Con la crisi economica arrivano nuovi attacchi
L’industria italiana è sulle soglie di una nuova crisi. Le cifre dell’Istat indicano che nei primi due mesi dell’anno il fatturato è calato del 5,6% rispetto allo stesso periodo del 1998, e che gli ordinativi scendono del 7%. Particolarmente significative sono le difficoltà sui mercati esteri, dove il calo delle vendite raggiunge il 7,7% e quello degli ordinativi l’11%
Sulla base di queste cifre le previsioni del governo di una crescita del Pil attorno all’1,5% nel 1999 potrebbero rivelarsi fin troppo ottimiste. La Confcommercio, per esempio, rivede la stima attorno allo 0,7%.
Il ministro dell’Industria Bersani (Ds) fà gli scongiuri e afferma che non si tratta né di recessione, né di pre-recessione, ma di “affaticamento”. La realtà è che l’economia italiana è l’anello debole di un’Europa che a sua volta è in forti difficoltà.
Per capire le prospettive è necessario capire il contesto internazionale. L’intero mercato mondiale è letteralmente allagato di merci che faticano a trovare acquirenti; la fonte di queste merci è l’Asia, e in particolare la Cina e il Giappone, che non solo non assorbe più come in passato una parte dei prodotti degli altri continenti, ma al contrario riversa sui mercati una enorme quantità di prodotti a prezzi stracciati. Alcune cifre possono dare l’idea delle dimensioni della sovrapproduzione mondiale.
Il Giappone potrebbe produrre nel 1999 circa 14 milioni di autoveicoli, ma forse solo 9,5 milioni troveranno un acquirente. Il resto o verrà svenduto sui mercati esteri, o si tramuterà in magazzini pieni e fabbriche bloccate, con licenziamenti e ristrutturazioni. La sola Cina potrebbe potrebbe rifornire il mondo intero di Tv, videocassette e frigoriferi. Nel settore dell’acciaio si calcola che 300 milioni di tonnellate di acciaio, pari a circa un terzo dell’intera produzione mondiale, non trovino acquirenti.
Questa situazione esiste nella maggior parte dei settori dell’economia mondiale e sta portando a un’ondata di deflazione, cioè di calo dei prezzi, quale non si vedeva dalla crisi degli anni ’30.
Oggi l’unico fattore che impedisce a questo calo dei prezzi di diventare inarrestabile e di travolgere i profitti delle maggiori aziende, trascinando il mondo in recessione, è la crescita dell’economia degli Usa, che assorbe gran parte dell’eccedenza produttiva mondiale. Ma fino a quando?
Squilibri commerciali
Il boom americano non si basa nè su massicci investimenti, né su una crescita significativa della produzione. È innanzitutto un boom dei consumi, finanziato dalla Borsa e dall’afflusso di capitali esteri, che gonfiando la bolla speculativa di Wall Street mantengono alti i consumi. Circa 100 milioni di americani sono direttamente o indirettamente coinvolti nella Borsa (fondi comuni, fondi pensionistici, ecc.) e spendono nei consumi tutto quello che riescono a guadagnare a Wall Street; questo significa che al primo serio scossone in Borsa tutto il castello potrebbe crollare.
Gli Usa assorbono prodotti da tutto il mondo e ogni anno accumulano nuovi record negativi della bilancia commerciale (cioè il saldo fra esportazioni e importazioni). Nel 1998 questa ha segnato un passivo di circa 400mila miliardi di lire.
In qualsiasi altro paese cifre di questo genere avrebbero già portato a un crollo della moneta e una crisi valutaria simile a quelle che abbiamo visto in Asia o in Brasile. Se questo non accade negli Usa è solo perché la loro posizione di prima potenza mondiale permette loro di rastrellare i capitali in fuga da tutto il mondo e in particolare dall’Asia in crisi. Gli Usa ottengono credito non per lo stato soddisfacente della loro economia, ma per mancanza di alternative e soprattutto perché sono la potenza egemone del pianeta, che controlla la moneta chiave degli scambi commerciali, che dispone dell’esercito più potente, ecc. Ma tutto questo non fa che rimandare il problema. Gli squilibri commerciali che si accumulano nel mondo, e in particolare quelli legati al deficit degli Usa, non potranno che culminare in guerre commerciali, delle quali alcune sono già in corso (banane, acciaio, carne agli ormoni, colture transgeniche, ecc.), svalutazioni competitive e ritorsioni reciproche.
