Nel corso della sua storia il capitalismo ha vissuto differenti epoche di sviluppo, le cui caratteristiche non erano dettate dal solo ciclo economico, ma dall’insieme dei rapporti fra le classi, fra paesi imperialisti e paesi dipendenti, fra le diverse potenze imperialiste. Analizzare queste fasi e soprattutto il passaggio dall’una all’altra costituisce uno dei compiti fondamentali di chi voglia fondare il proprio intervento nel movimento operaio su una comprensione il più possibile obiettiva dei processi in corso.
Il periodo a metà degli anni ’40, ad esempio, vide una di queste svolte epocali. L’emergere definitivo degli Usa come superpotenza mondiale, la divisione del mondo in blocchi contrapposti dominati da Usa e Urss, la sconfitta delle attese rivoluzionarie in Europa occidentale a causa del ruolo dei partiti socialdemocratici e stalinisti, l’avvio della ricostruzione in Europa con il piano Marshall, furono passaggi decisivi che crearono le condizioni di una stabilizzazione del sistema che durò per circa 25 anni, fino ai primi anni ‘70.
Questo non significa che non vi furono lotte di classe, situazioni rivoluzionarie (concentrate però nel mondo coloniale che vedeva avviarsi un gigantesco processo di liberazione); né implicava la fine del ciclo economico, che continuava a manifestarsi, anche se in forma attenuata, con lunghi cicli di crescita e fasi recessive brevi e poco profonde. Tuttavia queste contraddizioni, pure esistenti, non erano in grado di mettere in discussione l’equilibrio del sistema capitalista nei suoi settori decisivi, nei paesi industrialmente avanzati. Un aspetto importante di quella situazione era la stabilità delle organizzazioni di massa del movimento operaio: sindacati e partiti, tanto socialisti come comunisti, vedevano un dominio sostanzialmente incontrastato dei loro gruppi dirigenti e un generale fiorire di teorie e politiche ispirate al riformismo e alla collaborazione di classe.
La svolta degli anni ’70
Tra la fine degli anni ’60 e il principio degli anni ’70 si ebbe un’altra svolta di vasta portata. La pace sociale venne rotta in numerosi paesi, a partire dal maggio del ’68 in Francia; il dominio economico e militare degli Usa sul mondo capitalista venne scosso dai movimenti rivoluzionari nel mondo coloniale, che in molti casi portarono alla rottura del sistema nei suoi anelli deboli e alla nascita di Stati operai, sia pure burocraticamente deformati, che si sottraevano al predominio del mercato capitalista.
Il predominio economico degli Usa entrò in crisi, un fatto che si manifestò apertamente con la rottura degli accordi di Bretton Woods (agosto 1971), che dal 1945 avevano regolato l’intero sistema finanziario mondiale conferendo al dollaro il suo carattere di moneta mondiale di riferimento.
Parallelamente le organizzazioni di massa vennero attraversate dalla radicalizzazione operaia e giovanile, che si manifestò nella rinascita di correnti di sinistra e persino rivoluzionarie al loro interno, nonché nell’aggregarsi di forze minoritarie, ma in molti paesi consistenti, nelle organizzazioni dell’estrema sinistra.
Gli anni ’70 videro quindi un quadro radicalmente diverso da quello dei due decenni precedenti. Il ciclo economico assunse un carattere più convulso, con due crisi a breve distanza l’una dall’altra (1974-75 e 1979-82). Le recessioni furono più profonde, accompagnate da disoccupazione di massa, inflazione crescente, forti conflitti sociali. Dopo un lungo periodo di sviluppo relativamente pacifico e graduale esplodevano le contraddizioni accumulate e la stabilità del capitalismo tornava a essere messa in discussione. Si può dire che in quell’epoca il problema della sopravvivenza del sistema era direttamente legato alla capacità (o all’incapacità) del movimento operaio di darsi una direzione e una strategia capaci di portare le lotte di massa che attraversarono i principali paesi del mondo fino alle estreme conseguenze e alla lotta aperta per il potere. Il problema si poneva direttamente quindi in termini politici, di azione, soggettivi.
