Far pagare la crisi a chi ha fatto i profitti
Le banche europee hanno portato i tassi d’interesse al 3,5%, dimostrando di non credere a chi parla di ripresa economica.
Come ha affermato lo stesso Presidente del Consiglio, Massimo D’Alema il ‘99 sarà un anno di recessione, nel quale presumibilmente si distruggerà altra forza lavoro aggravando il problema della disoccupazione.
Guarda caso un pò ovunque i governi preparano nuove leggi antisciopero: in Italia ad avanzare la proposta è nientemeno che il segretario della Cgil: Sergio Cofferati. Lo scopo è quello di intimidire chiunque decida di scioperare contro le ristrutturazioni aziendali, l’intensificazione dei ritmi, il blocco dei salari.
Dopo gli accordi di luglio del ‘92-’93 Governo, Confindustria e sindacati si preparano a mettere un secondo giro di corda attorno al collo dei lavoratori con i patti per il lavoro.
È una scena penosa vedere il primo governo presieduto da un ex dirigente del Pci ricevere il plauso dei vescovi, per i finanziamenti alla scuola privata e fare sul terreno dell’orario di lavoro una legge sugli straordinari che va esattamente nella direzione opposta alle promesse fatte sulle 35 ore. La politica che sta facendo il governo D’Alema, con il sostegno dei vertici sindacali è proprio questa, un miscuglio di concertazione e repressione.
Molti lavoratori assistono attoniti a questo spettacolo che si sviluppa sotto i loro occhi, ma non riescono ad abbozzare una reazione significativa. Non sono contenti del governo D’Alema, ma lo accettano non vedendo un’alternativa percorribile.
D’Alema, si sta preparando a governare il paese in recessione con una politica di austerità, che ancora una volta scarica sui lavoratori il peso della crisi. Su questo non ci sono differenze con gli altri esecutivi socialdemocratici che governano in Europa che si fanno interpreti delle necessità del grande capitale, facendo ingoiare ai lavoratori una pillola indigesta, che viene a mala pena indorata con qualche proclama che di riformismo ha solo l’odore ma non la sostanza.
Si pensi alla legge sulle 35 ore, che sta diventando in Italia, come in Francia una vera e propria barzelletta; perché nei fatti l’orario di lavoro sta aumentando in tutta Europa mentre il problema della disoccupazione sta diventando drammatico.
La stagnazione dei mercati aprirà una vera e propria guerra per mantenere le quote di profitti delle grandi compagnie in ogni settore dell’economia, la chiusura dei bilanci di fine anno faranno emergere forti perdite che spingeranno inevitabilmente le aziende ad avviare pratiche di licenziamento con riduzione dei salari e peggioramento delle condizioni per i lavoratori che restano in organico.
L’esperienza della Boeing, a questo proposito è molto significativa; la compagnia di volo americana che ha subito nell’ultimo anno un calo dei profitti del 10%, ha tentato di risollevarsi dalla crisi dichiarando 45.000 licenziamenti. Lo stesso sta facendo la Fiat in Italia mettendo in Cassa integrazione 27.000 lavoratori e preparandosi anch’essa a dichiarare esuberi per il ‘99, in previsione di un vero e proprio crollo delle vendite (1.600.000 auto nel ‘99 contro 2.200.000 che si prevede verranno vendute nel ‘98).
I capitalisti, quando c’è crisi dicono che tutti devono stringere la cinghia e esigono dai lavoratori nuovi sacrifici; il governo e i vertici sindacali succubi di questa logica si stanno attrezzando per realizzarla.
Ci diranno per giustificarsi che presto ci saranno tempi migliori in cui verrà fatta una redistribuzione. Questa cantilena ce la raccontano dai tempi del governo Amato, ma dopo 7 anni di sacrifici le cose continuano solo a peggiorare.
Le leggi sulla flessibilità (leggi pacchetto Treu, patti territoriali, ecc.) non hanno risolto nulla, d’altronde come poteva essere diversamente, visto che tutte le politiche "per il lavoro" vanno nella direzione di aumentare l’orario? L’unica via d’uscita è rompere la logica delle compatibilità rivendicando la riduzione d’orario di lavoro a 35 ore settimanali, senza scambio di flessibilità.
Ma richiedere questo non basta, è necessario dare un reddito decente ai disoccupati, in attesa che trovino occupazione per evitare che siano costretti ad accettare il lavoro in nero con condizioni impietose.
Inoltre chi oggi è in produzione deve andare in pensione prima e non dopo e i salari reali devono aumentare, insieme alle coperture dello stato sociale riducendo così la necessità per molti di fare straordinari o avere il secondo lavoro.
Ci si può domandare chi pagherà tutto questo, con gli enormi debiti che ci sono? Ci permettiamo di ricordare che la cinghia l’hanno stretta solo i lavoratori, mentre i padroni negli ultimi 20 anni hanno fatto la grande abbuffata, in primo luogo con i profitti che sono andati alle stelle, poi con i finanziamenti a fondo perduto, gli sgravi e i contributi per la rottamazione, con la privatizzazione di servizi sociali che hanno aperto nuove possibilità di arricchimento (si pensi solo ai fondi pensione che rappresentano il vero "affare del secolo"), infine con le rendite finanziarie che con interessi del 10-15% che garantivano i titoli dello Stato anni addietro contribuivano ad ingigantire il debito.
Questo debito oggi è la scusa con cui si giustifica ogni attacco ai diritti dei lavoratori, ma nessuno ci dice chi lo ha provocato e allo stesso tempo si è arricchito con esso negli anni passati.
La risposta è: la classe capitalista. Una politica di classe oggi deve partire proponendo la cancellazione del debito che lo Stato ha accumulato con le grandi rendite e il grande capitale, restituendo i soldi solo ai piccoli risparmiatori, aprendo un conflitto con la borghesia e con il suo sistema; condizione necessaria per difendere gli interessi dei lavoratori rompendo la logica dei governi di collaborazione di classe e della concertazione. Noi con la concertazione abbiamo solo perso come abbiamo perso con il governo Prodi e continuiamo a perdere col governo D’Alema che non a caso è e sarà sostenuto fortemente dalla borghesia fino a quando saprà mantenere la calma sociale.
A questo clima di collaborazione di classe ha contribuito in questi anni anche Rifondazione Comunista, che per questo errore ha pagato un prezzo altissimo con la scissione di ottobre, facendolo pagare anche ai lavoratori. Ora quel periodo per fortuna si è concluso, ma si tratta di fare una svolta anche sul programma per abbandonare le illusioni sulla riformabilità dei mercati, sulla possibilità di costruire un "capitalismo buono" che crei occupazione e progresso, magari attraverso qualche politica keynesiana.
I comunisti si riuniranno a congresso a partire da gennaio fino a marzo quando si terrà l’assise nazionale; in quell’occasione si svilupperà la battaglia di chi come scrive propone di abbracciare un programma per la trasformazione sociale, che dichiari chiaramente la irriformabilità del capitalismo per preparare la strada, discutendo di programmi, di metodi, di strategie, a un cambiamento rivoluzionario della società in senso socialista. Per dirla con le parole di Marx, aprire la strada a una società in cui "da ciascuno secondo le sue possibilità , a ciascuno secondo i propri bisogni ".
4/12/1998