Nuove insidie e nuove speranze si addensano sul già infuocato orizzonte boliviano. Al giro di boa di questo straordinario anno di mobilitazioni, i lavoratori, i contadini ed i popoli originari del paese andino sono arrivati mostrando una eccezionale coscienza politica e capacità di apprendere dalla loro lunga, secolare esperienza di orgogliosa lotta per l’emancipazione. Hanno deposto un altro presidente, sventato un “colpo di stato istituzionale”, spaginato i piani secessionisti della borghesia della ricca regione orientale di Santa Cruz de la Sierra, fino ad arrivare a porsi l’obiettivo strategico della conquista del potere alle classi subalterne. Qui nacque il capitalismo diceva con una estremizzazione, ma non senza ragione, Eduardo Galeano parlando della Bolivia coloniale ne “Le vene aperte dell’America Latina”. Qui all’alba del terzo millennio comincia a morire, nella lotta e nei desideri di milioni di sfruttati.
Da Sanchez de Lozada a Rodriguez Veltzè
All’inizio dell’anno la situazione sembrava, apparentemente, volgere decisamente a favore della borghesia boliviana e dell’imperialismo che la sostiene. Il presidente Mesa era riuscito con la concertazione e l’appoggio del principale partito d’opposizione, il Movimiento Al Socialismo (Mas) di Evo Morales, ad ottenere quello che con gli oltre 70 morti tra il febbraio e l’ottobre del 2003, in solo un anno di presidenza, non aveva potuto realizzare Gonzalo Sanchez de Lozada (Goni): legittimare il saccheggio del gas boliviano ad opera delle multinazionali con un referendum truffa - sommerso da una valanga di astensioni e schede bianche - dal quale spariva il tema della nazionalizzazione, e dividere i movimenti sociali particolarmente accentuando le divisioni tra minatori delle cooperative e quelli dipendenti dalla statale Comibol e delle imprese private. La borghesia latifondista di Santa Cruz de la Sierra e di Tarija, nei cui dipartimenti si concentra il grosso del gas boliviano, utilizzando strumentalmente la mobilitazione contro l’aumento del carburante, il dieselazo, aveva raccolto più di 400mila firme per la convocazione del referendum che dovrebbe sancire l’autonomia regionale, primo passo verso la possibile secessione del paese nel nome della fedeltà agli interessi dell’imperialismo. Temevano il ritorno delle lotte sociali, ed avevano ragione.
A gennaio da El Alto - la città di poco meno di un milione d’anime che domina la valle e le vie d’accesso a La Paz - uno sciopero di meno di una settimana serve a far rescindere il contratto con la Aguas de Illimani, filiale della multinazionale francese Lyonnaise des Aux Suez, colpevole di aver aumentato le tariffe e tagliato i servizi. Ma dalle barricate cittadine torna ad imporsi il tema della nazionalizzazione del gas. A marzo una nuova ondata di mobilitazioni, rese ancora più aspre dalle minacciate dimissioni di Mesa, spinge il parlamento a dare priorità alla discussione della nuova legge sugli idrocarburi piuttosto che alla convocazione del referendum sull’autonomia, mentre ad oriente i fabriles (operai di fabbrica) e i dipendenti della sanità, per bocca dei rispettivi rappresentanti Edwin Fernandez e Delicia Mendoza, denunciano apertamente i piani della oligarchia, e danno inizio alle defezioni dal progetto autonomista di ampi settori della popolazione. Agli inizi di maggio il parlamento approva la nuova legge sugli idrocarburi, prevedendo un aumento dei diritti di estrazione (royalties) al 18%, e delle imposte al 32%, imposte tanto deducibili da far affermare al rappresentante della Repsol in Bolivia non è cambiato niente. Ciononostante Mesa contesta la suddetta legge, esercitando il diritto costituzionale a rispedirla eventualmente alle camere, ritenendola eccessivamente punitiva nei confronti degli investimenti stranieri(!). Il 16 maggio la legge viene definitivamente approvata con la firma del presidente del senato Hormando Vaca Diez: la miccia è definitivamente accesa.