Su questo terreno la classe operaia venne sconfitta. Gli apparati riformisti dei sindacati e dei partiti di massa eressero un baluardo a difesa di un capitalismo in crisi e indebolito; la classe dominante bruciò gran parte delle risorse accumulate nella fase precedente sia in termini strettamente economici che di appoggio sociale per puntellare il proprio potere, ma alla fine con la collaborazione determinante dei dirigenti socialisti e comunisti riuscì a contenere la crisi e l’ondata delle lotte operaie. Nei primi anni ’80 in un paese dopo l’altro il movimento operaio subiva delle sconfitte significative che segnalavano la chiusura del ciclo aperto nel 1968. In Italia la sconfitta della Fiat nel 1980 e quella sulla scala mobile nel 1985; in Gran Bretagna lo sciopero dei minatori del 1984-85, in Francia le lotte dei primi anni ’80 e la sconfitta del Pcf nel governo di sinistra; in Usa la sconfitta dei controllori di volo nel 1981…
Il significato di quegli avvenimenti non fu immediatamente evidente, anche perché in tutti gli anni ’80 continuarono a manifestarsi movimenti di massa sia fra i giovani che tra i lavoratori che parevano poter riaprire una dinamica simile a quella degli anni ’70. Tuttavia retrospettivamente divenne chiaro che si era di fronte a una relativa stabilizzazione del sistema, con conseguenze su diversi terreni.
La sconfitta delle lotte operaie determinava un arretramento del sindacato e un peggioramento nelle condizioni di lavoro; sulla sconfitta operaia si riscostituivano margini di profitto tali da conferire un carattere più ampio e durevole alla ripresa economica, che durò fino al 1990-91, quando si manifestò una nuova crisi ciclica. La crisi fu forte sia in Usa che in numerosi paesi europei e portò a nuovi sconvolgimenti nel sistema finanziario, particolarmente in Europa (crollo della lira e della sterlina, crisi del Sistema monetario europeo). Ma la ripresa successiva, cogliendo di sopresa più d’uno anche fra noi, ebbe un carattere ancora più durevole (negli Usa fu il più lungo boom nel dopoguerra) e forte, particolarmente a partire dalla metà degli anni ’90.
Il crollo del blocco sovietico
Cosa era successo? Indubbiamente un elemento decisivo nell’orientare l’intero processo fu la restaurazione capitalista in Urss e in Europa orientale, unita allo sviluppo delle “riforme” di mercato in Cina e alla crescita asiatica.
Il crollo del blocco sovietico ebbe una serie di conseguenze a vasto raggio: causò un generale disorientamento e spostamento a destra di tutte le organizzazioni del movimento operaio e il crollo quasi generale dei partiti comunisti; chiuse, o almeno così parve allora, ogni prospettiva di rottura con l’imperialismo nei paesi ex coloniali, all’interno dei quali si assistette al fiorire di pseudo “democrazie” dollarizzate sotto l’occhio vigile di Washington; aprì una serie di mercati alla penetrazione dei paesi più forti, sia nel blocco ex sovietico che nei paesi dipendenti, i quali non avevano più alcuna possibilità di appoggiarsi sul blocco sovietico per difendersi dalla pressione schiacciante dei paesi imperialisti e in primo luogo degli Usa.
A questi fenomeni politici si affiancarono nuovi sviluppi che contribuirono al boom economico: lo sviluppo delle nuove teconologie, unito alla crescente proletarizzazione di una manodopera a basso costo in Asia, in Europa orientale e in altre aree del mondo generava una forte concorrenza al ribasso sulla classe operaia dei paesi industrialmente avanzati, che videro pesanti arretramenti nelle condizioni salariali, nei diritti e nel livello di sfruttamento, creando le condizioni per una importante ripresa del saggio di profitto.
La crisi del 2001
È giusto quindi riferirsi agli anni ’80 e ’90 come anni di ristabilizzazione del sistema, per certi aspetti persino di rilancio. La domanda da porsi oggi è se questa fase sia ormai alle nostre spalle o se invece rimangano valide alcune sue caratteristiche salienti.
In primo luogo va osservato come la crisi ciclica del 2001 sia stata violenta ma breve. La crisi ha avuto un preludio nella crisi asiatica del 1997, poi estesasi a paesi come la Russia, il Brasile e la Turchia negli anni successivi. Tuttavia le cifre di crescita degli anni recenti fanno pensare che sia stata una crisi inquadrabile più accanto a quella del 1991-2 che a quelle degli anni ’70.
