Beffarda elemosina ambientale
Nel 1992 a Rio De Janero nell’ambito della "conferenza mondiale sull’ambiente e lo sviluppo" fu approvata la "convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici". Nel 1997 è stato approvato un primo documento esecutivo di impegni per il contenimento delle emissioni di gas ad effetto serra. Questo protocollo, approvato con la firma di 159 paesi, doveva essere ratificato da almeno 55 paesi (e rappresentanti almeno il 55% delle complessive emissioni di anidride carbonica all’anno 1990) per diventare vincolante, ma solo per i paesi ratificatori. La vicenda della ratifica si è trascinata per mesi, con gli Usa che hanno fatto di tutto per far saltare l’accordo, riuscendo comunque a farne slittare la partenza.
A Bonn lo scorso luglio si è riusciti, con grandi sforzi diplomatici, a salvare il protocollo, rendendolo esecutivo grazie all’adesione del Giappone e prima ancora del Canada, che erano paesi incerti, ma gli Usa ne sono rimasti fuori.
La risoluzione sottoscritta prevede che i 38 paesi maggiormente industrializzati riducano entro il quadriennio 2008-2012 le proprie emissioni di anidride carbonica in media del 5,2% (-8% per l’UE, -7% per l’Italia, -7% per gli USA se avessero aderito, -6% per il Giappone, esenzione per Cina e paesi in via di sviluppo). Questo risultato è il compromesso tra diverse posizioni iniziali. L’Europa proponeva la riduzione del 15% dei soli gas di combustione, gli Usa la stabilizzazione delle emissioni di tutti i gas al livello del 1990. Altre differenze c’erano sull’opportunità o meno di imporre limitazioni ai paesi in via di sviluppo. Gli Usa sostenevano questa necessità ma strumentalmente all’obiettivo di non fare arrivare in porto l’accordo.
I limiti dell’accordo
L’accordo nasce già con un obiettivo assolutamente inadeguato. Il Global Common Institute britannico reputa come concentrazione massima tollerabile di gas-serra una quantità doppia rispetto a quella dell’era preindustriale. Considerando solo l’anidride carbonica tale soglia estrema verrebbe raggiunta nel 2030 se la Gran Bretagna riducesse le proprie emissioni del 50% e gli Usa del 77%, fermo restando le emissioni degli altri paesi. Il gruppo di studio intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc) afferma che per invertire la rotta è necessario un taglio pari almeno al 60% in media. L’obiettivo di Kyoto è più di 10 volte inferiore. Il direttore della Climate policy division del Wuppertal Institute parla di una riduzione necessaria di almeno il 50% e afferma: “dal punto di vista climatico gli accordi di Kyoto sono nulli”. Si potrebbe ancora continuare con critiche di questo genere ma esse sono dirette esclusivamente all’obiettivo principale del protocollo, invece ci sono anche altri problemi.
Primo: il protocollo impegna formalmente solo i paesi che lo ratificano.
Secondo: l’accordo non prevede sanzioni neanche per i paesi firmatari che non rispettino gli obblighi sottoscritti, figurarsi per gli altri.
Terzo: con gli Usa fuori dagli impegni si ha il paradosso per cui proprio il paese che inquina di più al mondo può tranquillamente continuare a farlo (gli Usa da soli sono responsabili del 36% delle emissioni totali di anidride carbonica).
Quarto: esistono tutta una serie di escamotage che permettono ai paesi vincolati di aggirare il protocollo come, ad esempio, la possibilità di vendere o acquistare quote di emissione o quella di equiparare azioni di riforestazione e tagli alle emissioni (gli alberi assorbono anidride carbonica per cui riforestando massicciamente si potrebbero limitare i danni, ma la quantificazione dell’operazione è impossibile).
Alla luce di questo è davvero difficile comprendere l’entusiasmo dei delegati europei a Bonn per il raggiungimento del quorum del 55% che ha permesso di salvare il protocollo.
