I profitti contro la salute
Nel dicembre ‘84, fu diagnosticato il primo caso di BSE in Inghilterra. Da allora la malattia ha provocato 74 morti in quel paese e un grande discredito del governo che fino al 1996 assicurava che la carne britannica era adeguata per il consumo. Nel 1986 il Ministero dell’Agricoltura riconobbe l’encefalopatia spongiforme bovina come una malattia. Ma solo nel 1988 fu proibito l’uso nell’alimentazione delle mucche di mangimi elaborati con resti di pecore morte per scrapie, una malattia che presentava gli stessi sintomi e che fin dal 1732 è stata diagnosticata tra le pecore. Da allora la maggioranza dei ricercatori sostengono che la malattia sia passata dalle pecore alle mucche con questo sistema.
Nell’88 iniziò l’abbattimento delle mucche "infette". Da allora sono state sacrificati quasi cinque milioni di capi. In 183.000 casi si sono trovate quantità significative del prione.
Il Governo proibì nel’89 la vendita del midollo e del cervello delle mucche. Nel maggio del ‘95 Stephen Churchill, di 19 anni, morì a causa di una variante della malattia di Creutzfeldt-Jakob (nvMCJ). Questa malattia fino ad allora colpiva persone oltre i 60 anni. Solo nel ‘96, quando i morti erano arrivati a 10, il governo ammise che era possibile il contagio. A quel punto la Commissione Europea proibì l’export di carne britannica, con danni economici superiori a 120 mila miliardi di lire.
Le pressioni per abolire il divieto portarono nel 1998 alla liberalizzazione dell’export di carne britannica. Allora solo il governo francese si oppose e mantenne il divieto. In tutti questi anni il resto dei paesi europei - tranne il Portogallo le cui carni subirono il divieto all’export nel 1998 - si dichiararono più volte "fuori pericolo" finché per prima la Francia e poi tutti hanno dovuto ammettere l’evidenza: se la BSE è il risultato dell'utilizzo massiccio di farine di origine animale, esse sono state adoperate in tutti i paesi europei e dunque nessuno può chiamarsi fuori dal problema. Secondo una Commissione organizzata dal governo inglese tra 40 e 100 milioni di europei sarebbero stati esposti al rischio di "contagio". L’agente "infestante" sarebbe una particella proteica infettiva (prione) che sarebbe passata dalle pecore malate di scrapie, usate per i mangimi delle vacche, alle mucche stesse e da esse alle persone.
Il prione esiste normalmente nel cervello. Il problema è la sua varietà "mutante" che non è attaccabile dagli enzimi che dovrebbero regolare il suo numero e che innescando una reazione a catena provoca la mutazione di tutti i prioni "buoni" provocando la morte dei tessuti cerebrali.
Colpisce subito la enorme sperequazione tra il numero di mucche "infette" (quasi 200.000) e il numero di casi umani (meno di un centinaio in tutta l’Europa). La spiegazione sarebbe che il "periodo di incubazione della malattia sarebbe di 5-10-15 o 30 anni…" (c’è chi ipotizza che dietro alla malformazione del prione vi sia un virus "lento"). Insomma, una malattia degenerativa del cervello delle mucche tra le cui cause si trova sicuramente lo sfruttamento industriale degli allevamenti (mangimi proteici a base di cadaveri di altri animali, uso intensivo di ormoni, additivi, antibiotici, medicinali vari) e dulcis in fundo le condizioni di stress costante per gli animali.
Si sacrificano tutte le mucche dell’allevamento nel quale se ne trovi una infetta e più in generale si tende a proporre il sacrificio di tutti gli animali di età superiore ai 30 mesi o (perché no?) ai 24 mesi…
Un fulmine a ciel sereno
o una crisi globale?
Sia che la malattia sia infettiva che degenerativa, i governi europei sono stati complici di un ritardo mostruoso che potrebbe provocare nei prossimi anni centinaia di migliaia se non milioni di morti. Ma se la malattia dovesse risultare non essere infettiva, le misure prese (i test nei macelli e il sacrificio di milioni di capi) sarebbero inadeguate. Dovrebbe essere messo in discussione non un singolo agente infettivo, ma un insieme di cause (alimentazione anormale, ambiente, selezione genetica con conseguente impoverimento delle varietà animali, uso indiscriminato dei medicinali e delle terapie ormonali) che sono oggi alla base della produzione industriale di carne (non solo di bovini, ma anche di maiali, conigli, polli…).
La verità è che il settore alimentare e in particolare quello dell’allevamento - al di là della mucca pazza - ormai non gode di una buona immagine. Del resto, come potrebbe essere diversamente?