L’aspetto più importante, tuttavia, è il fatto che il 2001 ha costituito sotto molti punti di vista una svolta che va al di là del mero dato economico. Abbiamo visto innanzitutto un risveglio di movimenti di massa fra i giovani e nella classe operaia che hanno indubbiamente aperto una fase nuova; in America Latina a partire dal 2000 siamo entrati in una situazione completamente diversa dalla precedente, con avvenimenti rivoluzionari che da ormai sette anni coinvolgono un paese dopo l’altro in un continente che non a caso è stato anche quello dove la crisi di fine anni ’90 è iniziata prima e ha avuto effetti di gran lunga più devastanti.
La rivoluzione latinoamericana, particolarmente in paesi come Venezuela e Bolivia, rappresenta non solo un punto di riferimento per gli attivisti di sinistra a livello mondiale, ma anche un elemento di debolezza e di instabilità per il capitalismo. Tuttavia la relazione fra la parte e il tutto, fra le punte avanzate e il contesto generale, è una delle più complesse da analizzare, particolarmente quando si tenti di comprendere gli avvenimenti nel momento stesso in cui si producono.
La domanda, in altre parole, è questa: le rivoluzioni latinoamericane (Venezuela in testa) saranno determinanti nel determinare a breve termine gli sviluppi mondiali, o viceversa sarà soprattutto il quadro generale a condizionare il corso di questi processi, almeno fino a quando non si producano nuove crisi e rotture in altri punti del sistema?
Alcune cifre possono a questo punto aiutarci a inquadrare innanzitutto da un punto di vista economico la natura del periodo che abbiamo appena attraversato. Il Pil mondiale è cresciuto del 4,9% nel 2005 e del 5,4% nel 2006, con una previsione del 4,9% per il 2007 e il 2008. La crescita nell’ultimo decennio in una serie di paesi significativi è indicata nella tabella 1.
Emerge chiaramente come in una serie di paesi la crisi, anche prima del 2001, abbia avuto un carattere profondo, generando situazioni esplosive anche da un punto di vista sociale e politico, con lo sviluppo di processi rivoluzionari (America latina, Indonesia 1997); tuttavia il quadro generale non è dappertutto lo stesso, e la crisi del 2001 è stata rapidamente superata nella maggior parte dei paesi industrialmente avanzati. In Cina non viene praticamente registrata ed è anzi proprio la Cina a giocare un ruolo chiave nell’arginare le conseguenze della crisi asiatica.
Un altro dato che conferma questa analisi è la crescita del commercio mondiale, uno degli elementi decisivi nel creare le condizioni di una crescita del capitalismo moderno. I dati relativi all’ultimo decennio sono riportati nella tabella 2.
Anche qui vediamo come lo shock economico del 2001, cominciato nella primavera con lo scoppio della “bolla” speculativa nella Borsa Usa e poi aggravato dall’11 settembre e dalla guerra in Afghanistan, viene recuperato nel giro dei due anni successivi. Un altro dato significativo è la crescita nei prezzi delle materie prime non petrolifere, in ascesa dal 2002 fino a un + 28,4% nel 2006: un classico indicatore della ripresa economica su scala internazionale.
Un altro indicatore significativo sul lungo periodo riguarda l’occupazione. Nel corso dell’ultimo decennio (1997-2006) l’Unione europea ha visto aumentare il numero degli occupati di circa 20 milioni di unità, arrivando a 170 milioni e 580mila occupati, dei quali oltre 135 milioni nell’area dell’euro (+ 18 milioni nel decennio). Anche in questo caso è significativo che la crisi del 2001-2002 non abbia portato a un calo assoluto nel numero di occupati, anche se è importante sottolineare l’aumento degli occupati part-time (20,8% del totale) e a tempo determinato (14,5% del totale). Il tasso di disoccupazione aveva toccato un minimo del 7,2% nel 2001 per risalire fino all’8% nel 2004; nel 2006 si attesta al 7,4%
Negli Usa la disoccupazione aveva toccato il minimo nell’aprile del 2000 (5.481.000 disoccupati, pari al 3,8%) per poi risalire fino a un massimo di 9.254.000 nel giugno 2003 (6,3%): a fine 2006, con 6.849.000 disoccupati il tasso era pari al 4,5%.
