"Nessuno ci presta più un soldo". Queste le parole di Domingo Cavallo, superministro dell’economia, davanti all’ennesima crisi finanziaria che ha colpito l’Argentina.
La politica di privatizzazioni iperliberista degli anni novanta che aveva illuso gli argentini con un effimero boom, sta mostrando oggi profondi effetti recessivi. Una recessione economica che dura da tre anni e che continuerà anche per l’intero 2001. Della crisi del modello economico dello scorso decennio non ne stanno pagando le conseguenze solo le masse, ma anche il principale responsabile del disastro, l’ex presidente Menem, arrestato per associazione illecita.
Anche l’uomo della provvidenza, Cavallo, chiamato a salvare il paese neppure quattro mesi fa, si trova in un vicolo cieco. Ormai la bancarotta dello Stato pare sempre più vicina. Il governo argentino o dichiara l’indisponibilità a pagare il debito estero (il 54% del Pil), suscitando le ire del Fmi, o riduce le spese. Cavallo preferisce seguire quest’ultima strada: "Lo stato potrà spendere solo quanto incassa", dichiara, e subito appronta un programma per risparmiare 4,5 miliardi di dollari entro dicembre. Non c’è da stupirsi che le proteste sociali siano sempre più forti.
Artefice della legge sulla parità peso-dollaro dieci anni fa, ora sceglie di svalutare la divisa nazionale per le esportazioni, primo passo per legare il peso anche all’euro. Nella situazione di recessione mondiale tale misura non servirà a vendere più merci argentine ma solo a inasprire le tensioni con gli altri paesi. Infatti il Brasile all’inizio di luglio ha minacciato di interrompere le relazioni commerciali con Buenos Aires.
Così si rincorrono le voci delle dimissioni di Cavallo, o del Presidente De La Rua, o addirittura di tutt’e due. D’altronde l’Alianza (la coalizione tra radicali e Frepaso - un cartello elettorale tipo Ulivo italiano) è a pezzi e il governo si regge unicamente sulla paura del baratro che si aprirebbe in seguito alla sua caduta.
Le lotte non si fermano
Se non si parla di una via d’uscita militare alla crisi come nei tempi passati, è principalmente per l’ascesa prepotente delle masse lavoratrici sulla scena politica. L’Argentina vive una situazione di mobilitazione sociale permanente. Sei scioperi generali in diciotto mesi, l’ultimo il 9 giugno, sempre con una partecipazione massiccia. Lotte delle categorie più diverse si susseguono. Circa cinquanta blocchi stradali continuano ad essere attuati, protagonisti disoccupati e intere famiglie, i piqueteros (picchettanti) che ormai si contano a decine di migliaia.
Esemplare la lotta dei lavoratori delle Aerolineas Argentinas, la compagnia aerea di bandiera venduta alla spagnola Sepi, che ora deve essere liquidata. La vertenza è stata e continua ad essere così compatta, come l’appoggio di grandi settori della popolazione, che il governo è stato costretto a dichiarare che potrebbe rinazionalizzare la compagnia, accogliendo così la richiesta degli scioperanti.
La rivolta sociale è esplosa con tutta la sua forza a General Mosconi, nella provincia di Salta, estremo nord del paese. Potrebbe essere una delle zone più prospere, vista la presenza di grandi riserve di gas naturale, invece è una delle più povere, con il 60% della forza lavoro che è disoccupata o sottoccupata. La situazione è peggiorata dopo la privatizzazione delle raffinerie della Ypf, venduta alla spagnola Repsol e smantellata progressivamente. Da cinque anni il coordinamento dei disoccupati della zona si batte per un salario ai disoccupati e per il lavoro per tutti, arrivando ad effettuare blocchi stradali molto decisi, come quello della Ruta 34 che conduce in Bolivia. Durante uno dei tentativi della Polizia di forzare il blocco, il 17 giugno alcuni cecchini hanno ucciso due manifestanti. La rabbia dei piqueteros è allora scoppiata e per diversi giorni le forze dell’ordine non sono riuscite a sedare la rivolta.
Ancora quando scriviamo, metà di luglio, lo stato non è riuscito a riprendere pienamente il controllo di General Mosconi.
Crisi di un modello di rappresentanza
Le relaciones laborales argentine si basavano su un profondo intervento statale e una forte regolamentazione normativa, nonchè da un alto grado di centralizzazione della struttura contrattuale che ha prodotto negli anni del dopoguerra una sempre più radicale istituzionalizzazione del sindacato. Tale modello, che affonda le sue radici nel peronismo, entra in crisi con l’ultima dittatura nel 1976 che, allo scopo di attenuare la crisi economica e di alzare il tasso di produttività, impose un disciplinamento estremo alla classe operaia attraverso il massacro e la repressione di qualsiasi opposizione sindacale, la soppressione della legislazione a difesa dei lavoratori, e una vistosa riduzione dei salari.