Attraverso la ricerca spasmodica del minor costo di produzione e dei generosi aiuti dei governi, l’agroalimentare è diventato un settore industriale come gli altri, con un’alta intensità di capitale nel quale i contadini, anche quando sono formalmente indipendenti, sono in realtà parte di un meccanismo economico e tecnico fuori del loro controllo.
Le razze vengono modificate alla ricerca di caratteristiche economicamente vantaggiose con un’ottica di breve periodo e trascurando tutte le possibili implicazioni. Oggi una mucca che produce meno di 18 litri di latte al giorno è mandata al macello essendo possibile ottenere con gli ormoni adeguati fino a 40 e perfino 60 litri (quattro volte di più che 50 anni fa). Ovviamente per ottenere questo rendimento bisogna fare della mucca una sorta di fabbrica di latte forzando il suo metabolismo fino all'inverosimile e arrivando a fare diventare carnivoro un’animale che in origine era erbivoro. Lo stesso si potrebbe dire della produzione di carne e di uova. La filiera è in mano a grossi gruppi che di solito controllano il processo dall’inizio alla fine. Sono proprietari dei mangimifici e selezionano gli animali da vendere ai contadini. Lo stesso gruppo che vende loro gli animali, il mangime e "gli integratori", compra a un prezzo stabilito il latte o le uova o l’animale da macellare.
Sovrapproduzione alimentare
e morte per fame
Questa industrializzazione del processo di produzione del cibo viene difesa dai suoi fautori come necessaria per assicurare cibo di qualità a basso prezzo. Da mezzo secolo ci spiegano che solo in questo modo, attraverso la massima efficienza ottenuta dalle economie di scala e la riduzione degli sprechi, sarà possibile farla finita con la fame nel mondo. La realtà come vediamo è ben diversa e di questa favola molte cose non sono vere: la qualità organolettica media del cibo non è migliorata negli ultimi 25 anni, piuttosto il contrario, il rapporto qualità/prezzo è sicuramente peggiorato e soprattutto oggi nel mondo muore più gente di fame o di malattie legate alla malnutrizione che 30 anni fa.
Le due zone economiche più forti, Europa e gli Usa, sovvenzionano massicciamente i loro agricoltori e producono eccedenze enormi che a loro volta costano ingenti cifre per l’acquisto e la distruzione da parte dello Stato in modo da mantenere stabili i prezzi. Per esempio in Europa, dopo aver mantenuto nei frigoriferi per anni centinaia di migliaia di tonnellate di burro, si è deciso di riutilizzarlo per produrre mangimi per le mucche!
Sempre in Europa le ingenti sovvenzioni finiscono per l’80% in mano al 20% delle aziende agricole; la situazione negli Usa è ancora peggiore.
Così abbiamo la produzione di cibo in mano a un gruppo ridotto di grandi aziende che attraverso i loro tentacoli azionari e le posizioni dominanti nei mercati controllano di fatto quello che mangiamo.
Come abbiamo avuto modo di vedere in questi anni in occasione della lotta contro gli alimenti geneticamente modificati (OGM) o nello scontro con gli Usa e il WTO per l’accettazione in Europa della carne agli ormoni prodotta negli Usa, queste grosse aziende hanno le risorse per piegare i governi e le leggi a loro favore.
Mescolando sapientemente la liberalizzazione dei mercati e le misure protezionistiche, ingenti investimenti privati e enormi sovvenzioni pubbliche, i grandi capitalisti del complesso agroalimentare, che nell’ultimo periodo si è legato a doppio filo al settore chimico-farmaceutico, decidono cosa produrre, come produrlo e come distribuirlo a tutta l’umanità. Di fatto stanno ponendo le basi tecniche e organizzative per la pianificazione mondiale delle risorse alimentarie, qualcosa di auspicabile e necessario per una società socialista, ma che in un contesto capitalista implica dei pericoli mai visti prima nella storia dell’umanità.
Prendiamo il caso degli OGM. La velocità con la quale si è passati dalla sperimentazione alla produzione su grande scala è conseguenza del peso delle aziende interessate come Novartis, Glaxo-Wellcome, SmithKline Beecham, Du Pont, Eli Lilly, Rohm and Haas, Upjohn, Merck and Dow Chemical. La Monsanto Corporation, da lungo tempo leader mondiale nei prodotti chimici, nel 1997 ha venduto il suo intero settore chimico per basare la sua ricerca, il suo sviluppo e il suo "marketing" su tecnologie e prodotti legati alle biotecnologie. Le fusioni e le acquisizioni in questo settore non sono minori a quelle di settori come le telecomunicazioni, l’energia, i servizi informatici e i mass media.
