Lo spread ritorna ai livelli del 2011, l’ottimismo torna a regnare, il ministro Saccomanni annuncia la ripresa dietro l’angolo. Questa ennesima esplosione di ottimismo irrazionale va messa a confronto con i dati e le prospettive reali.
È possibile, anzi probabile, che ci sia un cosiddetto “rimbalzo” nella produzione. Per l’Italia si pronostica una crescita del Pil dello 0,7 per cento, magro risultato dopo otto trimestri consecutivi di calo dell’economia, con un portato di disoccupazione record, devastazione del tessuto produttivo, calo complessivo del tenore di vita quantificabile ad oggi attorno al 10 per cento e un debito pubblico al 133 per cento del Pil.
La crisi dei debiti sovrani è solo sospesa, e le decisioni assunte in sede europea e internazionale non garantiscono affatto il futuro. Ma proprio il temporaneo attenuarsi della tensione sui mercati finanziari mette in luce le basi strutturali della crisi e le specifiche debolezze dell’economia italiana. Più che mai il re è oggi nudo.
Una nuova epoca
L’economista Paul Krugman pone la domanda: “E se il mondo nel quale abbiamo vissuto gli ultimi cinque anni fosse la nuova norma? E se le condizioni di tipo depressivo fossero destinate a durare non per un paio d’anni, ma per decenni?” Krugman prosegue citando l’ex segretario del Tesoro Usa, Larry Summers, che ha parlato addirittura di “stagnazione secolare”, e commenta: “Si potrebbe immaginare che speculazioni di questo tipo appartengano al territorio delle frange marginali estreme. Ed estreme, in effetti, sono. Ma non tanto marginali (…) e se Summers ha ragione, tutto quanto è stato detto da persone assai rispettabili sull’economia è sbagliato e continuerà ad esserlo per molto tempo.” (New York Times, 17 novembre).
Queste parole ci conducono al cuore del problema: crescita e recessione oggi sono movimenti che si producono sulla base di una crisi organica del sistema capitalista, che in Europa vede una sua manifestazione particolarmente intricata.
Stretta creditizia
Si fa un gran parlare, in particolare da parte della Bce, della necessità di superare la stretta del credito e ripristinare condizioni di accesso al credito accettabili per imprese e famiglie. Tutte le misure fin qui prese sono servite a poco o niente. I tassi d’interesse ufficiali sono ai minimi storici (0,25 per cento per quanto riguarda la Bce), le banche sono state inondate di miliardi, ma i soldi continuano a girare poco e lentamente.
Perché? L’Italia non ha vissuto gli stessi eccessi speculativi di altri paesi, in particolare la bolla immobiliare non è stata paragonabile a quella degli Usa, della Spagna o della Gran Bretagna. Eppure assistiamo a un regolare peggioramento nelle condizioni del credito.
Il Rapporto sulla stabilità finanziaria pubblicato dalla Banca d’Italia a novembre chiarisce la situazione reale.
“Per le banche dell’area dell’euro prosegue il deterioramento della qualità del credito, determinato dalle due recessioni e, in alcuni casi, dal calo del prezzo degli immobili. (…) Anche in alcuni paesi dell’area euro meno esposti alla crisi del debito sovrano il credito alle imprese è in decelerazione o ha cominciato a contrarsi, mentre aumenta la rischiosità della clientela” (pag. 10). “La ripresa dell’economia mondiale resta fragile (…) lo scontro sul tetto del debito negli Stati Uniti potrebbe avere effetti destabilizzanti di medio o di lungo periodo (…). Nell’area dell’euro l’inversione ciclica sta determinando una diminuzione dei rischi per la stabilità finanziaria. Essi rimangono tuttavia significativi e connessi principalmente con la spirale negativa tra debolezza dell’economia reale, peggioramento degli squilibri fiscali e vulnerabilità delle banche. (…) Diversi fattori di natura politica ed economica potrebbero determinare un ampliamento degli spread sovrani e un nuovo aumento del grado di frammentazione dei mercati finanziari dell’area dell’euro” (pag. 11-12).
Il credito alle famiglie italiane, nonostante queste tendano in ogni modo a ridurre esposizione e rischi, peggiora la sua qualità. In sei mesi (dicembre 2012 – giugno 2013) i prestiti a famiglie consumatrici si siano ridotti leggermente (da 561 a 558 miliardi) ma la percentuale di quelli “deteriorati” (sofferenze, incagli, scaduti) passa dal 9,3 al 10 per cento del totale, oltre 55 miliardi. Il numero di compravendite di immobili si è dimezzato rispetto ai livelli pre-crisi, e il fatto che il calo sembri arrestarsi non è di grande conforto.
Il crollo del settore immobiliare, unito ai debiti non pagati dallo Stato, ha creato un buco di ben 38 miliardi (il 20 per cento del totale) di prestiti in sofferenza erogati alle imprese dell’edilizia, altri 15 miliardi di sofferenze per le società immobiliari, più ulteriori 22 miliardi circa classificati come “in stato di anomalia”.
Per quanto riguarda il credito alle imprese in generale, i tassi di deterioramento, di ingresso in sofferenza e di passaggio a classificazioni peggiorative sono ai massimi, peggio che nel 2009. Complessivamente su oltre 2000 miliardi di crediti erogati dalle banche italiane, il 14,7 per cento sono classificati come deteriorati, oltre 300 miliardi di euro.