Dove la crisi ciclica del 2001-2002 si è fatta fortemente sentire, per quanto riguarda gli Usa, è stato negli investimenti, che fatti pari a 100 nel 2000 scendevano a 92,1 nel 2001, a 89,7 nel 2002 e solo nel 2004 risalivano oltre il picco precedente. Tuttavia questo calo veniva compensato dall’esplosione delle spese militari, il cui indice evolve come segue: 2000 = 100; 2001 = 103,9; 2002 = 111,1; 2003 = 121,2 e continuano tutt’ora a crescere (nel 2006 erano di un terzo superiori a quelle del 2000).
Da questi dati emerge quindi come a partire dagli anni ’80 e più chiaramente negli ultimi 10-15 anni si sia manifestata una fase del capitalismo, ben distinta dal decennio precedente che si riassume nel dato del raddoppio del Pil Usa nel corso dei due decenni.
Un altro aspetto che fa riflettere riguarda le cosiddette bolle speculative, un fenomeno che da sempre accompagna le fasi di crescita economica. È indiscutibile che uno dei cambiamenti importanti nel capitalismo degli ultimi tre decenni sia precisamente l’esplosione della finanziarizzazione e dell’economia di carta, che ha raggiunto livelli impensabili in precedenza. Questo costituisce un serio elemento di debolezza del sistema, poiché amplifica le crisi, trasmettendole da un punto all’altro del globo e da un settore all’altro dell’economia. Gli anni ’80 hanno visto scoppiare ad esempio la gigantesca bolla speculativa immobiliare giapponese, con conseguenze che sono durate per circa un decennio; la bolla delle Casse di risparmio Usa scoppiò alla fine di quel decennio, contribuendo a far detonare la crisi del 1990-91. Nel 2001 è esplosa la bolla delle nuove tecnologie e a tutt’oggi l’indice Nasdaq di Wall Street vale poco più della metà di quanto valeva all’apice della frenesia speculativa (inizio 2001). Tuttavia fa riflettere il fatto che questi veri e propri falò del capitale fittizio, nei quali precipitano migliaia di risparmiatori, di aziende e a volte interi paesi, continuino a riprodursi in successione. Per esempio, poco prima della crisi del 2001 l’allora governatore della Fed Greenspan parlò dell’“irrazionale esuberanza” dei mercati finanziari; ebbene, allora il principale indice di Wall Street, il Dow Jones, segnava 11.000 punti. Oggi ne segna 13.000. Contemporaneamente si è gonfiata in Usa (ma anche in altri paesi come la Spagna) una nuova bolla immobiliare, un castello di mutui che, basandosi sull’aspettativa di un continuo aumento nel valore delle proprietà immobiliari, hanno spinto le famiglie americane a indebitarsi non già per comprarsi un’abitazione, ma per sostenere i propri consumi e tenore di vita. Questo fa sì che oggi le famiglie Usa dedichino in media il 14,53% del proprio reddito a ripagare i soli interessi sui debiti contratti, una cifra che non a caso preoccupa il Fondo monetario internazionale che avverte del rischio crescente di insolvenze a catena, le quali a loro volta potrebbero coinvolgere l’intero sistema creditizio.
Tuttavia per quanto irrazionale e insensato sia questo dilagare dell’indebitamento e della speculazione, dobbiamo domandarci su cosa si fondi, ossia perché nonostante i ripetuti crolli non si sia generata una situazione simile ad esempio a quella successiva al crack del 1929, quando la caduta delle Borse aprì una fase di depressione mondiale che non venne superata prima di un decennio.
L’unica risposta plausibile è che al di sotto di tali fenomeni vi sia una base reale; tale base non può che essere identificata nell’afflusso di capitali in cerca di campi di reinvestimento, generato soprattutto dal processo di investimento industriale in Cina e in Asia che crea gigantesche masse di profitto che alimentano anche il circuito finanziario e speculativo.
