Profitti, oleodotti e mazzette
In questi mesi abbiamo assistito al più colossale fallimento aziendale della storia. È una vicenda da cui si possono trarre molte lezioni e ci ricorda la fragilità su cui poggia l’attuale "ordine mondiale".
La Enron, multinazionale nel settore energetico, era giunta, all’apice del successo, al settimo posto nella classifica delle più grandi aziende americane e all’undicesimo per capitalizzazione di borsa. Operava in decine di paesi costruendo oleodotti, vincendo appalti per le forniture energetiche, speculando sui prezzi dei carburanti, arricchendosi nei mercati energetici privatizzati da poco, come in California, dove, dopo la privatizzazione, il costo di un kilowatt à passato da 30 a 1000 dollari.
Grazie all’amicizia con la famiglia Bush è da sempre stata favorita negli appalti in patria come all’estero. Amnesty International ha denunciato l’uso che Enron ha fatto, in India, di bande di malavitosi locali per costringere un intero paese ad andarsene da un sito dove doveva sorgere una centrale.
In generale, l’azienda usava il governo americano per aprirsi la strada ovunque (compreso l’Afghanistan). E dietro alla mancata ratifica dell’accordo di Kyoto da parte di Bush ci sono direttamente gli interessi di questo settore. Ma non si può dire che non ricompensasse bene per questi favori. Alle ultime elezioni Enron è stata la più grande finanziatrice di Bush (per centinaia di milioni di dollari), anche se, come ogni grande azienda che si rispetti, ha finanziato pure i democratici. Il governo Bush è pieno di ex alti dirigenti dell’azienda, non ultimo il vice presidente Dick Cheney, che ora si rifiuta di consegnare i documenti sullo scandalo al magistrato. Per alcuni anni Enron ha fatto profitti d’oro, (400 milioni di dollari in 4 anni), ma di questi soldi non ha pagato una lira di tasse, grazie a una serie di società (si dice oltre 800) costituite in paradisi fiscali.
Quando le cose hanno iniziato ad andare male, Enron ha nascosto le perdite, mentre i dirigenti vendevano le azioni ancora al loro massimo, intascando milioni di dollari.
Alla fine il crollo è venuto a galla ed è stato verticale. A ottobre sono cominciate ad emergere perdite enormi. Il 2 dicembre l’azienda ha dichiarato ufficialmente il fallimento e 7.000 licenziamenti. Ma i circa 21.000 dipendenti di Ernon non perderanno solo il posto, ma anche la pensione, dato che il fondo pensione aziendale era stato costretto a investire nei titoli dell’azienda e all’inizio della crisi gli era stato impedito di vendere le azioni della società, ancora a quotazione elevate, per non diffondere il panico tra gli azionisti.
Nelle settimane seguenti lo scandalo è venuto fuori in tutta la sua gravità, compresa la distruzione di documenti da parte di dirigenti e consulenti dell’impresa, le mazzette ai politici e, come in ogni scandalo di questo tipo, il suicidio (forse non proprio volontario) di un alto dirigente.
Effetti a catena?
Che effetti avrà il fallimento? Come si è detto, sui dipendenti è stato catastrofico, sui dirigenti scappati con bonus miliardari, assai meno. Negli Stati uniti, la bancarotta di un azienda pure così esposta verso le banche non è tale da sconvolgere l’economia. Comunque, le banche stanno spingendo alcuni clienti a ridurre i propri debiti, costringendoli al fallimento (è questo il caso di una catena di supermercati, la Kmart).
Ma più importanti sono gli effetti politici che può avere la vicenda, soprattutto sulla coscienza dei lavoratori americani. Questo episodio dimostra infatti, innanzitutto che nell’epoca attuale, grande capitale e Stato imperialista sono praticamente fusi e i governi, anche quelli più potenti, sono pupazzi nelle mani di aziende come questa. In secondo luogo, che i fondi pensione (contrariamente a quanto ultimamente persino la Cgil sbandiera) sono un colossale imbroglio. Infine, che la solita storia che ci ripetono sulle virtù del sistema americano in cui ogni potere è controllato da un altro in un gioco di "pesi e contrappesi" si è rivelata per la bufala che è: non ci sono autorità di controllo e società di revisione che tengano di fronte agli interessi delle grandi aziende. Come ha notato di recente un economista (Krugman): "Il caso Enron non è il fallimento di un’azienda, è la storia del fallimento di un sistema". E noi aggiungiamo, il sistema capitalistico.