La Central Obrera Regional (Cor) di El Alto diretta dall’operaio Edgar Patana convoca lo sciopero indefinito. La Central Obrera Boliviana (Cob) diretta dal minatore Jaime Solares si unisce allo sciopero, e così la Fejuve di El Alto, le giunte vecinales, una specie di comitati di quartiere con funzioni istituzionali, il cui presidente è il carpentiere Abel Mamani. Gli insegnanti per bocca della dirigente Wilma Plata trasformano il loro sciopero per aumenti salariali nello sciopero generale per la nazionalizzazione del gas. I minatori della Fstmb di Miguel Zubieta interrompono il loro congresso per unirsi allo sciopero e si dirigono da Huanuni a El Alto, nuovamente epicentro delle mobilitazioni, mentre i minatori delle cooperative, nonostante non ci sia mai stata una ufficiale convocazione del loro sindacato la Fencomin, cominciano ad organizzarsi nei luoghi di lavoro per bloccare le vie di comunicazione, o per sommarsi all’assedio di La Paz. Una marcia di 500 fra contadini e militanti del Mas guidata da un senatore del partito nonché segretario del sindacato dei contadini Csutcb Roman Loayza parte da Caracollo e per 196 km svuota sperduti villaggi dell’altopiano fino a portare oltre 6.000 persone a La Paz. I contadini ed i popoli originari (indigeni) del dipartimento di La Paz, raggruppati nella Federacion Unica Departamental Trabajadores Campesinos - Tupaj Katari guidata da Gabriel Choque, bloccano tutte le vie di comunicazione ed organizzano l’assedio alla città. Giungeranno a La Paz in diverse decine di migliaia per essere ospitati nelle facoltà Umsa di La Paz e Upea di El Alto. La mobilitazione si estende rapidamente a tutto il paese con scioperi regionali ed infiniti blocchi stradali condotti da insegnanti, operai, e la grande massa contadina delle zone rurali del paese. Persino Santa Cruz de la Sierra è assediata e nonostante i minacciosi avvertimenti del comitato referendario la città e il dipartimento fremono in preparazione dell’inevitabile scontro tra i gruppi fascisti della Union Juvenil Cruceñista (Ujc), appoggiati dalla polizia locale, e i settori sociali, concentrati nei blocchi lungo la Cochabamba - Santa Cruz, (la strada percorsa dal 55% di tutte le merci che circolano in Bolivia), a San Julian, Santisteban, le città controllate dal Mas, e a sud nella zona di Camiri, la regione dei Guaranì, e nelle zone dove i Sin Tierra del Mst di Moises Torres hanno lanciato l’occupazione di latifondi. Nella capitale orientale si organizza un comitato per la nazionalizzazione del gas, composta da universitari, dipendenti della sanità, fabriles, disoccupati e militanti del Mas per rispondere alle aggressioni fasciste della Ujc. A Tarija lavoratori e disoccupati occupano sedi istituzionali, mentre marce e cabildos (assemblee pubbliche) si susseguono a Cochabamba, Potosì, Oruro e persino nei lontani dipartimenti di Beni e Pando. El Alto è, senza ancora alcuna proclamazione ufficiale, capitale delle mobilitazioni. Il 20 maggio in parlamento il Movimiento Nacionalista Revolucionariocultura indigena e quella europeggiante di Santa Cruz e Tarija. Trecento sindacalisti guidati da Jaime Solares, con la complicità dei settori della polizia a guardia del palazzo, fanno irruzione nel parlamento e mettono in disonorevole fuga i deputati. Immediatamente la vigilanza dei luoghi del governo viene affidata ai gruppi selezionati dell’esercito, basati su addestramenti di scuola statunitense. In realtà l’esercito è spaccato, come dimostrano le dichiarazioni spesso contraddittorie dei suoi comandi, e l’atteggiamento da spettatore e impassibile guardiano dell’unità nazionale è l’unica forma per tenerlo unito. Nel frattempo arresti, scaramucce e scontri si ripetono continuamente. Dalla Cor di El Alto comincia a prendere corpo la rivendicazione del governo operaio e contadino come unica via d’uscita rivoluzionaria alla crisi, mentre nel paese si moltiplicano le occupazioni di pozzi petroliferi e del gas. (Mnr) presenta una proposta di legge per la convocazione del referendum autonomista di Santa Cruz, con il chiaro obiettivo di far diventare il conflitto sociale da espressione della lotta di classe, come emerge essere sempre più chiaramente, ad uno scontro socialmente neutro tra diverse idee d’assetto istituzionale, dalla lotta dei poveri contro i ricchi e viceversa, a quella tra la
