“Non credo più nel potere auto-curativo del mercato”. (J. Ackermann, Direttore Generale di Deutsche Bank)
I venti recessivi che giungono dagli Usa avranno un effetto profondo sulle condizioni di vita di milioni di persone. Capirne la portata e le cause fondamentali non è un esercizio intellettuale, ma una necessità vitale per chi avanza un’ipotesi alternativa alla società capitalista, che metta al centro dei suoi obiettivi la piena soddisfazione dei bisogni dei lavoratori e delle classi subalterne.
L’economia statunitense è investita da una profonda crisi economica, che ha le sue basi nel collasso del mercato immobiliare e nell’abnorme indebitamento delle famiglie e delle imprese. Negli scorsi numeri di FalceMartello abbiamo descritto l’evolversi della crisi. Vale la pena ora fare il punto sulle misure prese dai governi per farvi fronte.
L’espressione più immediata e profonda della crisi economica è il crollo rovinoso del sistema finanziario americano. Banche dai nomi prestigiosi, fino a ieri al centro dell’economia mondiale, supplicano le banche centrali di aiutarli a evitare il peggio. In prima battuta ciò dipende dal coinvolgimento diretto e indiretto delle banche nel settore immobiliare, che è ormai nelle peggiori condizioni dal dopoguerra. Per la prima volta dalla grande depressione, il prezzo delle abitazioni negli Stati Uniti è calato a livello assoluto reale (nel 2007 del 10-15% e si prevedono ulteriori cali).
Gli effetti sui redditi delle famiglie sono consistenti e si faranno sentire a lungo termine. Per esempio, a febbraio è aumentato del 60% il numero delle case tolte dalle banche ai propri clienti. Ma le banche sono al centro della crisi soprattutto per il ruolo che hanno acquisito nell’economia americana. Nel 2007 la finanza, pur pesando per il 15% sul Pil del paese e impiegando nemmeno il 5% della sua forza lavoro, ha realizzato il 40% dei profitti aziendali. Questo miracolo di ricchezza creato dal nulla è possibile per l’effetto leva determinato dall’indebitamento.
Negli Stati Uniti, dal 1993 al 2004, il debito al consumo, e cioè l’indebitamento dei consumatori dato dalle carte di credito e dal finanziamento di beni durevoli, schizza da 800 milioni di dollari a 2000 miliardi, pari a circa il 3% dell’economia mondiale. Nel 2006, l’indebitamento totale degli americani è il triplo del Pil del paese.
Il debito del settore finanziario era meno del 20% del Pil ancora a metà degli anni 80, il 40% a metà degli anni 90; ora supera il 110% e ha raggiunto la metà dell’indebitamento totale delle aziende. Le banche americane hanno un dollaro di mezzi propri per 30 dollari e passa di attivo. Che una simile mostruosa massa di capitale fittizio dovesse prima o poi fare i conti con l’economia reale era scontato. Tuttavia, questa crisi non eliminerà il quadro di fondo che è appunto costituito dalla natura parassitaria del capitalismo finanziario, che preferisce le alchimie della finanza alle seccature dell’economia reale.
Gran parte delle banche americane, a un’analisi obiettiva dei loro bilanci, è virtualmente fallita. L’esempio di Bear Sterns è forse il più eclatante. Quinta banca d’investimento degli Stati Uniti, uscita indenne dal ’29, con un volume d’affari che si misura in decine di trilioni di dollari, il 17 marzo, ormai oltre il precipizio, è stata valutata dalla rivale JP Morgan, che ha accettato di comprarla, 240 milioni di dollari. L’offerta è stata poi migliorata ma l’aspetto di fondo rimane: se simili colossi possono fallire dall’oggi al domani, non esistono più certezze. Come ha detto di recente un dirigente di Dresdner Bank, “ormai siamo tutti sub-prime”.
Le azioni di Bear Sterns sono state acquistate a solo 2 dollari l’una, quando l’anno scorso valevano 158 dollari. Incredibile, se si considera che ad agosto dello scorso anno, l’allora presidente dell’azienda era stato mandato via con una buonuscita di 382 milioni. Al confronto i 5 milioni di euro presi di liquidazione da Cimoli da Alitalia sembrano poca cosa. Entrambi retribuiti a peso d’oro per condurre le aziende che amministravano alla bancarotta.
L’aspetto più sconcertante è che a riempire i portafogli dei banchieri e dei grandi manager non è l’utile sull’investimento, ma l’aumento degli stipendi. L’arricchimento non avviene grazie ai balzi dei loro pacchetti azionari, ma perché il loro lavoro è superpagato, mentre i salari di operai e impiegati in questi anni sono calati a picco.
Cosa sta facendo la Federal Reserve?
La banca centrale americana sta facendo di tutto per salvare le grandi banche dalla crisi, compresi interventi vietati da leggi che lei stessa ha emanato. Questo sfrenato attivismo ha riguardato innanzitutto il taglio dei tassi, sei volte da settembre. Considerato il forte aumento dell’inflazione, ciò implica che i tassi reali sono già negativi.
