L’economia mondiale continua la sua crisi. Gli andamenti dell’economia reale nel 2002 hanno sistematicamente smentito l’ottimismo (presumibilmente non disinteressato) della gran maggioranza degli “analisti” economici. La ripresa più volte annunciata non si è materializzata e per il terzo anno consecutivo le borse mondiali hanno visto una caduta dei loro valori, un fatto che non si verificava dal 1939-41, quando era in corso una guerra mondiale.
Il perdurare delle difficoltà dell’economia mondiale non è affatto una sorpresa per noi marxisti, come dimostra il materiale da noi pubblicato negli scorsi due anni.L’andamento dell’economia capitalista da sempre vede l’alternarsi del ciclo boom recessione, e la crisi attuale ha smentito duramente i guru della nuova economia che teorizzavano la fine del ciclo economico. Ma dire questo non è sufficiente da solo a comprendere natura della crisi attuale. Una crisi, infatti, può essere di breve durata, poco più di una pausa in un’ascesa generale del capitalismo, o può viceversa inserirsi in un contesto di più ampia crisi economica e di decadenza generale dell’economia capitalista.
A che punto del ciclo siamo oggi?
Le cifre dell’economia Usa, la più importante del mondo, confermano in modo evidente come la crisi non solo non sia finita, ma come dia chiari segni di avvitarsi su se stessa. L’aspetto decisivo sono i profitti e gli investimenti. Per parlare seriamente dell’inizio di una ripresa occorre infatti che dopo la fase della distruzione della capacità produttiva in eccesso (chiusure di fabbriche, ristrutturazioni, licenziamenti, fallimenti), le aziende esistenti ricomincino a fare profitti e si trovino così spinte ad investire.
Al contrario, vediamo come l’industria nordamericana sia ancora carica di una enorme capacità produttiva inutilizzata. L’utilizzo degli impianti era calato per 19 mesi consecutivi fra il 2000 e il 2001, dopo di che la caduta pareva essersi arrestata nella prima metà del 2001. Ma da luglio la capacità produttiva utilizzata ha ripreso a scendere passando dal 76,4% di luglio al 75,4 di dicembre, cioè il dato peggiore dal 1982, e di parecchio più basso del peggior dato degli anni ‘90 (il 78,7 toccato nel gennaio 1992, durante l’ultima recessione).
Il settore delle alte tecnologie lavora al 61,7% della sua capacità e quello delle costruzioni aeronautiche, la cui crisi è parallela a quella delle grandi compagnie di trasporto aereo, addirittura al 59,2%. L’utilizzo di energia elettrica nell’industria Usa è calato del 10-12% rispetto al 1997.
Cresce la disoccupazione in Usa
Questi dati significano che prima di una seria ripresa degli investimenti ci dovranno essere ulteriori ondate di ristrutturazioni e fallimenti.
I dati della disoccupazione dimostrano come la crisi non tocchi solo l’industria in senso stretto, ma anche l’insieme dell’economia Usa. Il numero di disoccupati in Usa è cresciuto come segue:
Anno media mensile disoccupati (in migliaia)
2000 5.655 (minimo del decennio)
2001 6.742
2002 8.266
La media per il 2002, inoltre, è il risultato di un andamento altalenante nel corso dell’anno, che vede un netto peggioramento fra settembre (8 milioni e 92mila disoccupati) e dicembre (8 milioni e 590mila).
Deflazione e calo dei profitti
L’aspetto più critico riguarda però la questione dei profitti. Ci sono chiari segni, infatti, del fatto che gli Usa siano contagiati da una dinamica di deflazione (calo dei prezzi) che in Giappone e altri paesi asiatici è già fortemente operante da oltre un anno. Il calo dei prezzi non è dovuto a fattori positivi come l’aumento della produttività o della scala della produzione, ma al fatto che le imprese sono costrette a vendere sottocosto pur di smaltire le scorte e mantenere le proprie quote di mercato. Vendita sottocosto significa niente profitti, niente profitti uguale niente investimenti.
Se la deflazione dilagherà negli Usa non solo minerà i profitti aziendali, ma porterà anche ulteriore crisi nel mercato borsistico e potrebbe far scoppiare anche la bolla speculativa legata ai mutui e alle proprietà immobiliari.
Considerato l’insieme di questi fattori, la conclusione che se ne trae è evidente: la ripresa in Usa è ancora lontana e la crisi non ha affatto esaurito il suo corso.
Svalutazioni competitive?