La situazione dell’Italia
In questo contesto l’Europa sarà costretta a prendere contromisure o a essere schiacciata. Fusioni, ristrutturazioni, nuovi attacchi ai salari e allo stato sociale saranno una strada obbligata per tutti i maggiori paesi. In questo contesto l’Italia farà la parte del vaso di coccio fra i vasi di ferro.
Nel periodo 1990-98 l’economia italiana è cresciuta in media dell’1,1% annuo, mentre quella degli altri paesi dell’unione europea dell’1,9. Nello stesso periodo si sono persi 1 milione e 300mila posti di lavoro. Questo dato riflette la perdita di competitività delle industrie italiane, e anche la pesantezza dei tagli legati all’entrata nell’Euro.
In passato l’industria italiana si difendeva dalle crisi con la svalutazione della lira, che tagliando i prezzi delle merci italiane aumentava le esportazioni. Anche nel corso di questo ultimo ciclo di ripresa (1994-1999) la svalutazione ha giocato un ruolo chiave. Oggi, a causa dell’Euro, questa leva non può più venire utilizzata. Il governo si sta affannando a spendere i pochi risparmi che derivano dal calo dei tassi d’interesse, ma questo significa che al momento in cui la crisi diventerà evidente non ci saranno risorse significative per farvi fronte.
Già ora vediamo che l’attivo commerciale che ha sorretto l’economia italiana dal 1995 in poi tende a scomparire: si è già azzerato nei confronti dei paesi dell’Unione europea, e si è dimezzato verso quelli extraeuropei.
Fuga di capitali
Non è quindi strano che i capitali continuino a fuggire dall’Italia, nonostante le prediche del governo. Come ha detto Benetton, i padroni non investono per patriottismo.
Quello che si prepara è dunque una nuova crisi, altrettanto se non più profonda di quella del 1992-93. L’industria italiana è ormai tagliata fuori dai settori decisivi e si basa su settori come la moda, il tessile, gli occhiali, ecc. Solo tre grandi aziende italiane (Fiat, Telecom, Eni) hanno una massa critica sufficiente per sperare di resistere sul mercato mondiale.
Dal 1995 in poi i governi e la Confindustria hanno scelto una strada temporeggiatrice, cioè di far passare solo quelle controriforme sulle quali riuscivano ad avere il consenso dei dirigenti sindacali, rimandando gli altri problemi. Oggi i margini per temporeggiare si riducono sempre di più.
Vedremo inevitabilmente una nuova ondata di ristrutturazioni e licenziamenti, alla quale si aggiungeranno nuovi tagli alla spesa pubblica. Con l’entrata nell’Euro le pressioni per nuovi tagli alle pensioni e alla spesa sociale saranno fortissime: i banchieri europei non saranno disposti a coprire eventuali buchi nel bilancio italiano se non vedranno una chiara decisione del governo di scaricare la crisi ancora una volta sulle nostre tasche, e non a caso da tutte le parti (Ocse, Fmi, Unione europea) si moltiplicano gli appelli a riprendere l’attacco alle pensioni, appelli che sono già stati raccolti dal ministro Treu.
Preparasi a nuovi attacchi
La recessione metterà inevitabilmente in crisi la tregua sociale degli ultimi anni. Il problema è che il movimento operaio, e in primo luogo il sindacato, arriva a questo scontro confuso e indebolito. Il compito dei militanti comunisti nei prossimi mesi dovrà essere quello di spiegare nei posti di lavoro e nel sindacato quali sono le vere prospettive per l’economia italiana e quali conseguenze queste avrano sulla vita di milioni di lavoratori. In tutto questo decennio abbiamo visto come durante i periodi di crisi sono state pesantemente attaccate le conquiste passate (scala mobile, pensioni, stato sociale) ma che anche nei periodi di ripresa non ci sono state inversioni di marcia. La prossima recessione porterà i padroni a rimettere in discussione non solo le pensioni, ma anche i contratti nazionali e lo Statuto dei lavoratori. La prima condizione per poterci oppore a questi nuovi attacchi è che il sindacato abbandoni la strada suicida della concertazione, strada che ha dimostrato in otto anni di portare solo a un cedimento dopo l’altro.