La crisi apertasi nel 2008 ha scosso da cima a fondo i mercati finanziari e sta trascinando con sé i bilanci di interi stati. La situazione in Grecia sta mettendo a nudo non solo la debole struttura del capitalismo greco, ma dell’intera Unione europea.
Già dalla sua nascita evidenziammo come il sogno di un’Europa unita su basi capitalistiche sarebbe stato impossibile da realizzarsi, un’utopia che avrebbe presto mostrato la sua natura reazionaria non solo perchè l’Europa unita avrebbe, ed ha, significato attacchi sempre più violenti alla classe operaia europea, ma perchè unificare economie nazionali a diverse velocità e che rispondevano a esigenze e interessi diversi avrebbe significato che il processo verso la costituzione dell’Unione europea avrebbe prodotto tensioni e crisi sempre più violente fra stati membri. Ora che Grecia, Spagna, Irlanda, Portogallo e Italia sono sull’orlo del baratro economico, la crisi dell’Unione europea è evidente a tutti e la ricerca di soluzioni per salvare il salvabile si fa sempre più pressante.
La borghesia europea, e in particolare quella francese e quella tedesca, premono affinchè la soluzione del rientro del debito degli stati membri possa salvare i propri bilanci e le proprie banche, tentando di spremere la classe operaia con misure sempre più draconiane. A sinistra, tra le risposte che ora circolano grazie alla voce di eminenti professori di economia, come Alberto Bagnai, sembra che il nuovo mantra sia la risposta più semplice. L’Europa è in crisi. L’Italia fa parte dell’Europa. Per uscire dalla crisi, usciamo dall’Europa. Torniamo alla lira e svalutiamo.
La svalutazione della lira negli anni ’90
La base di questo ragionamento poggia su un parallelo tra la situazione attuale e quella degli anni ’90. Così come all’inizio degli anni ’90 l’Italia si trovò nel mezzo di una grave crisi e adottò misure di svalutazione della lira, oggi si potrebbe fare la stessa cosa. Un po’ di svalutazione, si attraggono nuovi capitali e dopo un po’ si starà tutti meglio. Tuttavia il parallelo è improprio almeno per una ragione: la crisi che l’Italia e l’Europa stanno attraversando è profondamente diversa da quella degli anni ’90. La sua particolare asprezza non permette facili soluzioni a meno che non si attacchi frontalmente la classe lavoratrice, e per la verità anche i governi Amato e Ciampi si resero protagonisti di attacchi pesanti ai diritti dei lavoratori.
La cancellazione della scala mobile, la più pesante riforma delle pensioni, un processo d’inflazione (tra il ’90 e il ’95 le stime ufficiali viaggiavano attorno al 5%) che corrose il potere d’acquisto di salari e pensioni, la svendita di Iri, Eni e Enel, l’inizio della precarizzazione del lavoro e una maximanovra da 93mila miliardi di lire (5,8% del Pil), con 43.500 miliardi di tagli e 7mila di dismissioni, con la lira che veniva svalutata in tre anni di oltre il 40% e che raggiungeva quasi quota 800 nel cambio col marco tedesco. Certo, uscimmo da quella crisi, ma solo perchè il padronato si riprese diverse conquiste storiche e perchè all’epoca il capitalismo europeo e mondiale godeva di relativa buona salute.
Oggi le condizioni sono totalmente diverse. In un recente rapporto, la Banca mondiale ha rivisto al ribasso le stime di crescita dell’economia globale: nel giugno 2011 veniva stimata una crescita nel 2012 del 6,2% nelle economie emergenti e del 2,7% nei paesi sviluppati, mentre i valori effettivi dovrebbero attestarsi rispettivamente sul 5,4% e 1,4%. Particolarmente drammatica la situazione europea, dove la crescita stimata passa dall’1,9% allo -0,3%. L’America Latina non fa eccezione: l’economia della zona sembra in chiaro rallentamento rispetto alla ripresa del 2010. I tassi di crescita parlano chiaro: la regione è passata dal 5,9% del 2010 al 4,3% del 2011, con una stima per il 2012 del 3,6%. Durante gli anni ’90 gli scambi internazionali, invece, prosperarono, con le esportazioni globali che crebbero a un tasso medio del 6,4 %, raggiungendo nel 2000 quota 6.300 miliardi di dollari. I paesi in via di sviluppo, tra cui l’Argentina, furono i primi a trarne vantaggio, e le loro esportazioni crebbero nel complesso a un tasso del 9,6% all’anno e il tasso medio di crescita del Pil per tutti i paesi in via di sviluppo crebbe del 4,3%.