Oggi esiste per la prima volta nella storia la capacità di isolare, identificare e ricombinare i geni il che rende disponibile un fondo comune di geni come risorsa di materie prime per la futura attività economica. Tecniche ricombinanti del DNA ed altre biotecnologie permettono agli scienziati e alle imprese biotech di localizzare, manipolare e sfruttare le risorse genetiche a fini economici.
A questo scopo gli Usa e poi la WTO (organizzazione mondiale del commercio) hanno accettato di concedere brevetti su geni, sequenze geniche, tessuti da ingegneria genetica, organi ed organismi, insieme ai procedimenti usati per alterarli, il che pone le basi per il loro sfruttamento economico da parte dei capitalisti.
Lo scopo è creare le condizioni per la nascita di una natura bioindustriale prodotta artificialmente e destinata a rimpiazzare lo schema evolutivo della natura stessa.
Le dieci più grandi aziende agro-chimiche controllano l'81% di un mercato mondiale che vale 29 miliardi di dollari. Dieci aziende controllano il 37% del mercato mondiale delle sementi che ammonta a 15 miliardi di dollari. Le dieci più grandi aziende farmaceutiche controllano il 47% di un mercato di 197 miliardi di dollari. Dieci aziende controllano il 43% del mercato farmaceutico-veterinario di 15 miliardi di dollari. Al vertice di questa piramide di aziende intrecciate con diverse "joint venture" e scambi azionari si trovano dieci multinazionali alimentari con un fatturato che nel 2000 ha superato i 300 miliardi di dollari.
Novartis, una nuova gigantesca impresa costituitasi con una fusione da 27 miliardi di dollari tra due compagnie svizzere, farmaceutica Sandoz e agro-chimica Ciba-Geigy, è il risultato tipico di questo processo in corso. Novartis è la più grande compagnia agro-chimica del mondo ed è la seconda più grande nel settore delle sementi ed in quello farmaceutico. Altre ditte seguono a breve distanza: la Monsanto Corporation, la Dow Elanco, la DuPont e la AgrEvo. Nel frattempo i giganti farmaceutici stanno acquistando compartecipazioni azionarie e concludendo accordi di ricerca con molte aziende che fanno ricerca applicata sul genoma umano.
In regime capitalista la ricerca in un terreno così delicato come questo richiede la massima segretezza per "difendere" i profitti futuri e la maggior velocità possibile nell'utilizzo pratico delle scoperte. Invece la complessità dei problemi e i pericoli potenziali sono tali da esigere la massima trasparenza e collaborazione tra tutti i ricercatori, la massima cautela nel passo dalla sperimentazione alle produzioni su larga scala, la massima libertà nella discussione e controllo dei risultati.
Organismi geneticamente modificati
In pochi anni grosse aziende come Monsanto e Novartis sono riuscite a imporre i loro mais, e la loro soia geneticamente modificati in Usa, nel Canada, in Argentina. In questi paesi gli OGM sono coltivati su milioni di ettari (secondo fonti specializzate, il 40% della soia e il 20% del mais americani sono transgenici) e le multinazionali si rifiutano di creare filiere di imballaggio e di commercializzazione separate tra OGM e non OGM. In altre parole - in mancanza di una chiara etichettatura per l'alimentazione sia degli uomini che degli animali - ai consumatori e ai contadini, presi in ostaggio, non rimane che scegliere tra la peste delle farine animali e il colera degli OGM. Infatti, se domani l’Europa decidesse di abolire completamente tutte le farine animali, avrebbe una sola alternativa per mantenere l’attuale regime di alimentazione iperproteica del bestiame: quella di rivolgersi ai produttori nordamericani di semi oleosi, aprendo così agli OGM.
Quello che stanno facendo è la sperimentazione più radicale e massiccia della storia dell’agricoltura. A difesa delle loro tesi affermano che gli incroci tra le specie ci sono sempre stati e che ora si tratta solamente di farli in modo mirato e non lasciandoli al caso. Tutto ciò è fuorviante. Finora gli incroci ci sono stati sempre tra animali o piante della stessa specie - come il cavallo e l’asino -, ma non tra un pesce e una fragola come è già stato fatto per rendere la seconda più resistente alle gelate. I pericoli potenziali sono tali che le compagnie di assicurazione si rifiutano di coprire le aziende del biotech.