Ed è così che quegli stessi signori che avevano parlato delle virtù del mercato libero e che negli scorsi anni hanno intascato fortune favolose oggi chiedono allo Stato di intervenire per coprire le falle che loro stessi hanno provocato.
La situazione è talmente grave che nonostante la più rapida discesa del costo del denaro da decenni, la liquidità continua a scarseggiare, nessuna banca si fida a prestare soldi alle altre e ciò rende implicito un improvviso crollo di questo o quel grande operatore, con il risultato di possibili effetti a catena.
La banca centrale deve dunque ricorrere a mezzi più diretti per arginare la crisi, offrendo masse immense di denaro alle banche (si parla di centinaia di miliardi) a condizioni assai favorevoli. Da metà marzo, la Fed ha cominciato a fornire liquidità scontata anche alle banche d’investimenti, cosa che non faceva dalla crisi del ’29, accettando per giunta a garanzia titoli di assai dubbio valore (ad esempio quelli connessi ai mutui che vanno a rotoli). Attraverso questi e altri meccanismi (come l’automatico e gratuito rinnovo dei prestiti mese dopo mese), la banca centrale americana è divenuta non solo il prestatore in ultima istanza di tutto il sistema, ma l’azionista occulto di tutte le grandi banche. Le banche sono salvate dall’insolvenza con i soldi pubblici, a pagare sono i contribuenti, in primo luogo quelli coi redditi più bassi.
Questo massiccio uso di fondi dello Stato è ritenuto necessario, ma non è detto risulterà sufficiente. Il solo salvataggio di Bear Sterns potrebbe costare 30 miliardi. Secondo alcuni calcoli, la Federal Reserve ha impegnato già metà del proprio portafoglio di titoli e crediti, circa 800 miliardi di dollari per evitare il collasso finanziario. Un ulteriore crollo potrebbe richiedere stanziamenti speciali dello stato, in un momento in cui le finanze federali, strette tra la recessione, le avventure militari e il crollo del dollaro, sono tirate al massimo. Di qui le richieste non ufficiali di aiuto alle altre banche centrali. Tuttavia, che l’aiuto dello Stato verrà i mercati lo danno per certo, e questo evita alla borsa crolli ancor più rovinosi.
Economisti e strateghi del capitale non sanno che pesci prendere. Sono vent’anni che esaltano la deregulation e il libero mercato e ora si lamentano del proprio stesso lassismo. Che sia finita un’epoca è ormai assodato.
Di recente il Financial Times ha osservato: “Salvando Bear Sterns, la Federal Reserve, protagonista principale delle politiche liberiste, ha dichiarato che quell’epoca è finita” (26 marzo 2008). Le poche voci che ortodossamente sottolineano l’inflazione fuori controllo e il crollo del dollaro, rimangono semplicemente inascoltate.
Restare immobili per coerenza quando l’edificio della finanza mondiale crolla non è un’alternativa praticabile per l’imperialismo. Tuttavia è un fatto che la borghesia internazionale sia giunta del tutto impreparata a questa crisi, come si nota dal fatto che ogni giorno escono piani mirabolanti ed estemporanei con le soluzioni più originali.
Il Presidente della Fed, Bernanke, è stato costretto a buttare all’aria cinquant’anni di storia della politica monetaria per salvare Bear Sterns. Di fatto, ogni giorno si scrive una nuova pagina nei rapporti tra banche centrali e banche. Il professore dell’Università di Londra (la Lse) Buiter ha definito quest’uso dei soldi pubblici “socialismo per i ricchi”, che è poi da sempre l’essenza dell’interventismo capitalista in economia.
La borghesia ha preso per buone le favole che lei stessa ha sparso per decenni sul funzionamento efficiente del capitalismo, l’autoregolazione dei mercati e ora deve cambiare direzione navigando a vista.
Lo stesso Strauss-Kahn, capo del Fondo Monetario Internazionale ha dichiarato che “senza interventi governativi non si esce dalla crisi del credito che rischia di penalizzare la crescita globale”, ed è così che coloro che sono stati i principali fautori del liberismo oggi chiedono l’impiego di soldi pubblici per salvare le banche americane. Gli stessi che durante la crisi dei mercati asiatici del ’97 lasciarono operare il mercato spingendo oltre 20 milioni di persone al di sotto della soglia di povertà.
Il Fmi ha così contribuito all’operazione salvataggio mettendo a disposizione le proprie riserve di oro corrispondenti a 6 miliardi di dollari. Che detto per inciso sono ben povera cosa rispetto alle proporzioni della crisi.
L’impreparazione borghese si riflette nell’atteggiamento dei dirigenti della sinistra socialdemocratica, colti alla sprovvista dalla crisi. Da anni hanno abbandonato ogni timido accenno non solo al socialismo ma anche all’interventismo keynesiano; ancora oggi alcuni, in modo pappagallesco parlano di tagli alle tasse, riduzione dell’intervento statale, mentre la borghesia sta già intervenendo massicciamente per salvare il proprio sistema.
Il keynesismo è una soluzione?