Il ritorno alla democrazia borghese nel 1983 ha posto le basi per la nascita di un nuovo modello. Le linee guida di quest’ultimo si sostanziano nei concetti di decentralizzazione e di flessibilizzazione salariale, accompagnati da una forte apertura ai mercati internazionali e dalla necessità di una riorganizzazione del lavoro e del processo produttivo.
Ma ancora più importanti delle trasformazioni del settore privato sono quelle del settore pubblico. È noto, infatti, il ruolo che sempre ha avuto lo Stato nelle relazioni con il sindacato. Scambio privilegiato che, dagli anni del primo governo Peròn fino al suo ritorno nel ‘73, ha inglobato e limitato ma allo stesso tempo legittimato e istituzionalizzato il sindacato, diventato colonna portante di un intero movimento, quello peronista.
Oggi lo Stato si rivolge altrove guardando con un particolare occhio di riguardo al mondo imprenditoriale e soprattutto finanziario, determinando la crisi di un intero movimento travolgendo il soggetto di rappresentanza dei lavoratori ma aprendo anche nuove sfide.
Il padronato si orienta infatti da una parte verso una ulteriore diminuzione del costo del lavoro, e prevede solo aumenti per produttività, stabiliti nei contratti aziendali, e dall’altra verso una maggiore flessibilità delle condizioni lavorative. Il mercato del lavoro oggi è sempre più dominato così, oltre che da una percentuale di disoccupati pari al 16%, da un vasto settore informale.
L’applicazione di questa nuova politica orientata al lavoro, o meglio, al "non lavoro" è dimostrata anche dal punto di vista giuridico da tre fattori.
Il primo è la "Ley de Empleo" del 1991 che crea nuove figure contrattuali, tese ad eliminare l’istituto della stabilità, il secondo è la regolamentazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, ed in fine un decreto sulla contrattazione salariale che stabilisce tutti i criteri per gli aumenti salariali, procedura prima assolta dalla contrattazione nazionale.
Queste nuove condizioni hanno prodotto un cambiamento del ruolo del sindacato molto significativo. In primo luogo oggi possiamo osservare una divisione in più centrali sindacali alternative alla storica Cgt (Confederaciòn General del Trabajo) che mostrano concezioni e modelli organizzativi differenti, come ad esempio la Cta (Congreso de los Trabajadores Argentinos), impegnata ad attuare una politica di "barrios" ossia di recupero dei quartieri più disastrati, o la stessa Mta, o Cgt dissidente di Moyano, che nasce da una scissione politica interna al gruppo dirigente della Cgt e che oggi raggruppa i più importanti sindacati del settore dei trasporti, agguerritissimi protagonisti dei già menzionati picchettaggi.
La forte delusione dei lavoratori per le manovre di "risanamento" che impoveriscono ulteriormente gli strati più deboli della popolazione è sfociata negli ultimi mesi nelle lotte descritte. Le lotte spesso non sono supportate dagli stessi sindacati (in particolare la CGT ufficiale), i quali continuano a mantenere un atteggiamento di indifferenza e rifiuto, chiusi nelle loro pratiche corporative tese al mantenimento dei centri di potere.
Tagli salariali
La prossima manovra prevede che i salari (di 300 pesos mensili, un peso vale un dollaro e il costo della vita supera abbondantemente quello italiano) verranno decurtati fino al 10% insieme alle pensioni, e che i dipendenti pubblici avranno gli stipendi bloccati. In compenso alla fine del prossimo mese si vedranno arrivare una lettera di scuse del presidente De la Rua incitante lo "sforzo patriottico" più un bollettino di offerta libera per il risanamento delle casse dello stato! I volti arrabbiati dei camioneros in mezzo alla ruta per giorni e giorni, la violenza inaudita delle manifestazioni contro l’Alca, la povertà mai vista delle billas, e ancora gli studenti che frequentano l’Università di Buenos Aires, che hanno affiancato i lavoratori per ribadire il loro diritto ad una università libera ma soprattutto gratuita, costituiscono lo sfondo drammatico di una realtà complessa che riscopre l’arma del conflitto come mezzo per risollevare la propria dignità di lavoratori e di cittadini.
A noi lavoratori e giovani italiani non rimane che trarre ispirazione dagli avvenimenti dell’Argentina, un paese che sembrava narcotizzato dalla devastazione sociale portata avanti dal capitalismo, ma dove le masse stanno sempre più prendendo in mano il proprio destino.