Il “salvataggio” di Cipro annuncia una nuova tappa nella crisi. Il crollo delle banche in un paese che pesa per lo 0,2 per cento nell’economia dell’eurozona ha generato conseguenze di vasta portata.
In primo luogo è stata messa in discussione la “sacralità” dei depositi bancari. Non inganni il fatto che alla fine sono stati tutelati i correntisti al di sotto dei 100mila euro: sostenendo la prima versione del piano (quella appunto che andava a prelevare anche dai piccoli depositanti) la Commissione europea ha mostrato fino a che punto è disposta a spingersi, manifestando una divisione aperta col Fmi. Quello che ieri si è ipotizzato per Cipro, domani potrebbe diventare realtà in crisi di dimensioni maggiori.
Secondo. Per la prima volta sono state introdotte restrizioni ai movimenti di capitale all’interno della zona euro. Questo non solo avrà conseguenze per l’economia cipriota, danneggiando il commercio estero e in generale il funzionamento delle aziende (e sono già partiti gli scandali per gli inevitabili favoritismi nella gestione dei movimenti di capitale). Si tratta di una svolta di proporzioni epocali. Scrive Martin Wolf sul Financial Times (riprodotto su Il Sole 24 ore del 27 marzo): “… un euro non ha lo stesso valore ovunque. (…) Quello che è successo a Cipro mostra chiaramente che il valore di un euro di passività bancarie dipende dalla solvibilità della banca stessa e dalla solvibilità del Governo che sta dietro a quella banca. Se tanto la banca quanto lo Stato sono insolventi, i prestatori hanno buone possibilità non solo di perdere una grossa fetta dei loro soldi, ma anche di scoprire che il resto è congelato sotto la cappa dei controlli di capitale”.
Fino ad oggi questa realtà è stata coperta dalle misure della Bce che inondando di denaro facile le banche europee ha messo lo sporco sotto il tappeto. Ma quanto è accaduto a Cipro si ripeterà inevitabilmente. Oggi l’effetto domino può ricadere su piccole economie, Slovenia in testa, che soffrono di squilibri simili (bolla immobiliare e finanziaria) e magari nella City di Londra o nelle banche tedesche c’è chi gioisce per la messa fuori causa di un concorrente. Ma il problema non sono le periferie, bensì le grandi banche europee.
Siamo di fronte a un’inversione di marcia della “globalizzazione” della finanza, su scala mondiale e in Europa. Questo non significa che il capitale finanziario perderà il suo ruolo preminente, significa invece che sempre più dovrà aggrapparsi allo Stato come sostegno indispensabile. Le gerarchie emergeranno in modo spietato, a fallire non saranno i più “disonesti” o i più “spregiudicati”, ma coloro che alle spalle non hanno uno Stato sufficientemente forte da sostenerli.
L’utopia capitalista dell’unione bancaria europea, dell’unione di bilancio (che comunque sarebbe un incubo per i lavoratori e tutti gli strati popolari) è sempre più lontana.
È vero che per la borghesia la prospettiva di una rottura dell’euro è un terrificante salto nel buio. Tra un presente insostenibile e un futuro imprevedibile, il risultato sono le scelte contraddittorie che aggravano la crisi e l’incertezza generale. L’austerità, unico punto fermo nelle politiche di gestione della crisi, affossa l’economia, peggiora i bilanci statali e genera rabbia e rivolta crescente nella popolazione.
Chi, anche a sinistra, pensa che da queste contraddizioni si possa uscire recuperando la “sovranità sulla moneta” farà bene ad aggiornarsi rapidamente: all’orizzonte ci sono nuovi sconvolgimenti i cui effetti politici avranno portata rivoluzionaria.