La base di questa sofferenza non risiede solo nella “stretta creditizia”, ma nella crisi produttiva. La profittabilità delle imprese è ai minimi: il rapporto tra margine operativo lordo e valore aggiunto, ossia un’indicazione approssimativa del saggio di profitto, è al minimo dal 1995 ossia da quando viene rilevata la serie statistica. Per contro aumentano a livelli record le cancellazioni di imprese e le procedure concorsuali (ossia i fallimenti), entrambi a livelli record.
Profittabilità in calo, salari e pensioni a picco, tagli alla spesa pubblica… in un contesto di questo genere anche buttando soldi dall’elicottero (come propongono gli economisti keynesiani alla Krugman) l’economia non può ripartire, al massimo si possono creare delle temporanee ripresine, con forte carattere speculativo, per giunta accumulando ulteriori contraddizioni destinate a esplodere successivamente.
Soluzioni europee?
Uno degli effetti più importanti della crisi è stata una parziale inversione del processo di globalizzazione. Mentre tutti (soprattutto a sinistra) straparlano di regole comuni, mercati controllati, soluzioni gestite a livello europeo, ecc., la realtà va nella direzione opposta.
Secondo il Financial Times (6 gennaio) i flussi internazionali di capitale sono tuttora del 70 per cento inferiori ai livelli pre-crisi. Le banche, e in particolare le banche europee, si sono in gran parte ritirate dentro i confini nazionali e in questo sono state favorite dalla copertura offerta dalle banche centrali compresa la Bce.
Apparentemente dovrebbe essere una buona notizia: si limitano gli eccessi speculativi, gli investimenti mordi e fuggi dei pirati della finanza, si torna coi piedi per terra. Ma ancora una volta la realtà è più complessa. Stante la fragilità del sistema finanziario e dei bilanci pubblici, questo processo confermerà l’inevitabile legame tra la forza delle diverse economie e dei rispettivi Stati. In altre parole, ognuno dovrà risolvere i propri problemi in casa propria, e i problemi sono giganteschi.
La Grecia, che secondo gli accordi presi con la troika, dovrebbe portare il proprio debito pubblico al 124 per cento del Pil entro il 2020, è ora al 176 per cento e nessuno crede seriamente che potrà raggiungere l’obiettivo. La domanda è solo se il fallimento avverrà dentro o fuori dall’euro. Il Portogallo non è molto lontano dalla Grecia.
Anche l’Italia ha visto gli stessi processi in atto. Il debito pubblico si è “rinazionalizzato”, la quota detenuta da investitori esteri è ora al 35,8 per cento, era andata oltre il 50 negli scorsi anni.
Parallelamente si è accorciata la durata media del debito, in calo per il terzo anno consecutivo, a circa 6,4 anni (era oltre 7 nel 2010). Le banche italiane si sono riempite di titoli di Stato, grazie anche alla generosa copertura offerta dalla Bce, tutt’ora a 232 miliardi dopo aver toccato i 270.
Tutto bene? Solo fino a quando non arrivi un problema serio in qualche punto dell’eurozona. Perché, la si giri come si vuole, ogni crisi bancaria seria ricadrà sulle finanze pubbliche (vedi Montepaschi) e ogni tensione sul mercato dei titoli di Stato non potrà restare confinata in un solo paese, a maggior ragione fintanto che esiste una moneta unica che collega indissolubilmente le sorti dei suoi componenti.
Da questo punto di vista la celebratissima “unione bancaria” che avrebbe dovuto garantire la gestione a livello europeo delle crisi bancarie, rompendo il legame tra crisi delle banche e crisi dei debiti sovrani, si è dimostrata l’ennesima bolla di sapone.
Svanita l’idea di un serio fondo comunitario che coprisse le possibili perdite (ammesso e non concesso che fosse un’idea realistica), si decide che le perdite ricadranno, nell’ordine su azionisti, obbligazionisti, correntisti (sopra i 100mila euro). Una posizione apparentemente rigida (paga chi è responsabile) che se applicata a una crisi di grosse dimensioni significherebbe di fatto aprire le porte a un nuovo crack stile Lehmann. I fondi per intervenire, finanziati da quote fornite dalle stesse banche, rimarranno su base nazionale, sia pure con un “ombrello” fornito dall’Europa. Poi, nel corso dei prossimi dieci anni (!) si arriverà a un fondo comune che sarà pienamente operativo nel 2026 (!!) con la stratosferica dotazione di 55 miliardi di euro, sufficienti forse a tamponare la crisi di una o due banche di medie dimensioni.
Non sorprende quindi il commento del Financial Times (5 gennaio), a firma Wolfgang Münchau: “La crisi dell’euro non è finita, ma c’è uno spostamento importante. Il dibattito sulle scelte politiche si è concluso. La decisione di non costruire una protezione comune per le banche europee ha chiuso l’ultima finestra verso una qualsiasi forma di mutualizzazione come strumento per risolvere la crisi. Tutti gli aggiustamenti si svolgeranno attraverso l’austerità e la deflazione nei paesi periferici. La gran parte di questo aggiustamento è ancora da compiere. Inoltre si è deciso che i debiti verranno ridotti solo pagandoli: non con l’inflazione, col default o condonandoli.
Se si guarda a tutto questo sulla base di una conoscenza della storia economica, si tratta di un insieme di scelte a dir poco terrificanti. Le uniche innovazioni che ammorbidiscono questa asperità sono i due paracadute ad oggi esistenti: il Fondo europeo di stabilità e il programma Omt che permette alla Bce di acquistare il debito degli Stati in difficoltà, entrambi mai messi alla prova”.
La crisi è finita, buon 2014!