È evidente che gli enormi sforzi delle forze politiche socialdemocratiche europee, dimostrano in modo lampante i limiti del riformismo che non vuole ammettere l’inutilità pratica di simili accordi scritti di fronte alla potenza economica dell’industria, che anche in materia ambientale, è in definitiva l’unica autorità a dettare legge. Nel contesto capitalista, per di più, la “questione ambientale”, come è concepita dai riformisti, è facilmente strumentalizzabile da chi vede in essa solo un affare utile a drogare artificialmente l’economia a favore dei grandi industriali, che sperano in incentivi statali per “ecologizzare” la propria produzione a spese dello stato sociale. Infatti, visto che non sono previste sanzioni, non si comprende come possano essere tradotti in pratica gli impegni presi se non attraverso misure di “incoraggiamento economico” volte a far intraprendere “iniziative ambientali” alle imprese. Inoltre si possono facilmente immaginare le conseguenze del fare mercato anche sulle questioni ecologiche e i traffici di quote di emissione che si svilupperanno, per cui i paesi che non riusciranno a mantenere gli impegni saranno costretti a comprare quote di emissione dagli altri, ammesso che qualcuno riduca le proprie più del previsto. Come al solito questo tipo di politiche non fanno altro che approdare ad una socializzazione delle spese e ad una privatizzazione della ricerca e dei profitti. Chi deve essere punito per il danno, e questo non risolve comunque il problema ambientale (secondo la logica del “chi inquina paga”), finisce per essere unto dai soldi pubblici nel primo caso, o continua indisturbato nella propria attività facendosi scudo della negoziazione politica di soluzioni nel secondo. Al danno si aggiunge la beffa, per questo il protocollo di Kyoto mette in campo più problemi di quanti non ne risolva.
Il nodo del problema
Bisogna capire che nessun reale impegno ambientalista può maturare in seno ad un sistema economico dominato da poche multinazionali del petrolio, che determinano tutta la catena di attività che dipende da questo tipo di risorsa energetica. È risaputo che questo è lo stesso motivo che inibisce la ricerca di fonti di energia alternative. I fondi destinati alla ricerca nel campo della fusione nucleare, ad esempio, sono irrisori: circa 3000 miliardi annui a livello mondiale che equivalgono ad un terzo del costo di una centrale nucleare a fissione agli anni 80 o ad un quinto di quanto speso dagli Stati Uniti per lo studio finalizzato alla individuazione di un sito per il deposito dei residui nucleari a “lunga vita”. Questo studio è indispensabile per portare avanti il programma statunitense di nuova proliferazione di centrali nucleari a fissione, parallelamente a quello di incremento della raffinazione di petrolio, necessari a fronteggiare la crisi energetica che attanaglia il paese, il quale non riesce più a garantire (anche a causa della privatizzazione del settore) l’enorme consumo indotto, ad esempio, dall’uso indiscriminato e di massa dei condizionatori climatici. E che dire dell’utilità per l’umanità degli enormi investimenti buttati in progetti assurdi come quello per lo scudo spaziale e il riarmo militare?
La stessa ricerca scientifica, in regime capitalista, è intesa più come una competizione che come un interesse comune. Invece di unire le poche risorse finanziarie le si disperdono in direzioni scoordinate e ostacolanti perché ogni paese va per conto proprio, quando non si affidi ad aziende di ricerca private, pur di arrivare prima degli altri e brevettare le scoperte. Ora è evidente che nessuna misura restrittiva sulle emissioni inquinanti (risultato della produzione) può raggiungere l’efficacia ecologica di una produzione incentrata direttamente su fonti di energia alternativa pulita. Si potrebbero addurre altri esempi, ma basti percepire la enormità delle possibilità di sviluppo per una seria politica ambientalista di fronte alla pochezza dei risultati che essa può raggiungere in ambito capitalista, di cui il sudato protocollo di Kyoto, traguardo di circa 20 anni di impegno delle forze riformiste, è un esempio.
Quali vie di uscita?
Solo in vista di una trasformazione in senso socialista dell’economia mondiale è possibile attuare una efficace politica ambientalista che sia un tutt’uno con la produzione pianificata in base alle reali esigenze dell’uomo, con l’utilizzo di fonti energetiche pulite e riciclate e con la continua ricerca scientifica in tale campo (che sarebbe finalmente liberata dai legacci capitalistici). Solo la gestione democratica della produzione (che impone l’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione), da parte dei lavoratori stessi, può portare a questo risultato. L’ambiente non ha bisogno di controlli sulle emissioni (falso problema) ma di controllo sulla produzione, e solo il socialismo può debellare l’anarchia della produzione capitalista. Al di fuori di questa prospettiva ogni problema particolare diventa insolubile.