Il Mas fino ad allora aveva mantenuto un basso profilo, effetto delle contraddizioni tra la direzione e la pressione della propria base. Il 23, Morales in un comizio nella Plaza San Francisco di La Paz voleva convincere i suoi a lottare per un aumento delle imposte alle multinazionali: la base del partito risponde con i fischi e il coro “né 30, né 50, nazionalizzazione!”. La direzione del Mas è isolata, abbandona definitivamente Mesa e con una capriola riformula la propria linea: nazionalizzazione di fatto del gas (formula confusa, difficile da spiegare ma che serve a riprendere i legami con i movimenti sociali), presidenza a Rodriguez Veltzè, presidente della corte suprema di giustizia e primo non politico nella linea di successione istituzionale innescata dalle dimissioni di Mesa, elezioni generali e Assemblea Costituente.
Con la mediazione della chiesa il primo passo si compie il 6 giugno: Mesa si dimette. Ma non è ancora un successo della strategia Masista. In primo luogo la direzione di El Alto, seppur tardivamente rispetto allo sviluppo degli eventi, in uno storico cabildo a La Plaza de Los Heroes, sulla spinta della presenza di mezzo milione di persone che inneggiano al governo operaio - contadino lancia la convocazione dell’Assemblea Popolare Nazionale Originaria di Bolivia, definita nel suo atto fondativo dell’8 giugno, strumento di potere delle masse boliviane. Lo stesso documento di fondazione proclama El Alto capitale della rivoluzione boliviana del secolo XXI, e lancia la formazione di comitati di autorifornimento, di difesa e di stampa, e di assemblee popolari di base in tutto il paese. Il cardinale di Santa Cruz Terrazas afferma i demoni si sono impossessati di El Alto, Edgar Patana della COR risponde come demoni continueremo a lottare fino alla conquista del potere!
In secondo luogo la borghesia e l’imperialismo, prima di cedere terreno, vogliono verificare la possibilità di una uscita reazionaria alla crisi, consci comunque del bagno di sangue che questa comporterebbe. Hormando Vaca Diez, presidente del Senato, uomo del Mir, latifondista, legato alle più importanti famiglie di narcotrafficanti del paese, dichiara di non voler rinunciare alla possibilità d’essere Presidente della Repubblica, con l’avallo del settore più reazionario dell’esercito che frattanto, col placet del comitato civico, si prepara a piegare la resistenza a Santa Cruz, ed annuncia la volontà di far rispettare le decisioni del parlamento. Il 9 giugno, dopo la morte di Carlos Coro Mayta, colpevole d’essere minatore, d’appartenere cioè a quella categoria professionale ritenuta dal Ministro degli Interni Saùl Lara in grado di turbare i lavori del congresso, ed una immensa mobilitazione popolare a Sucre dove era stato convocato il parlamento, Vaca Diez rinuncia, e Rodriguez Veltzè diviene presidente. Il Mas dichiara immediatamente tregua spiazzando la propria base, stanca ed affamata dopo 21 giorni di marce e scioperi ininterrotti, e la direzione di El Alto, davanti alla divisione del fronte ed alle difficoltà che questa comporta nella gestione dell’assedio di La Paz, seppur con qualche giorno di ritardo, è costretta a sospendere lo sciopero, non senza aver riaffermato l’obiettivo strategico del governo operaio e contadino.