Non si deve rifiutare la ricerca biotecnologica e la sua applicazione pratica. Il punto è trovare l’equilibrio giusto, la capacità di migliorare la natura senza stravolgerla. La selezione genetica delle varietà migliori sia in campo agricolo che zootecnico esiste da millenni. La differenza è che prima veniva fatta su scala ridotta, a tentoni e dunque basandosi necessariamente sull’esperienza e con possibilità ridotte di combinare guai. Oggi sarebbe possibile fare di più e meglio, ma la ricerca spasmodica di profitti a qualsiasi costo insita nel capitalismo travolge qualsiasi precauzione; provando a massimizzare il profitto si massimizza il rischio e si riduce come mai in passato la varietà genetica.
Da quando esiste l’agricoltura, i contadini seminano i campi con i prodotti del proprio raccolto. Sono loro che, da millenni, selezionano e adattano le piante in funzione delle loro necessità e alle caratteristiche dell'ambiente. Oggi, i grandi gruppi di produttori di sementi hanno selezionato pochi semi ibridi, le cui caratteristiche li rendono particolarmente adatti all’agricoltura intensiva. Questi ibridi sono semi sterili, mentre le piante autogame come soia, grano, orzo e colza, sono riutilizzate nel 50% dei casi. Evidentemente i produttori di sementi non hanno interesse a che i contadini possano riseminare i campi a partire dai propri raccolti. E ora tentano di convincerli che le manipolazioni genetiche procureranno loro grossi margini di guadagno.
I rischi, per la salute e l'ambiente, della messa a coltura di piante manipolate geneticamente costituiscono l'oggetto di serrati dibattiti tra gli scienziati. Molti studi hanno dimostrato gli effetti nocivi, sulle farfalle, del mais transgenico Bt (cioè portatore della tossina del Bacillus thuringiensis che rende la pianta resistente ad un insetto detto piralide n.d.t.), prodotto da Monsanto, Novartis e Pioneer.
Quale alternativa?
Considerando il punto al quale è arrivata la divisione mondiale del lavoro, è illusorio pensare che si possa porre rimedio al disastro della mucca pazza e difendere la nostra salute isolando i diversi paesi e "scomponendo" su basi nazionali, o locali, la filiera agroalimentare. Su questa strada si giungerebbe semplicemente a una guerra fra poveri, dalla quale né i piccoli allevatori, né i consumatori avrebbero da guadagnare.
Allo stesso modo è illusoria e cinica la prospettiva di sviluppare gradualmente un mercato "di nicchia", di prodotti biologici, come risposta a questa colossale manipolazione. D’altra parte, la rapida proliferazione di un mercato biologico "di massa" porrebbe presto di nuovo il problema di un abbassamento della qualità e degli standard di sicurezza, che già oggi sono tutt’altro che certi. Basti pensare agli omogeneizzati per bambini, che secondo le assicurazioni delle aziende produttrici avrebbero dovuto rappresentare il non plus ultra della qualità e della salute (e i loro prezzi spropositati ne costituivano una conferma indiretta), mentre oggi vengono sconsigliati come "malsicuri", proprio a causa della vicenda della mucca pazza.
Lo sviluppo delle multinazionali nel settore agroalimentare crea le premesse tecniche ed economiche per una gestione razionale dell’agricoltura del pianeta, della ricerca scientifica, della distribuzione.
Le tecnologie oggi esistenti, o alle quali ci stiamo avviciniamo, aprono possibilità inimmaginabili. È ormai chiaro come sarebbe del tutto possibile non solo risolvere il problema della fame nel mondo, ma addirittura migliorare in modo decisivo il regime alimentare dell’intera umanità, con effetti benefici sulla salute degli individui, sulla lotta contro numerose malattie, sullo sviluppo generale, fisiologico e psicologico, di miliardi di persone.
Ma di pari passo aumentano i rischi connessi all’uso delle biotecnologie; il legame che unisce sempre più strettamente il mercato mondiale non fa che aumentare ulteriormente questi rischi.
Il controllo democratico dei lavoratori, dei piccoli produttori, dei consumatori, dei tecnici e dei ricercatori è l’unica alternativa al caos attuale e a una corsa ormai incontrollabile alla manipolazione genetica e ambientale, ma per giungere a questo è necessario tagliare il nodo alla radice: è necessario l’esproprio dei colossi dell’industria agroalimentare, farmaceutica, biotecnologica, la messa in comune delle loro risorse e dei loro apparati di ricerca.
Oggi più che mai la lotta per la salute, nel suo significato più ampio, può diventare una lotta anticapitalista e rivoluzionaria.