E' tradizione che dopo i cortei autunnali gli studenti passino alla mobilitazione all’interno delle scuole, con autogestioni e occupazioni. Anche quest’anno, pur in assenza di un movimento significativo, queste mobilitazioni ci sono state. Se ne sono registrate soprattutto al Sud, con punte in Sicilia, ma anche a Napoli e Caserta; più di una decina a Roma; al Nord con un po’ più di fatica, ma anche Bologna e Milano hanno sviluppato alcuni focolai.
Partiamo da alcuni esempi dove siamo intervenuti. Al Politi di Agrigento il preside fa saltare gli accordi per l’autogestione e chiude la scuola in orario di lezione, come fosse una serrata padronale; gli studenti si tengono fuori dagli ingressi finché riescono a entrare da una finestra; alla fine prendono il controllo della scuola contro i tentativi repressivi del preside che si ripetono. Dall’esperienza capiscono su chi possono contare e chi no e si lasciano indietro una tradizione per cui nulla si poteva fare se non era concordato con l’amministrazione. Qualche difficoltà in più invece nel garantire attività regolari e organizzate… lezione per le prossime volte.
A Licata si crea un coordinamento di rappresentanti fra le varie scuole, per non restare nell’isolamento e muovere insieme le forze: una cosa che andrebbe fatta non solo a livello locale ma nazionale.
A Milano l’Itsos si è organizzato con un’assemblea nelle prime ore, partecipata da quasi tutti gli studenti, poi con collettivi di discussione: abbiamo discusso di lavoro, emancipazione femminile, rivoluzione araba, crisi e lotta in Grecia. Al Tenca l’organizzazione è più improvvisata e il coinvolgimento minore, si prende metà pian terreno. L’occupazione dura due giorni e ai problemi si alternano discussioni comunque buone: razzismo, situazione della scuola pubblica italiana, Tav, questione femminile.
Abbiamo visto due elementi costanti: da un lato la forza che gli studenti riescono a esprimere, la ricerca di una visione alternativa della società e di un modo per cambiarla; dall’altro la confusione in assenza di organizzazione.
Questa contraddizione è figlia della progressiva spoliticizzazione delle strutture studentesche e della loro crisi. Si è indebolito il passaggio delle tradizioni da una generazione all’altra, si sono ridotti i collettivi nelle scuole, sono rari gli studenti che sanno come si affrontano situazioni del genere.
La maggior parte degli studenti non ha la minima idea di come funzioni un’occupazione, né di come fare per organizzarla e poi mantenerla per alcuni giorni! In questo modo ai presidi è più facile reprimere le forme di opposizione o disciplinarle come cogestioni, concordate preventivamente con professori e presidi stessi. Questo atteggiamento non riguarda solo le occupazioni ma tutta la vita scolastica: rappresentanti eletti su proposta di presidi o professori, elezioni d’istituto che neanche si fanno, o per mancanza di liste o per presidi che non permettono di tenerle, assemblee convocate una o due volte l’anno, soprattutto la sensazione che non si possa fare niente che non sia autorizzato da una circolare. Spesso gli studenti non sanno come opporsi a questa gestione scolastica repressiva e opprimente.
Senza avere la pretesa di essere maestri, vorremmo quindi fare un po’ di chiarezza. L’occupazione è una forma classica di lotta, insieme ai cortei; è una situazione eccezionale in cui gli studenti materialmente controllano l’edificio e chi ci può entrare (compresi eventuali presidi o professori) e decidono quali attività si svolgono. L’autogestione con blocco delle lezioni è molto simile all’occupazione: si decidono le attività dentro la scuola, ma non si resta di notte. L’autogestione senza blocco delle lezioni è una divisione della scuola in due parti: in una ci sono le lezioni, nell’altra le attività decise e gestite dagli studenti. Infine la cogestione è una modifica della normale attività scolastica, pienamente concordata con i professori e il preside, i quali possono dettare condizioni e decretarne arbitrariamente la fine.
Più si radicalizza la protesta, più è importante avere una buona organizzazione, il coinvolgimento della maggioranza degli studenti, obiettivi chiari e una ricca discussione politica. Il collettivo, o gli elementi attivi politicamente, siano essi rappresentanti o no, dovrebbero promuovere discussioni sulle ragioni per l’occupazione, siano esse richieste sulla singola scuola o su temi politici più ampi. Serve poi preparare, con chi è disposto a dare una mano, gli aspetti pratici: inizio, assemblee di gestione in cui prendere insieme le decisioni, anche votando, gruppi di discussione politica, servizio d’ordine per evitare incidenti, turni per le notti.
Il primo giorno è importante fare un picchetto per portare tutti gli studenti in assemblea e presentare l’occupazione, discuterne insieme e votarla. In questo modo non si resta isolati, altrimenti dopo pochi giorni manca il fiato.
Infine occorre curare la conclusione dell’occupazione e non dare solo l’impressione di non farcela più. Se si occupa per ottenere una conquista specifica nella scuola bisogna cercare di resistere fino alla vittoria; spesso però l’occupazione è un momento per risvegliare al protagonismo un settore più ampio di studenti che normalmente non si interessano di politica. La cosa migliore da fare allora è terminare l’occupazione con un’assemblea che rilancia la lotta, non al prossimo autunno, ma al domani, solo con altri mezzi. Un’occupazione riuscita innalza la coscienza degli studenti, rendendoli protagonisti della gestione della propria scuola ma, ancor più importante, rendendoli consapevoli di come ogni realtà, con la lotta, possa cambiare.
è nostro dovere spiegare anche materialmente come sviluppare alcune forme di lotta, fornendo aiuto nella costruzione di collettivi e intervenendo nelle assemblee d’istituto. Solo uniti gli studenti potranno riappropriarsi dei luoghi dove studiano e, uniti ai lavoratori, dell’intera società.