Il 12 marzo il primo ministro serbo Zoran Djindjic è stato ucciso da due o tre cecchini nel cortile dello stesso palazzo del governo. Questo avvenimento pone la parola fine alle illusioni sulla possibilità di una Serbia “europea”, cioè con un capitalismo politicamente stabile e relativamente prospero.
In realtà questo assassinio non deve apparire inaspettato nella situazione serba odierna: negli ultimi due anni i casi irrisolti di assassinii di gansters come pure di funzionari di Stato sono diventati di normale amministrazione in questo paese.
Per Djindjic, come per i suoi meno illustri predecessori, si riapre la comoda ipotesi della mafia che uccide; “ovviamente” maligna e assassina e ora anche nemica delle “riforme” che il “modernizzatore” (leggi privatizzatore) Djindjic voleva promuovere. Per la nostrana stampa borghese è quindi semplice questione di lotta del bene (il loro bene, cioè il capitalismo) contro il male. La realtà è ben più complessa e l’ipotesi mafia scricchiola.
Lo scorso novembre Mrko Nikovic, ex capo della polizia di Belgrado e attualmente vicepresidente dell’Associazione Internazionale per la Lotta contro la Droga, in occasione dell’arresto dei presunti assassini del generale della polizia serba, ha così dichiarato in un’intervista al settimanale belgradese Blic news: “alla criminalità non conviene la destabilizzazione dello Stato. Alla criminalità organizzata conviene che le cose continuino ad andare avanti come sono sempre andate fino adesso, che nessuno li disturbi. I criminali non vogliono grandi rivolgimenti politici”. Più probabile è che qualcuno dall’interno dei vertici dell’apparato statale abbia reclutato la criminalità organizzata per l’uccisione di Djindjic. Infatti sempre nella stessa intervista Nikovic afferma: “i criminali da soli, senza l’aiuto di infrastrutture della polizia, non possono compiere nessun omicidio cruciale… a Belgrado sono stati uccisi molti capi di singoli clan e gruppi politici, ivi incluso lo stesso Arkan. Tutto dipende da chi è vicino all’establishment e ha dato più soldi all’establishment o alla polizia, oppure è stato ritenuto dall’establishment un collaboratore più prezioso di altri”.
Allora chi, dall’interno dei vertici statali? Forse, come si insinua spesso da parte dei commentatori borghesi, i residui del vecchio apparato di Milosevic? Forse, ma non si vede un motivo particolare; infatti, come ha sintetizzato il noto commentatore politico montenegrino Nebjosa Medojevic in un intervista pubblicata ancora da Blic News il giugno scorso: “il governo di Djindjic, grazie al metodo con cui privatizza le imprese serbe, ha dato in pratica la possibilità a tutti coloro che hanno saccheggiato la Serbia di legalizzare le loro rapine”.
Forse allora si potrebbe puntare il dito contro apparati statali non serbi. Agli Usa non deve essere piaciuta la recente fretta del governo serbo di arrivare ad una spartizione del Kossovo: questo ha rinfocolato la tensione nella regione nonché l’attività terroristica dell’Uck; di sicuro in un momento in cui l’amministrazione Bush vuole concentrare la sua attenzione militare altrove. Ancora meno deve essere piaciuta a Bush & C. l’attività della Jugoimport. Questa azienda statale prossima alla privatizzazione è stata finora il gigante dell’economia jugoslava. Quello che deve essere spiaciuto al governo Usa è il fatto che dopo un decennio di esportazioni d’armi all’Iraq, questo è continuato anche sotto il governo Djindjic, in modo sotterraneo, usando società d’esportazioni collegate alla Jugoimport.
D’altra parte si può obbiettare che proprio Djindic era il cavallo di Troia del capitalismo europeo e nordamericano in Serbia e come tale lo hanno sempre spalleggiato.
In verità si potrebbe andare avanti all’infinito con le congetture, ma queste sono destinate a rimanere tali. Più interessante è il motivo per cui è praticamente impossibile andare oltre le congetture.
Per cominciare a capire definiamo Djindjic: costui, nonostante la sua pronta santificazione ad opera del governo serbo e della stampa internazionale, era un vero filibustiere della politica.