Il filo ininterrotto
Si tratta solo di una tregua, che non illude nessuno di quelli che conoscono la storia, ricca di lotte e tradizioni sociali, del paese andino, storia che la stampa, spesso non solo quella borghese, tenta di liquidare considerando la Bolivia come l’autentica repubblica delle banane, il paese che ha avuto più colpi di stato che anni di indipendenza (189 dal 1825), senza spiegare che questa è una conseguenza di 500 anni divisi tra le battaglie dei popoli originari contro il genocidio coloniale, e quelle dei lavoratori contro lo sfruttamento capitalista. Caso unico in America Latina, e raro in tutto il mondo, in Bolivia nel 1952 le milizie proletarie urbane, non una guerriglia contadina, sconfissero in campo aperto l’esercito regolare, sostituendosi ad esso per circa tre anni. Erano alcune decine di migliaia di minatori, molto meno del 10% della popolazione economicamente attiva, ma erano preparati politicamente e militarmente. Nelle Tesi di Pulacayo, approvate nel 1946 al 1° Congresso Straordinario del loro sindacato, spiegavano agli sfruttati di tutto il paese che l’arretratezza della Bolivia era frutto del capitalismo e non dell’assenza di sviluppo capitalista, e con un programma parente stretto del programma di transizione di Trotski si fecero carico dei problemi dei contadini, della questione indigena. Da allora e per sempre i minatori sono visti naturalmente dalla popolazione come la direzione legittima di ogni movimento sociale si sviluppi in Bolivia, ed hanno sempre pagato col sangue il ruolo che essi stessi sanno d’avere. Quando la direzione della Cob riuscì a riportare le rivendicazioni dei lavoratori sul piano economico, col favore di tutta la sinistra che alimentava illusioni nella retorica nazionalista del presidente Victor Paz Estenssoro, i minatori furono gli ultimi a cedere. Non gli bastava aver ottenuto la nazionalizzazione delle miniere, il suffragio universale e la riforma agraria, volevano il controllo operaio della produzione ed espropriare la borghesia. Alla fine alla borghesia non bastò più aver conquistato la direzione del sindacato dei contadini ed avere l’appoggio di Juan Lechin, il dirigente della Cob, per piegare i minatori, e la rivoluzione cedette il passo alla serie di dittature militari e brevi governi civili che hanno continuato a svendere la ricchezza del paese e le conquiste della rivoluzione. La crisi di oggi è figlia del fallimento della prima rivoluzione boliviana, ma ne è anche la continuazione.
Nel 1985 lo stesso Victor Paz Estenssoro fu chiamato a piegare la opposizione al piano di ristrutturazioni e privatizzazioni dettato dal Fmi e da una situazione economica sull’orlo della bancarotta per effetto del debito estero, contratto dalle dittature militari, dell’inflazione e della caduta del prezzo dello stagno. Dopo aver fermato con l’esercito a Calamarca la Marcha por la Vida dei minatori ne licenziò 23.000, oltre a 77.000 dipendenti del settore pubblico, ed aprì le porte al capitale straniero, specie europeo, che attualmente compete e spesso sovrasta la presenza Usa. È il loro esodo ad aver creato El Alto, prima sobborgo di La Paz poi dichiarata municipio indipendente il 6 marzo 1986. Nel corso degli anni ’90 il movimento operaio boliviano soffrì dei durissimi processi di ristrutturazione prodotto della democrazia borghese. Il testimone della lotta passò nelle mani delle formazioni, anche guerrigliere, dei popoli originari. Ma il filo non si era spezzato né interrotto, e questa nuova ondata rivoluzionaria lo dimostra.
Rivolta indigena o rivoluzione operaia?
C’è il tentativo invece di far credere che l’attuale crisi sia prodotto in realtà della irrisolta questione indigena, che i movimenti reali e le loro direzioni siano indigeni in lotta per il proprio riconoscimento “identitario”. È una corrente di pensiero che in Bolivia ha il suo massimo esponente in Alvaro Garcia Linera, nome già segnalato negli articoli pubblicati sul nostro sito, accademico, bianco, che dai salotti televisivi come dai libri non perde occasione per riaffermare la fine della classe operaia boliviana. Purtroppo spesso nella sinistra italiana si parte dalle distorsioni romantiche di questo ex guerrigliero per descrivere l’attuale situazione. Per affrontare il tema in modo scientifico utilizzeremo i dati dell’Istituto Nacional de Estadistica boliviano.