Ancora sulla crisi argentina
Naturalmente, restando nell’orizzonte del puro mito, a sostegno di tali soluzioni vengono resuscitati anche casi diversi da quello italiano. Abbiamo già scritto sulle colonne di questo giornale riguardo al default argentino. Per quanto concerne questo articolo ci preme sottolineare alcuni dati interessanti. Il default sui 93 miliardi di dollari di debito estero causò all’epoca un calo del 60% dei consumi nelle famiglie argentine, il tasso di disoccupazione sfiorava il 25% della popolazione e oltre il 50% di argentini era considerato al di sotto della soglia di povertà. Una volta messo in ginocchio il paese e reso più conveniente l’investimento in Argentina, l’economia tornò a crescere anche con tassi elevati, ma a costo di un massacro sociale di inaudite proporzioni. Ma la differenza qualitativa tra il contesto attuale e quello di quindici anni fa è che il processo della crisi argentina avvenne in una fase in cui il capitalismo, sebbene in crisi, godeva ancora di alcuni margini di ripresa, tra cui l’entrata della Cina sul mercato mondiale. Ciò favorì un processo di investimenti e l’Argentina potè godere anche di spazi di mercato grazie all’esportazione di prodotti agricoli e altre materie prime. Materie prime di cui l’Italia è priva.
Una prospettiva internazionalista
Il problema di certa sinistra innamorata di simili soluzioni è il suo limitato sguardo nazionale. L’incapacità di guardare al processo di crisi globale ed europeo come processo di crisi internazionale non gli permette di fornire soluzioni internazionaliste che rompano con il quadro nazionale e soprattutto col capitalismo nazionale. Ancora una volta Keynes è croce e delizia della sinistra. Vladmiro Giacchè ha scritto in un articolo che Keynes è ormai fuorilegge. In realtà doveva essere fuorilegge nei testi economici della sinistra già da tempo. Ma tant’è. I processi materiali spingono le idee più in avanti. Lo stesso Kke greco, come abbiamo sottolineato in un altro nostro articolo su www.marxismo.net, sembra invischiato in questa prospettiva strettamente nazionale. Non solo, ma un processo di disgregazione dell’Europa e un ritorno alle monete nazionali comporterebbe l’immediato innalzamento di barriere protezionistiche e un avvitamento ulteriore delle economie di ciascun paese in un contesto di caduta libera dell’economia ben peggiore di quello degli anni ’90.
Secondo uno studio di Unione banche svizzere, un paese che volesse abbandonare l’euro dovrebbe svalutare la propria moneta di circa il 60% (e non del 20% come sostiene Bagnai, erroneamente, nel suo articolo), il volume degli scambi calerebbe del 50%. Afferma inoltre: “Considerando tuti questi fattori, un paese che secede [dall’Ue] dovrebbe aspettarsi un costo tra i 9.500 e gli 11.500 euro a persona e dopo si potrebbe avere un costo di circa 3-4mila euro a persona per ogni anno successivo”. Uno scenario da guerra civile.
Inoltre ci chiediamo: chi guiderebbe questo processo di uscita dall’euro? I lavoratori, una fantomatica borghesia anti-liberista, oppure un improbabile patto sociale fra le classi? Qualunque proposta di uscita dalla crisi, senza porre la questione del potere e della sua conquista da parte della classe operaia è del tutto velleitaria.
Infine, se davvero a sinistra vogliamo fornire una prospettiva concreta, dobbiamo anzitutto liberarci degli angusti spazi che questo sistema ci offre. Girare attorno al problema senza provare a estirpare la mala pianta dalla radice è il peggior servizio che possiamo offrire alla classe lavoratrice di questo paese. La soluzione della crisi non sta in magiche formule economiche, tutte interne all’economia di mercato, ma è un problema squisitamente politico: o si ha chiara la prospettiva dell’abbattimento del capitalismo in un’ottica internazionalista o siamo destinati a ripercorrere le strade che più di una volta hanno disorientato il movimento internazionale. Alla camicia di forza dell’Unione europea, che destina le classi subalterne a un futuro di impoverimento e miseria, dobbiamo opporre la trasformazione socialista dell’intero continente.