Djindic iniziò la sua carriera politica come studente dissidente alla facoltà di filosofia di Belgrado. Di ritorno dal master in Germania, si orienta a sinistra e flirta con idee anarchiche. Quando la burocrazia titoista comincia a perdere il controllo della situazione, nel 1989, aderisce al Partito Democratico, in opposizione da destra alla burocrazia e favorevole ad una aperta e rapida restaurazione del capitalismo. Nel 1994 raggiunge il vertice del partito sgambettando il suo stesso protettore e fondatore del Partito Democratico, Draljub Micunovic. Durante il periodo di Milosevic, Djindjic non fu mai in grado di guadagnare grande popolarità a se stesso e al suo partito; specialmente ostile gli è sempre stata la classe lavoratrice a causa delle sue posizione ultra filoccidentali. In occasione delle manifestazioni di massa del 1996 contro Milosevic, Djindjic (uno dei leader del movimento di protesta) si fece beccare con le mani nel sacco del doppio gioco: fu scoperto ad aver negoziato per tutto il tempo delle proteste con lo stesso Milosevic, che come ringraziamento dopo le proteste lo fece sindaco di Belgrado. Carica che ricoprì per un breve periodo, dato che quando iniziò l’aggressione Nato subito Djindjic lasciò il paese sotto i bombardamenti, lamentandosi che la sua vita era in pericolo!
Come puntualizza Goran M. editorialista della rivista marxista Serba Pobunjeni Um “fino ad oggi Djindic ha sempre avuto bassi consensi nei sondaggi d’opinione. Ciononostante, nonostante la mancanza di un seguito di massa, è stato un grande organizzatore, un leader d’opposizione con numerosi contatti e agganci. Il suo partito ben organizzato e i suoi agganci con gente negli apparati di sicurezza dello Stato -che prima stavano dietro a Milosevic- gli diedero un ruolo importante. Dopo la caduta di Milosevic egli era l’unico leader dell’opposizione con la capacità e le infrastrutture per prendere in mano il potere statale e fare andare avanti le cose. Negli ultimi due anni ha tenuto quasi tutte le leve del potere nelle sue mani, lasciando solo le briciole agli altri leader della coalizione di governo. Ma proprio le circostanze politiche che hanno consentito a Djindjic una rapida ascesa, ne hanno decretato la morte.”
Nelle nazioni occidentali dominate da borghesie stabili il governo e il suo primo ministro godono di qualche tipo di appoggio sociale. Questa non è affatto la situazione serba e tantomeno la situazione di Djindjic. Djindjic fin dall’inizio del suo governo godeva della diffidenza dei lavoratori, come abbiamo già ricordato, e coerentemente si mise sulla strada già imboccata da Milosevic, ma con il piede sull’accelleratore. Mentre infatti Milosevic si adoperò molto attivamente per sgretolare l’economia statalizzata jugoslava, lo fece sempre con una certa prudenza, evitando di provocare troppo apertamente i lavoratori. Per esempio da una parte Milosevic stampava denaro con salari fissi per aumentare i profitti delle imprese già privatizzate, ma dall’altra non usava la mano troppo pesante nel far ciò e manteneva una certa assistenza sociale: Djindjic invece ha subito molta fretta di compiacere i suoi sponsor internazionali e il Fmi, fa a pezzi lo stato sociale e già nei primi tre mesi del suo governo era riuscito ad abbassare i salari reali tra il 30 e il 60%, mentre, nello stesso periodo, il prezzo dei beni di prima necessità (con i salari nominali bloccati) saliva addirittura fino al 300%!
Solo la classe dei capitalisti ha tratto benefici dall’operato del governo Djindjic, con i profitti che si sono alzati a spese dei salari. Ma i capitalisti sono gente pratica che non si perde in ringraziamenti e riconoscenza, tanto più con chi non è uno di loro, ma solo un parvenu, un piccolo filibustiere della politica come Djindjic. Costui poteva appoggiarsi solo sulla corruzione dell’apparato statale (anche se a parole diceva di volerla combattere),
A questo punto non è difficile capire in che pasticcio si sia cacciato Djindjic. Djindjic si è trovato a fare il filibustiere politico non in Svizzera, ma in un paese disastrato dalla guerra e da una crisi economica che addirittura anticipa quella internazionale, sottoposto alla cupidigia delle multinazionali di ogni dove. In una situazione del genere è impossibile accontentare tutti i settori della classe dominante a livello nazionale e internazionale: qualcuno, oltre ai lavoratori, deve finire per essere scontentato. Qualche gruppo di capitalisti, nazionali o stranieri che siano, finisce per rimetterci dei profitti… a quel punto il destino di Djindic è segnato. Gli scontenti fanno leva sull’apparato statale che lascia campo libero alla criminalità organizzata (se non addirittura agisce in proprio); Djindjic è un uomo morto.
Per adesso questa è solo una storia serba, ma in realtà è musica del futuro anche per i paesi capitalisti avanzati: con l’avanzare della crisi economica gli scontri tra gruppi capitalisti saranno sempre più frequenti. La barbarie che la crisi del capitalismo sta trascinando dietro di se può essere fermata solo se il movimento dei lavoratori sarà in grado di prendere il controllo della società, in Serbia come nel resto del mondo.
Aprile 2003