Tra le misure qualificanti di politica economica del governo vi è lo scudo fiscale, misura che riprende quelle predisposte da Tremonti nel 2002-2003. Questo intervento si preannuncia come un grande successo: oltre 100 miliardi di euro già rientrati, banche prese d’assalto, tanto che è stata prorogato di quattro mesi. Nel corso dei precedenti scudi, molti preferirono non aderire perché temevano che, in futuro, le caratteristiche vantaggiose dell’operazione si sarebbero perse. Ora sono sicuri che, a prescindere da chi governerà l’Italia domani, nessuno gli darà noia.
Il rimpatrio dei capitali detenuti all’estero è piuttosto semplice. Persone fisiche e società possono servirsi di banche, intermediari finanziari, persino delle poste facendo affluire denaro o attività finanziarie con la garanzia del totale anonimato. Su queste somme pagano una imposta alquanto conveniente (il 5%) e in cambio ottengono molti benefici. Lo scudo è, infatti, innanzitutto un condono dei reati valutari, fiscali, societari (come il falso in bilancio e l’emissione di fatture false) e fallimentari (come la bancarotta fraudolenta). Inoltre, il decreto prevede la non effettuazione, su chi aderisce, di accertamenti tributari per i periodi d’imposta che vanno, in pratica, fino a tutto il 2008.
Cosa si nasconde dietro un tale successo? Già da molti anni gli analisti più seri del capitalismo nostrano hanno evidenziato lo stato di declino inarrestabile dell’industria italiana, che si riflette nella progressiva marginalità della sua penetrazione internazionale. Dalla metà degli anni novanta, infatti, la quota delle esportazioni italiane sul mercato mondiale di beni ha mostrato una tendenza al ribasso, con un calo, a prezzi costanti, di un terzo.
La produttività totale è minore nel 2008 rispetto al 2000 e la sua variazione media degli ultimi tre decenni si aggira sull’1% annuo. Questa stagnazione di lungo periodo ha subito un’accelerazione con la crisi, che ha aperto una voragine drammatica nella produttività italiana. Il crollo è stato del 13% nel primo trimestre del 2009 e dell’11% nel secondo. La cosa è sorprendente se si pensa che, normalmente, le crisi sono occasioni di taglio degli stabilimenti meno produttivi e dunque di aumento della produttività, pur con un calo della produzione complessiva. Ad esempio, negli Stati Uniti l’aumento supera nell’anno in corso, il 7-8%. Non sorprende dunque, che, se nel 2000 la produttività oraria italiana era simile a quella media europea, oggi è del 12% inferiore.
Dietro questo calo vi è la ridotta propensione a investire da parte della borghesia italiana. Nel grafico a fianco mostriamo l’andamento, per l’Italia, dell’input di capitale, ossia il contributo alla produzione da parte dei capitalisti, dall’81 a oggi. Come si vede, pur considerando i consueti cicli economici, è chiaro che il trend è fortemente calante già da molto prima della crisi.
Particolarmente grave appare la situazione nei settori ad alta tecnologia. La quota di esportazioni high-tech italiane è un terzo di quella dell’Unione Europea e calante: dal 7,5% del 2000 al 6,3% nel 2007. Tale proporzione è ora inferiore a paesi quali Portogallo, Croazia, Estonia. Tale ritardo crescente è il riflesso della ridotta spesa per ricerca e sviluppo, che non supera l’1% del Pil, contro il 2-2,5% degli altri grandi paesi europei.
Il quadro è dunque sufficientemente chiaro. La borghesia italiana investe poco, quel poco di investimento indicato dalle statistiche è spesso connesso a beni personali dell’imprenditore che fa figurare come rinnovo degli impianti anche l’acquisto della fuoriserie o del motoscafo.
Lo scudo è, come viene definito in gergo, un condono tombale. In cambio di pochi spiccioli da spendersi elettoralmente, il governo non chiederà nulla sulla provenienza o sulla destinazione di una massa ingente di risorse (attorno all’8-9% del Pil). Ma, a prescindere dalle ovvie considerazioni sul fatto che lo scudo premia evasori e mafiosi, tangentari e riciclatori, il punto di fondo è che cosa dice sul futuro dell’industria italiana.
I dati ci hanno chiarito come stanno le cose. Questi soldi non finiranno in investimenti e nemmeno nella ricapitalizzazione di aziende, piccole e grandi. Finiranno nelle disponibilità personali degli imprenditori. In questo senso è corretto definirlo condono tombale, è la pietra tombale sulle ambizioni dei capitalisti italiani.