Il prezzo del petrolio, dopo aver toccato a giugno 2014 l’apice dei 115 dollari al barile, nel secondo semestre 2014 è in picchiata verticale e ha raggiunto la soglia dei 50 dollari. La contrazione del ciclo economico globale ed il calo della domanda hanno posto oggettivamente le condizioni per un calo sostanziale del prezzo del petrolio.
La decisione del 27 novembre 2014 dei paesi produttori (Opec), Arabia Saudita in testa, in conflitto con altri paesi del “cartello”, di non tagliare la produzione, ha fatto da detonatore per il calo repentino e vertiginoso che si è registrato nell’ultima parte dell’anno.
Ci si sarebbe potuto aspettare il contrario, cioè che per sostenere i propri ricavi i paesi produttori tagliassero appunto la produzione, ma questo non è avvenuto, come mai?
Conflitto Arabia-Usa
La crisi economica del 2008, ha generato una spinta dei capitali accumulati in eccesso a cercare nuove opportunità di investimento, in particolare gli Stati Uniti sono stati spinti ad affrancarsi dalla dipendenza energetica, utilizzando la nuova tecnologia di cui dispongono, vale a dire quella di “scisto” per l’estrazione del gas e del petrolio (shale oil).
Questa tecnologia ha due problemi fondamentali, uno di carattere ambientale, produce inquinamento delle falde acquifere e movimenti sismici, come pare sia stato sufficientemente dimostrato, ed uno di carattere economico: è al momento più costosa dei sistemi tradizionali di estrazione, per cui richiede consistenti investimenti con prospettive di ricavi che non possono essere garantiti da un prezzo del Brent sotto i 60 dollari al barile.
La decisione dell’Opec di non tagliare la produzione, praticamente imposta dall’Arabia Saudita, maggiore produttore mondiale, cambia e destabilizza ulteriormente lo scenario dei rapporti internazionali. Alla radice della decisione c’è un conflitto economico fra due tradizionali alleati, Usa e Arabia Saudita. è del tutto evidente come i sauditi vogliano infliggere una battuta d’arresto al nuovo orientamento degli Stati Uniti in materia di politica energetica e ricondurre la potenza statunitense nella logica della dipendenza energetica dai paesi tradizionalmente produttori ed in primis dall’Arabia Saudita.
Questa politica implica però anche dei pesanti costi per i paesi tradizionalmente produttori.
Un prezzo così basso comporta minori ricavi e conseguenze sul budget statale di questi paesi che, chi più chi meno, hanno dovuto allargare i cordoni della spesa pubblica per fronteggiare le rivolte ed il malcontento delle popolazioni maturate nella cosiddetta Primavera araba.
L’Arabia Saudita è quella che da questo punto di vista sta meglio, assieme a Kuwait ed Emirati Arabi. Riad ha riserve valutarie ingenti pari a circa 750 miliardi di dollari che gli permettono di fronteggiare al momento il fabbisogno di bilancio, ma a lungo termine la situazione con un prezzo del greggio sotto i 60 dollari a barile non è sostenibile neanche per loro.
Chi ne fa le spese in questo momento sono, fra i paesi produttori, Libia, Algeria, Nigeria, Messico, e soprattutto Iran, Venezuela e Russia, paesi che per peso economico e rilevanza politica giocano un ruolo enorme negli equilibri internazionali.
Le conseguenze sul Pil, sull’inflazione e sul fabbisogno statale di questi paesi sono già critiche ora e sono destinate ad accentuarsi nel prossimo periodo.
Ripercussioni sull’Europa e sui mercati finanziari
In apparenza l’economia europea in forte difficoltà, sull’orlo di una nuova recessione, dovrebbe trarre vantaggio dal calo del Brent con una diminuzione dei costi per le imprese di produzione e per tutto il sistema della distribuzione, con un vantaggio finale anche per il consumatore.
Questo è vero ma è solo un aspetto, anche se rilevante, del problema. Infatti i paesi dell’area euro sono alle prese con i problemi dell’indebitamento statale, acuitosi enormemente con la crisi del 2008 e con lo spettro della “deflazione” percepito come più rilevante e minaccioso dell’inflazione che consentirebbe una svalutazione degli stock del debito pubblico.
Vanno infine considerate le ripercussioni nei mercati finanziari, al momento non quantificabili ma di portata previdibilmente gigantesca, che la guerra sullo shale oil potrebbe innescare.
Già adesso, vi sono forti ricadute sui bilanci e sulle quotazioni azionarie delle principali compagnie petrolifere mondiali, ma ulteriori nodi verranno al pettine quando verranno a scadenza i contratti stipulati per finanziare a debito gli investimenti nello shale oil, a copertura dei futuri ricavi derivanti dall’attività dei nuovi pozzi installati per l’estrazione col sistema di scisto (si calcola che siano più di 20mila e principalmente negli Usa) che prevedono un prezzo base di almeno 100 dollari a barile.
Questa vicenda rende evidente l’inestricabilità delle contraddizioni sia economiche che di carattere politico che la crisi esplosa nel 2008 ha generato e come tali contraddizioni siano destinate ad accentuarsi. Tutto questo pone ancora una volta alle classi lavoratrici il problema del superamento del sistema capitalistico giunto da tempo ad un punto di non compatibilità con la stabilità e lo sviluppo della civiltà umana.