condiviso tutte le scelte fondamentali della Segreteria nazionale in questi anni. Tuttavia vogliamo almeno su un punto dare credito agli estensori del documento, laddove in premessa scrivono che “nella proposta di elezione dei delegati e dei componenti dei comitati politici” si impegnano “a favorire un concreto rinnovamento dei gruppi dirigenti e rimuovere qualsiasi fenomeno di autoconservazione e arroccamento”. Attendiamo quindi fiduciosi di vedere uscire dal Cpn e dalla Direzione quei compagni oggi schierati con la Mozione 3 che hanno a suo tempo sostenuto la scelta di Rivoluzione Civile (magari facendo la battaglia per entrare nelle teste di lista), chi ha condiviso la proposta di rinvio del congresso, ecc.
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