I numeri: i popoli originari in Bolivia sono il 49,51% della popolazione, e con i meticci arrivano a quasi l’80%. Di questo 49,51% solo il 44,94% vive in aree urbane, mentre il 55,06% vive nelle zone rurali, rappresentando quasi 73,19% di quel 37,58% della intera popolazione boliviana che vive lontano dalle città. Nelle campagne i popoli originari vivono in piccole comunità di autosussistenza, gli ayllus, o come lavoratori salariati a servizio di quel 7% della popolazione che da sola detiene l’87% della terra coltivabile. Già solo questi dati dimostrano come la questione indigena sia in realtà in primo luogo questione agraria. Inoltre, come afferma lo stesso istituto e conferma la Camara Nacional de Industria boliviana, El Alto è il secondo centro industriale del paese: vi sono insediate circa 5000 imprese che vanno dall’agroalimentare, al tessile, alla fabbricazione di mobili, e persino al chimico e al metalmeccanico leggero, delle quali solo 390 sono di dimensioni inferiori a 30 dipendenti. Secondo il censimento ufficiale dell’INE nel 2004 il 47,20% della popolazione economicamente attiva di El Alto è composta da operai e lavoratori salariati del settore delle costruzioni. Come spiega Marina Ari, giornalista ed attivista proprio del movimento indipendentista aymara, El Alto è una città di indigeni proletarizzati: questa è la vera natura della direzione alteña del movimento sociale, da questa nuova classe operaia nasce la rifondazione anche della Cob, uscita alle soglie del nuovo millennio dal suo lungo periodo di riorganizzazione dopo Calamarca. Lo stesso discorso di Garcia Linera, ripetuto nell’intervista alla inviata di Liberazione del 28 giugno, fa acqua in più di un punto. Quando analizza El Alto egli conferma la presenza operaia, ma afferma l’inesistenza di identità operaia, espressione sociologica di poca utilità e difficile comprensione, salvo poi, anch’egli, rifiutarsi di considerare seriamente la rivendicazione del governo operaio contadino che a El Alto è stata lanciata, e che se interpretiamo la identità operaia come coscienza di classe, è il punto più alto della sua manifestazione. D’altronde Garcia Linera aveva già dato prova del suo approccio romantico ai problemi di Bolivia nel suo scritto La Condizione Operaia, dove dichiara che la rivoluzione del 1952 rimase incompleta per deficienze nel subcosciente degli operai!
Insomma non una questione indigena ma una crisi capitalista è all’origine delle mobilitazioni dal 2003 ad oggi. Per effetto del crollo delle esportazioni dovuto alla crisi asiatica, che ha avuto enormi conseguenze in America Latina, e a quella argentina, tra il 1999 ed il 2002 si sono persi circa un quarto dei posti di lavoro nell’industria, ed altrettanti nell’agricoltura. Quando Goni lanciò l’offensiva liberista per far pagare la crisi ai lavoratori, nel febbraio 2003, fu solo la goccia che faceva traboccare il vaso. La ripresa del 2004 ha ridato forza al movimento operaio e contadino, consegnandogli la direzione del movimento.
La rivoluzione socialista in Bolivia è possibile?
Questa domanda andrebbe scissa in due: esistono le condizioni per una rivoluzione socialista in Bolivia? Esistono alternative? Alla prima rispondiamo riprendendo l’affermazione centrale delle tesi di Pulacayo: la Bolivia è uno stato capitalista arretrato. Attualmente solo il 13,48% del PIL è generato dall’agricoltura, il resto dalla manifattura, principalmente, e dall’industria estrattiva, i trasporti e i servizi: il processo di valorizzazione del capitale segue le stesse strade che nei paesi avanzati. Il 20% circa della popolazione economicamente attiva infatti è operaia, nella Russia del 1917 erano anche meno. La massa contadina, il 40% circa della popolazione, è principalmente bracciantato.