Le contraddizioni latenti
Se questa analisi è corretta ne discende la conclusione che prima che si possa parlare di un effettivo cambio di fase nel capitalismo mondiale si dovranno verificare cambiamenti qualitativi almeno in uno dei tre settori fondamentali dell’economia mondiale: Usa, Europa, Asia emergente. Tale svolta è implicita nella situazione, poiché lo stesso processo di sviluppo capitalista accumula grandi contraddizioni, alcune già evidenti, altre latenti, che a un certo punto trasformeranno radicalmente il panorama economico e politico mondiale.
Schematicamente possiamo indicare alcuni dei possibili punti di rottura degli attuali equilibri.
Gli Usa stanno accumulando contraddizioni esplosive. Sul piano economico la più evidente è il gigantesco deficit commerciale abbinato a un altrettanto gigantesco indebitamento, interno ed estero. Da molti anni l’economia nordamericana vive in larga misura a credito, importando molto più di quanto esporti e finanziando i suoi consumi con un fiume di denaro preso a prestito dal resto del mondo e in primo luogo dai paesi asiatici.
Ecco l’impressionante evoluzione della bilancia dei pagamenti Usa negli ultimi dieci anni (in miliardi di dollari):
1997: -140,4
1998: -213,5
1999: -299,8
2000: -415,2
2001: -389,0
2002: -472,4
2003: -527,5
2004: -665,3
2005: -791,5
2006: -856,7
Questa necessità di risucchiare capitali dal resto del mondo implica una vulnerabilità di fondo che può essere messa a nudo in modo drammatico sia da una crisi in Cina e in Asia che da qualsiasi altro fattore (calo eccessivo del dollaro, difficoltà nel sistema finanziario Usa, ecc.) che renda meno attraenti gli investimenti in Usa.
Un altro elemento importante è che nell’attuale ripresa economica la produttività non sta crescendo allo stesso livello di quella precedente, alcuni settori importanti (in primo luogo quello automobilistico) sono in difficoltà: si tratta di fattori che potrebbero limitare la durata e l’ampiezza della ripresa.
Ma le principali contraddizioni degli Stati Uniti non riguardano solo la sfera strettamente economica. Il relativo declino economico degli Usa rispetto alle nuove forze emergenti, la loro difficoltà nel mantenere il ruolo di gendarme mondiale, particolarmente l’insolubile pantano iracheno e mediorientale nel quale Bush si è incautamente avventato costituiscono fattori di crisi di prima grandezza. Una sconfitta degli Usa in Iraq potrebbe far deflagrare una vera e propria reazione a catena, alimentando i movimenti rivoluzionari in tutto il mondo ex coloniale e aprendo nuovi punti di conflitto fra gli Usa e la Russia, la Cina, le stesse potenze europee, oltre ad aprire una vera e propria crisi politica al vertice della classe dominante Usa, crisi della quale già ora si vedono i segni. L’aperto manifestarsi di una crisi nell’egemonia mondiale degli Usa costituirebbe indubbiamente un fattore destabilizzante di prima grandezza per il capitalismo internazionale.
La spettacolare crescita economica cinese è oggi uno degli elementi chiave della crescita mondiale. Una delle sue conseguenze più importanti è la gigantesca proletarizzazione; un’esplosione di lotte di questa nuova classe operaia, tanto più se combinata con una crisi ciclica, avrebbe conseguenze sul piano internazionale, sia sul terreno economico che naturalmente su quello politico.
Infine l’Unione europea, nonostante oggi cresca più che in passato, ha di fronte due problemi fondamentali tutt’ora irrisolti. Da un lato, la frammentazione politica dell’Unione (ribadita ancora in questi giorni nei negoziati sul Trattato costituzionale) non permette al capitalismo europeo di ergersi a vera potenza mondiale alla pari con gli Usa, nonostante l’unificazione monetaria stia indubbiamente favorendo un processo di concentrazione industriale e finanziario di grandi proporzioni. In secondo luogo, nonostante anni di offensiva padronale in tutto il continente, le garanzie sociali e i diritti conquistati dalla classe operaia nelle due generazioni precedenti, per quando compromesse non sono ancora state definitivamente smantellate e frantumate. L’ondata di scioperi generali dei primi anni 2000 (Spagna, Italia, Grecia, Belgio) e movimenti come quello contro il Cpe in Francia si replicheranno su scala ancora più ampia di fronte a nuovi tentativi di attacco a queste conquiste, attacchi inevitabili non appena il ciclo economico torni a puntare verso il basso.