Le difficoltà dell’industria nordamericana stanno portando a una vera e propria crisi di competitività degli Usa, che si esprime nell’enorme deficit commerciale che ormai da anni affligge il capitalismo Usa e che nel periodo gennaio/novembre 2002 ha raggiunto la cifra record di oltre 390 miliardi di dollari (contro 331 miliardi nel corrispondente periodo del 2001 e 358 miliardi nell’intero anno 2001). Negli anni scorsi tale deficit era stato uno dei fattori di traino dell’economia mondiale, poiché tutti gli altri paesi esportavano negli Usa, e la domanda interna americana permetteva all’Asia e all’Europa di mantenere la loro crescita. Il buco commerciale era poi coperto dal massiccio afflusso di capitali in Usa, che sono ormai il paese col maggior debito estero al mondo. Ma tale meccanismo, come più volte avevamo già scritto, era prima o poi destinato ad incepparsi. Oggi questo squilibrio si manifesta nel calo del dollaro, che ha perso nei confronti dell’euro circa il 20% rispetto ai massimi del 2002.
Il calo del dollaro significa ulteriori problemi sui mercati mondiali, crea difficoltà alle imprese europee senza peraltro che queste possano svolgere un ruolo di traino nei confronti degli Usa.
Le economie dell’Unione europea sono infatti a loro volta in forti difficoltà, con una sostanziale stagnazione del Pil (+0,3% nel terzo trimestre del 2002), una crescita della disoccupazione (11,7 milioni nell’intera area dell’euro) e soprattutto un continuo calo degli investimenti.
Negli stessi Usa, un calo prolungato del dollaro porterebbe ad enormi problemi, poiché le imprese e lo Stato americani sono enormemente indebitati e Bush vuole aumentare ulteriormente questo debito con la crescita delle spese militari e il taglio delle tasse. L’unica risposta possibile sarebbe quella di aumentare i tassi d’interesse per attirare i capitali in fuga, ma questo significherebbe soffocare ulteriormente gli investimenti e i consumi. Si accumulano quindi contraddizioni su contraddizioni, che dovranno necessariamente generare enormi sconvolgimenti nell’economia e nella società americane, con conseguenze di portata mondiale.
Con queste premesse, è facile prevedere un ulteriore aumento delle tendenze protezionistiche, già fortemente cresciute negli ultimi due anni, con effetti che potrebbero essere drammatici sull’intero equilibrio dell’economia mondiale.
Siamo di fatto già entrati in una fase di scontro acuto sui mercati mondiali e per l’egemonia all’interno del mondo capitalista. La crisi dell’egemonia americana si farà sentire sempre di più, e la reazione della borghesia americana alle insidie che si moltiplicano verso il suo dominio sarà furiosa. Di queste tensioni è chiara espressione lo scontro diplomatico, senza precedenti da molti decenni, fra Usa, Francia, Germania e Russia rispetto alla crisi irachena.
Infine, va considerato l’effetto non solo politico, ma anche economico della ripresa delle mobilitazioni sociali e della lotta di classe su scala mondiale. La ripresa del movimento sindacale in numerosi paesi europei, la rivolta crescente nei paesi dell’America Latina, la crescente difficoltà ad irreggimentare e disciplinare le masse lavoratrici, sia nei paesi imperialisti che fra i popoli oppressi, costituisce un vero e proprio macigno che impedirà di ristabilire l’equilibrio capitalista, ormai irrimediabilmente compromesso.
Verso nuove esplosioni sociali
Indubbiamente tutte le grandi potenze capitaliste cercheranno di “risolvere” le proprie contraddizioni a spese dei propri concorrenti. Ma avviarsi su questa strada, cioè tentare di imitare la politica aggressiva e militarista dell’amministrazione Bush, significherà innanzitutto aprire uno scontro sociale all’interno, con la classe lavoratrice dei propri paesi. Questo sarà vero in primo luogo per i paesi europei come Francia e Germania. La crisi con l’Iraq ha mostrato inequivocabilmente l’impossibilità di conciliare gli interessi contrastanti dei diversi paesi dell’Ue in presenza di un serio scontro con gli Usa. I tentativi di armarsi ulteriormente da parte di Francia e Germania, i tentativi di rendersi più competitivi nei confronti di Europa e Usa sul terreno economico e delle sfere d’influenza internazionali porteranno a un inasprimento delle politiche di flessibilità, attacco ai diritti sindacali e allo stato sociale. La crisi “esterna” dei paesi europei si trasformerà rapidamente in crisi “interna”, ossia in una nuova esplosione del conflitto di classe, e non servirà tutta la disgustosa retorica europeista e pacifista dei vari Schroeder e Chirac a incantare il movimento operaio, come dimostra la dura sconfitta elettorale della socialdemocrazia tedesca nelle elezioni regionali di poche settimane fa.
In conclusione: la crisi ciclica del capitalismo apre una nuova fase nella quale a prescindere dal fatto che prima o poi una ripresa si manifesterà, l’equilibrio del capitalismo sarà sempre più compromesso. La classe dominante ha la sua risposta: ristabilire l’equilibrio a spese dei lavoratori e dei popoli oppressi, una risposta fatta di guerre e di politiche sempre più chiaramente antioperaie e antisociali. Sta a noi comunisti far sì che invece di una nuova epoca di barbarie imperialista si apra una nuova epoca di mobilitazioni di classe: l’epoca del rovesciamento rivoluzionario del capitalismo.