Il 24 aprile a Savar, un quartiere della città di Dacca in Bangladesh, è crollato il Rana Plaza, una palazzina che ospitava cinque fabbriche tessili in cui lavoravano 3mila operai, provocando 501 morti e 1.200 feriti.
Non si è certo trattato di una fatalità. L’edificio poggiava sull’area di uno stagno riempito con terreno friabile e di recente era stato rialzato di un piano per farci lavorare ancora più operai. Nei giorni precedenti al crollo erano state scoperte pericolose crepe sui muri, ma il proprietario dello stabile e i padroni delle fabbriche si erano rifiutati di sgomberare lo stabile, minacciando di non pagare gli operai se non avessero continuato a lavorare nonostante il pericolo. Il proprietario del palazzo è stato arrestato dalla polizia mentre cercava di fuggire in India. Sono stati arrestati anche i capi delle fabbriche e due ingegneri che avevano firmato le autorizzazioni di agibilità senza verifiche, probabilmente dietro il pagamento di tangenti.
Quello di Savar è indubbiamente il più grave incidente nella storia industriale del Bangladesh, ma non è certo l’unico. Nella stessa città di Dacca, il 16 novembre 2012, la fabbrica tessile Tazreen è stata distrutta da un incendio: l’unica uscita di sicurezza era sbarrata e 125 operai sono morti tra le fiamme. Nei cinque anni precedenti almeno altri 500 operai tessili erano morti a causa di incendi nelle fabbriche.
Qual è la ragione di questa vera e propria strage? è semplice: il profitto delle multinazionali. Le fabbriche del Rana Plaza lavoravano capi di abbigliamento soprattutto per società straniere come l’inglese Primark, le spagnole Corte Ingles e Mango e le italiane Yes-Zee e Benetton. La fabbrica Tazreen invece produceva per Wal Mart, Disney ma anche per la nostrana Piazza Italia.
Con 20 miliardi circa di fatturato il settore tessile rappresenta l’80% delle esportazioni del Bangladesh e assorbe il 40% della manodopera industriale, con 4.500 fabbriche che impiegano ben 3 milioni e mezzo di operai, per l’80% donne. Le condizioni di lavoro sono atroci: le operaie lavorano in media 12 ore al giorno per salari inferiori a 30 euro al mese, ammassate a centinaia dentro spazi angusti, zeppi di materiale infiammabile e privi di areazione.
Molti commentatori “progressisti” sostengono che la colpa di questa tragedia sia di noi tutti “occidentali” che comunque compriamo vestiario a basso prezzo. Ma la soluzione non può venire dai “consumatori”, che nella stragrande maggioranza non possono permettersi altri tipi di prodotti. Anche un ipotetico boicottaggio totale non provocherebbe altro che la chiusura delle fabbriche e di conseguenza il licenziamento dei lavoratori. L’unica forza in grado di porre fine allo sfruttamento è la stessa classe operaia bengalese, che nell’ultimo periodo si è mobilitata per migliorare le proprie condizioni.
A maggio dell’anno scorso gli operai del settore tessile sono scesi in sciopero per richiedere sicurezza sul lavoro e aumenti salariali, paralizzando più di 300 fabbriche per diverse settimane, nonostante la repressione violenta della polizia. In quell’occasione i rappresentanti di 19 marche del mercato mondiale tra cui Wal Mart, H&M e Carrefour si incontrarono con il Ministro del lavoro di Dacca e minacciarono di chiudere le imprese se non fossero stati interrotti gli scioperi. La protesta si concluse con il riconoscimento di piccoli aumenti salariali, ma la tragedia del Rana Plaza ha riacceso lo scontro di classe. Migliaia di lavoratori del settore tessile sono scesi nelle strade in varie parti del paese, invocando la punizione per i responsabili del disastro. I manifestanti hanno bloccato per varie ore alcune delle principali strade, hanno preso d’assalto altre fabbriche tessili e, armati di bastoni, si sono scontrati con la polizia. Sull’onda di questa reazione spontanea, il primo maggio si sono svolti cortei di massa in tutto il paese.
Quello che noi possiamo fare per aiutare questa lotta non è comprare “made in Italy”, ma combattere per rovesciare questo sistema economico che, per garantire i profitti delle multinazionali, provoca tragedie come quella di Savar.