Ovviamente i riformisti si adegueranno presto al nuovo corso, ma difficilmente assisteremo a programmi organici di intervento economico alla Roosevelt o alla Attlee, le risorse sono meno del passato, le interazioni economiche tra i paesi molte di più. L’esempio del Giappone è eclatante. In poco più di un decennio ha triplicato il debito pubblico senza riuscire ad uscire completamente dalla crisi economica che ha colpito il paese alla fine degli anni ’80.
Pur in assenza di piani a lungo termine o di una qualunque strategia coerente, i governi hanno comunque ricominciato a intervenire massicciamente nell’economia, comprese nazionalizzazioni che non si vedevano da decenni. Questi interventi risultano particolarmente necessari ma anche essenzialmente controproducenti per gli Stati Uniti, che intervenendo portano al crollo del dollaro con un rischio di un’ulteriore escalation della crisi. Il dilemma è insolubile: più soldi pubblici useranno per arginare la recessione più rischieranno svalutazioni del dollaro e fughe dai titoli statunitensi. Ma per far apprezzare il dollaro si richiederebbe un aumento dei tassi e un contenimento della spesa federale, scelte impossibili ora.
Negli anni ’30, la crisi del capitalismo condusse a un intervento strutturale dello stato nell’economia, basta pensare all’Iri italiana. La ragione di questo intervento di lungo periodo è che in molti settori la profittabilità era talmente bassa da spingere la borghesia a non investirvi. Essendo tuttavia settori decisivi dell’economia (siderurgia, infrastrutture, le stesse banche), occorreva svilupparli in perdita, come appunto faceva la mano pubblica. Ovviamente ciò nella misura in cui non costituivano un pericolo per i profitti delle aziende private.
In questo senso, il tallone d’achille delle politiche keynesiane è sempre stato questo: se i governi intervenivano in settori in perdita, costituivano un onere per lo Stato, con conseguente aumento delle tasse su aziende e famiglie, mentre se intervenivano in settori redditizi pestavano i piedi alla borghesia. Un problema del genere si presenta già in Gran Bretagna con la banca Northern Rock, nazionalizzata da poco, di cui le altre banche lamentano la concorrenza “sleale” ai loro danni. Dilemmi di questo genere sorgeranno inevitabilmente nei prossimi mesi. Avranno conseguenze politiche profonde. Ricompariranno parole d’ordine dimenticate da decenni e persino Veltroni e Berlusconi riprenderanno a parlare di intervento pubblico.
Socializzazione delle perdite
Il rischio è che il movimento operaio sia corresponsabilizzato in queste politiche e che i dirigenti riformisti presentino l’intervento pubblico come una “svolta a sinistra”. Non è così. L’intervento statale nell’economia è una dimostrazione dell’impasse inesorabile in cui versa l’economia capitalistica, ma non è in sé garanzia di conquiste per i lavoratori. Al contrario, è la riproposizione della vecchia politica di privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite.
Se oggi il carico fiscale che colpisce lavoratori, pensionati e piccola borghesia è così ingente è proprio un effetto dell’enorme quantità di risorse che sono state spese negli ultimi decenni a sostegno dell’accumulazione del capitale privato. L’Italia è stata maestra in questo ed è per questo che oggi dispone di uno dei debiti pubblici più alti al mondo.
I margini per queste politiche si sono ridotti drasticamente e pongono di fronte alla società un problema dirimente, la necessità di rovesciare il sistema economico dominante.
Non più utilizzo delle risorse pubbliche a sostegno del capitale privato, ma viceversa utilizzo del capitale privato a sostegno e sviluppo delle risorse e del patrimonio pubblico. Il che inevitabilmente significa colpire le enormi concentrazioni di ricchezze accumulate in questi anni a discapito della stragrande maggioranza della popolazione.
Per dare un’idea di questo furto legalizzato basti pensare negli Usa il 10% della popolazione possiede il 70% della ricchezza totale. Nello stesso periodo il 90-95% della popolazione rimane ancorata al 12%. Cifre simili si possono riscontrare in tutti i paesi capitalisti avanzati.
Secondo la Goldman Sachs, i margini di profitto delle imprese aumentano con regolarità dal 1989, e raggiungono l’apice nel 2006 grazie al calo della quota di reddito nazionale destinata ai lavoratori
Gli strumenti principali per questo travaso di risorse dagli strati più poveri a quelli più ricchi sono state le leve monetarie, quelle fiscali e l’uso indiscrimanato del debito da parte degli stati e degli istituti sovranazionali che tutelano gli interessi imperialisti.
Non c’è via d’uscita. Solo espropriando le principale concentrazioni produttive, bancarie e svincolando l’economia dal profitto privato è possibile programmare uno sviluppo armonico della società futura. La nazionalizzazione del sistema produttivo e di quello bancario ha un contenuto progressivo solo se si inserisce nel quadro di un sistema sociale ed economico controllato e gestito direttamente dai lavoratori.
Al di fuori di questo ci sono i pannicelli caldi e le diverse opzioni riformiste che in ultima analisi si propongono di perpetuare l’intollerabile arricchimento dei pochi alle spese dei tanti abbellendo la realtà con le chiacchiere colorite che sono incapaci di andare alle radici del problema.
18 aprile 2008