L’avanguardia operaia, e al proprio interno l’avanguardia dei minatori, ha chiari i propri obiettivi. L’assenza di un partito rivoluzionario è l’unico fattore, come afferma lo stesso sindacato dei minatori, che gioca contro il movimento rivoluzionario boliviano. D’altra parte la borghesia legata a doppio filo all’imperialismo, non ha interesse al progresso del paese non essendo capace di realizzare la riforma agraria, unificare il paese, svilupparne le forze produttive: i fatti di questi mesi, e la condizione del luogo con le maggiori disuguaglianze sociali di tutta l’America Latina ne sono chiara prova.
Per quanto concerne le possibili alternative, principalmente la nazionalizzazione graduale proposta da Linera e l’Assemblea Costituente sostenuta dal Mas, ci sembrano decisamente pie, quanto pericolose illusioni. Per nazionalizzazione graduale si intende la partecipazione dei privati allo sviluppo dell’industria estrattiva boliviana sotto direzione dello Stato. La Bolivia, il suo gas sono vitali alle economie argentina, cilena e brasiliana soprattutto, e pertanto né il microimperialismo di questi paesi, né tanto meno quello europeo, preponderante nel settore, e quello Usa lascerebbero mai veramente libero questo polmone energetico a basso costo. Le armi di ricatto sono tante: il debito estero, i canali del commercio mondiale, il controllo delle leve più importanti dell’economia, dalle banche, tutte controllate o da società americane o spagnole come la Santander o da un pugno di latifondisti boliviani come i Petricevic, i Marinkovic e i Saavedra Bruno, ai fondi pensione, in mano attraverso la AFP al Banco di Bilbao. Inoltre la nazionalizzazione in sé non è un feticcio. Le miniere furono nazionalizzate in passato, ma senza il controllo operaio che rivendicavano i minatori sono state luoghi di sfruttamento e miseria fino ad essere svendute, ed hanno arricchito solo una casta di corrotti funzionari di stato, e con le ricche indennizzazioni, i loro vecchi proprietari. La riforma agraria approvata dal governo rivoluzionario nel 1956 sanciva il diritto per tutti i boliviani alla proprietà della terra, ma come detto ancora oggi è ben lontana dall’essere applicata. Questo perché lo Stato non è un ente socialmente neutro che possa porsi l’obiettivo di dirigere l’economia e svilupparla in modo equo, ma rappresenta interessi precisi: la questione del controllo è importante tanto quanto quella della proprietà. In altre parole, come non si può chiedere ai latifondisti di gestire l’espropriazione del loro latifondo, così non si può pensare che siano proprio le multinazionali che tanto condizionano, nel male, la vita della Bolivia, a permettere lo sviluppo del paese. Al contrario oggi un governo rivoluzionario avrebbe la possibilità di confiscare queste enormi risorse, quelle bancarie, quelle industriali ed agricole, interrompere quel flusso di 500 milioni di dollari che ogni anno la Bolivia paga in soli interessi per il debito, dichiarando che non è più disponibile a pagare, e contare per il proprio sviluppo su paesi come il Venezuela, che già detiene fette importanti del commercio estero boliviano. Senza considerare poi l’effetto che una rivoluzione in Bolivia avrebbe sulla polveriera latino americana.
Le stesse considerazioni valgano anche per l’Assemblea Costituente, alla quale il Mas si aggrappa anche per recuperare credibilità nella sua base elettorale. Di quali contenuti si dovrebbe riempire l’Assemblea Costituente è discorso ancora più interessante. Un deputato del Mas denunciava in questi giorni, in una seduta del parlamento, che l’oligarchia non vuole l’assemblea costituente per difendere il latifondo ma per impedire a tutti i senza terra di avere il loro campo coltivabile. Questo cambiamento sociale è quello che la gente si aspetta, ma è alquanto difficile pensare, nel caso specifico, che dove non è riuscita una riforma agraria in 50 anni possa una nuova costituzione! Così pure per la questione indigena, sulla quale concessioni sarebbero possibili dalla borghesia e dall’imperialismo, non vediamo come possa essere risolta in assenza di risorse e in una discussione costituente segnata dall’autonomia rivendicata dalla borghesia.
