Su uno sfondo romanzesco, Jack London abbozza il racconto di una tranche de vie di tutta la classe operaia americana, dalle avvisaglie discrete di un’insurrezione fino all’indomani della sua sanguinosa disfatta.
La copertina di un edizione inglese de "Il tallone di ferro" |
Ora, ed è l’aspetto più sorprendente, quest’opera fu scritta intorno al 1907, e colloca l’azione fra il 1914 e il 1918: così, in un’epoca in cui il riformismo e il pacifismo costituivano la dottrina ufficiale della stragrande maggioranza dei dirigenti socialisti contemporanei di Jack London, quest’ultimo delineava al contrario la prospettiva di un colossale confronto tra i capitalisti e la classe operaia, nel corso del quale riformismo e pacifismo sarebbero, di fatto, polverizzati sotto il “tallone di ferro” – espressione con la quale l’autore designa la classe dirigente e i suoi vari rappresentanti.
Era facile, nel 1907, come hanno fatto i riformisti, accusare il romanzo di pessimismo e concludere che dopo tutto non si trattava che di una finzione, che l’autore aveva un’immaginazione molto cupa, e che loro, i socialisti, tenevano saldamente in mano le vere redini del progresso sociale. Ma questa critica non regge, e infatti non affronta realmente il romanzo. Perché Jack London non si accontenta di supporre arbitrariamente la possibilità di una grave disfatta della classe operaia, ma, al contrario, descrive il processo storico e politico che conduce ad essa.
Egli mette in luce la sottomissione fondamentale dell’intero sistema capitalista agli interessi della classe economicamente dominante, e questo nonostante il capitalismo sia tenuto a dare senza sosta l’illusione di poggiare su delle strutture democratiche trasparenti. Jack London mostra come la stampa, la giustizia, il sistema educativo e le istituzioni politiche, una volta slegati dalle forme dell’indipendenza di cui si fregiano, si rivelano fortemente imprigionati. Ora, proprio perché sono strumenti di dominio, un dirigente socialista ha il dovere di avere una giusta comprensione del loro ruolo e della possibilità di utilizzarli, così come sono in un regime capitalista, a vantaggio del movimento operaio. Sul piano politico, il pericolo consiste nel non vedere i limiti degli ingranaggi ufficiali, o “costituzionali”, del potere. Quando la situazione lo esige, perché ne va del suo potere, la classe dominante non esita a spazzar via la sacrosanta costituzione, per sostituire ad essa le forme politiche con il grado di repressione di cui ha bisogno. A più riprese, il personaggio principale del romanzo, Ernest Everhart, dirigente lucido del movimento operaio, cerca di liberare i suoi compagni dall’idea che di vittoria elettorale in vittoria elettorale, passo dopo passo, una legge dopo l’altra, i socialisti trasformeranno il mondo, per alzata di mano, dall’alto del loro seggio parlamentare. Invano. Ed è proprio lo spettro del riformismo che sentiamo aggirarsi, alla fine del romanzo, lungo le strade di Chicago ingombre di lavoratori massacrati.
La storia ha ampiamente confermato la prospettiva storica de Il tallone di ferro. Ma la lucidità profetica di quest’opera raggiunge il suo apice nella descrizione dei meccanismi del potere dittatoriale che si organizza per contrastare la spinta del movimento operaio. Vi si riconosce in effetti la fisionomia sociale e politica di ciò che fu il fascismo: il suo regime di terrore, l’estensione dei poteri della polizia e dell’esercito, il violento rigetto delle organizzazioni operaie nell’illegalità, e infine la formazione di un’“aristocrazia operaia” che serva da serbatoio sociale alla reazione. A questo proposito, contro tutti gli storici della domenica (il cui studio della storia è talvolta, ahimé, la loro attività principale) che interpretano il fascismo come l’irruzione improvvisa e irrazionale di un fenomeno di follia collettiva, bisogna notare che uno scrittore socialista ha saputo anticiparne certe caratteristiche fondamentali, quando niente di concreto, nella sua epoca, lo preannunciava.
Il tallone di ferro ha altre qualità: il suo stile è vivace e attraversato da immagini molto belle; certi dialoghi, e soprattutto quelli che oppongono Ernest ai cantori del capitalismo, sono l’occasione di esposizioni vive, e spesso molto divertenti, di alcuni punti della teoria marxista. Ma ora che, in Francia e altrove, i dirigenti politici e sindacali del movimento operaio ci servono ancora il piatto del riformismo, mille volte riscaldato e mille volte rigettato dalla Storia, è senza dubbio la dimensione rivoluzionaria de Il tallone di ferro che ne fa un’opera attuale.
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