Ai fattori qui sommariamente elencati va aggiunto un altro elemento, ossia la parziale crisi del processo di “globalizzazione” e apertura dei mercati, ostacolato sia dalle contraddizioni crescenti tra le grandi potenze economiche, sia dalla resistenza dei popoli, in particolare dei paesi più poveri: due fattori che spiegano lo stallo degli ultimi vertici del Wto, incapaci di giungere a nuovi accordi globali paragonabili a quelli degli anni ’90, o la sconfitta del progetto di Area di libero commercio delle Americhe, al quale Bush ha dovuto rinunciare. Il commercio mondiale continua a crescere, è vero, ma sempre più incanalato su basi regionali o attraverso trattati bilaterali. Lo spettro del protezionismo viene indicato anche dal Fondo monetario internazionale come uno dei possibili elementi di crisi del prossimo periodo.
Le organizzazioni di massa
Queste valutazioni devono aiutarci anche a inquadrare un aspetto per noi decisivo, ossia l’evoluzione delle organizzazioni di massa della sinistra, politiche e sindacali, in rapporto alla lotta di classe e alle condizioni generali del periodo. È indiscutibile che alcuni processi sviluppatisi negli ultimi 10-15 anni non possono essere compresi se non alla luce di queste considerazioni. Il processo di spostamento a destra dei partiti socialisti, soprattutto in Europa, va analizzato in relazione a questo contesto economico.
Se il 2001 è stato indubbiamente l’inizio di un risveglio importante nel movimento operaio e fra i giovani su scala internazionale, va anche detto che le conseguenze sulle organizzazioni della sinstra e sui sindacati sono state modeste.
La deriva dei Ds in Italia con lo scioglimento nel Partito democratico, o il fatto che dopo un decennio di blairismo imperante nel Partito laburista la sinistra che si riaffaccia non abbia ancora la forza di contendere la posizione di leader del partito, indicano fino a che punto nelle burocrazie di questi partiti si sia cristallizzata e concentrata l’inerzia di un lungo periodo storico di arretramenti. Analogo discorso vale per l’emergere di una figura come Ségoléne Royal nel Partito socialista francese.
Questa inerzia è stata incrinata dai movimenti di massa degli scorsi anni: si pensi al distacco della sinistra dalla socialdemocrazia tedesca che ha contribuito alla nascita della Linke, o al fenomeno del “cofferatismo” nella Cgil del 2002-2003 e alla recente uscita della sinistra Ds; si tratta però solo di anticipazioni, elementi significativi che non hanno ancora mutato il quadro generale nella sinistra e nei grandi sindacati. A questo si aggiunga la crisi quasi generale dei partiti comunisti, che discende soprattutto da errori politici, teorici e tattici, ma ha anche una connessione con la situazione oggettiva.
La svolta del 2001 e il rilancio dei movimento di massa non è stata per noi una sorpresa e per questo ne abbiamo potuto trarre grandi vantaggi e insegnamenti. Ha rappresentato indubbimaente una inversione di tendenza nel processo di presa di coscienza e di radicalizzazione su scala mondiale. Nel confermare la valutazione che facemmo allora, dobbiamo tuttavia inserire un elemento di correzione, prendendo atto del fatto che il presente ciclo economico non si distacca ancora in modo fondamentale dai due precedenti, che c’è un elemento di inerzia e di corrente contraria che frena il definitivo dispiegarsi delle contraddizioni fondamentali. Questo non significa che il senso di marcia del processo sia cambiato, ha tuttavia delle conseguenze sui tempi e anche sui percorsi della lotta di classe e della presa di coscienza; non dobbiamo quindi lasciarci confondere dagli elementi che oggi superficialmente paiono o sono prevalenti, ma dobbiamo saper leggere al di sotto di essi il processo oggettivo nel suo svolgersi, nei suoi tempi e soprattutto nelle sue svolte e accelerazioni. Su questa base possiamo lavorare al consolidamento della nostra prospettiva e preparare le condizioni per nuovi importanti passi avanti nel radicamento delle idee marxiste nel movimento operaio italiano e internazionale.
04/07/2007