La scuola di El Alto
Frattanto il governo di Rodriguez, che doveva essere tecnico ma in realtà si compone di diversi ex funzionari di multinazionali e Ong, sembra non riuscire a garantire la soluzione politica della crisi. Il parlamento continua ad essere impantanato in una discussione sterile, preda dei colpi di coda della borghesia cruceña che spinge per una rapida convocazione del referendum autonomista davanti al pericolo imminente di nuove mobilitazioni e minacciata da sondaggi dai quali emerge, com’era prevedibile, che all’oriente i lavoratori vogliono la nazionalizzazione del gas così come i loro compagni dell’altipiano. Il tentativo di ricostruire unità al progetto autonomista passa qui anche attraverso la corruzione e i brogli con i quali un manipolo di dipendenti pubblici vicini all’oligarchia ha gestito il congresso della Cod (la federazione dipartamentale della Cob), ottenendo però solo la denuncia e la fuoriuscita dalla Cod dei Fabriles, dei disoccupati organizzati e dei contadini. D’altra parte il Mas teme di non riuscire ad arrivare alla presidenza per effetto del sistema elettorale boliviano e tenta di ottenere formali assicurazioni almeno sulla convocazione dell’Assemblea Costituente, per potersi presentare ai movimenti con almeno un risultato concreto: a El Alto chiamano Morales traditore, ma senza i 40mila voti di El Alto, il dieci per cento circa dei suoi voti, il Mas non potrebbe neppure aspirare al governo. Avevano provato a chiedere a Rodriguez di restare alla presidenza fino al 2007, e permettere la convocazione della costituente, ma quest’ultimo, uomo di Goni, minaccia invece di convocare solo le elezioni presidenziali se il parlamento non si accorda sul da farsi. Se Morales fosse un semplice burattino per l’imperialismo si sarebbe già trovata la soluzione. Il problema è che il Mas ha una base forte tra operai e minatori, oltre che tra i cocaleros, in grado, come dimostrato in questi giorni, di condizionare i propri dirigenti: immaginiamoci cosa accadrebbe con una presidenza Morales! Per questo Solares che lo aveva espulso in precedenza dalla Cob dichiara che lo voterebbe in caso di elezioni. Se la borghesia dovesse puntare su Morales, lo farà solo dopo aver valutato ogni possibile alternativa e perché costretta, nonché per le difficoltà di trovare una alternativa sostenibile nei compromessi partiti della destra tradizionale. Ma le contraddizioni tra Morales e la sua base, o tra un presidente diverso e i movimenti sociali, non potrebbero in alcun modo fermare un movimento sociale così avanzato senza concedergli consistenti conquiste sociali, e quindi rafforzandolo. La questione del potere operaio e contadino è stata posta, le condizioni oggettive la riporteranno presto al centro della lotta.
Nel frattempo l’Assemblea Popolare Nazionale Originaria (Apno) di Bolivia si organizza. Su iniziativa della Fejuve di El Alto si è tenuta una assemblea a Cochabamba alla quale ha partecipato la Fejuve di Santa Cruz con presidente Landivar, non semplice sostenitore, ma fondatore a suo tempo, sembra lontanissimo, del comitato referendario cruceño. Sono stati riaffermati gli obiettivi della nazionalizzazione del gas, mentre la Coordinadora en defensa de los recursos naturales di Cochabamba nel valutare i fatti di maggio giugno afferma la necessità che il popolo si prepari a governare. Il 23 luglio si terra un incontro nazionale dell’Anpo, alla cui estensione e radicamento continuano a lavorare i movimenti sociali, forti dell’esperienza fatta. Il 12, 13 e 14 agosto a El Alto si terrà l’incontro continentale dei lavoratori voluto da Cob, Cor e Cod di El Alto e La Paz e Fejuve. Saremo lì a solidarizzare con il movimento operaio rivoluzionario boliviano, come avremmo voluto facessero partiti e movimenti della sinistra italiana. La Fejuve di El Alto invece ha organizzato per tutti i venerdì nella sala del proprio auditorio degli incontri dal titolo “Scuola Politica verso la Rivoluzione” per discutere con tutti per cosa lottiamo e chi comanda nella società. Se avete in mente qualche ripetente per recuperare in questa materia mandatelo pure: è gratis!