Ripresa in Usa, stagnazione in Europa… e l’Italia va a picco
La ripresa economica in Usa ha cominciato a manifestarsi realmente nella seconda metà del 2003 e nei primi mesi di quest’anno. Nonostante le statistiche parlino infatti di 27 mesi di crescita economica, essa è stata così anemica che i suoi effetti non si sono fatti sentire per lungo tempo. Ora si vede un calo della disoccupazione e una certa ripresa della produzione e degli investimenti.
Tale ripresa non ci deve sorprendere. Abbiamo sempre spiegato, infatti, come l’economia capitalista si sviluppa necessariamente attraverso l’alternarsi di crescita e recessione, e lo avevamo ricordato anche negli articoli che analizzavano la crisi del 2001.
Il Pil Usa è cresciuto come segue:
2000: +3,7%
2001: +0,5%
2002: +2,2%
2003: +3,1%
Il dettaglio del 2003 mostra come la crescita si concentri nella seconda parte dell’anno:
I trimestre: 2,0
II trimestre: 3,1
III trimestre: 8,2
IV trimestre: 4,0
C’è anche un calo della disoccupazione. Nel 2000, all’apice della scorsa ripresa economica, la disoccupazione era scesa a 5 milioni 692mila. È risalita in questa crisi sino agli 8milioni e 774mila disoccupati del 2003 (il picco è stato nel giugno dello scorso anno, con oltre 9milioni e 200mila disoccupati), scende ora a 8milioni e 170mila.
Tuttavia dire che c’è una crescita in Usa è dire ancora molto poco. È necessario capire le basi di questa crescita economica, la sua reale portata e soprattutto il contesto nella quale essa si situa.
La ripresa ciclica
Il ciclo economico non spiega tutto, anzi. L’attuale ripresa Usa, come tenteremo di dimostrare, si inserisce in un contesto di generale deterioramento delle condizioni del capitalismo tanto in Usa come su scala internazionale; le contraddizioni che da tempo si vanno accumulando nell’economia americana non solo non sono state risolte dalla crisi del 2001-2002 ma, al contrario, si sono ulteriormente aggravate. Infine, l’equilibrio economico e politico mondiale è più che mai instabile, e questo è un fattore decisivo per comprendere le prospettive, sia sul terreno economico che su quello politico più generale.
Indubbiamente in alcuni settori dell’economia Usa la ripresa ha il classico carattere ciclico; questo vuole dire che durante la crisi, attraverso i fallimenti e le ristrutturazioni, è stata distrutta una parte del capitale produttivo eccedente, e che quelle imprese che sono rimaste in piedi ricominciano a fare profitti e, di conseguenza, investimenti.
L’utilizzo della capacità produttiva nell’industria è leggermente risalito e ora si aggira attorno al 76,6% (il punto minimo era stato il 74% raggiunto nel giugno 2003). Alcuni settori sono a percentuali decisamente più alte, oltre l’80%: materie prime, prodotti energetici, gomma-plastica e produzione motoristica. Tuttavia nell’insieme il livello è ancora basso e non richiede grandi investimenti. Se paragoniamo i dati del 2003 con quelli del 2002, scopriamo la seguente evoluzione:
(I dati sono in dollari correnti, ossia non depurati dall’inflazione)
Pil: + 4,8%
Esportazioni: + 4,18%
Importazioni: + 7,72%
Disavanzo del commercio estero: + 6,09%
Salari: + 2,97%
Profitti lordi: +18,33%
Investimenti: + 5,12%
Se lette correttamente, queste cifre parlano di un fallimento totale della politica economica di Bush. Alla fine del 2001, infatti, l’amministrazione americana ha deciso di lasciar cadere il dollaro per sostenere le esportazioni americane e proteggere l’industria nazionale. Dal febbraio del 2002 il dollaro ha perso in media sui mercati internazionali il 12,7% del suo valore, e il 31% rispetto all’euro. Come vedremo, il dollaro debole ha letteralmente silurato l’industria europea.
Ma gli effetti sugli Usa sono diversi da quelli sperati. L’integrazione degli Usa nel mercato mondiale non è qualcosa ci si possa liberare facilmente. Il protezionismo è una politica insensata anche per la prima economia del mondo, soprattutto dopo che per due decenni l’industria Usa ha sistematicamente spostato le proprie produzioni fuori dal paese.
Quello che sta avvenendo è che la crescita Usa affonda l’Europa, ma beneficia grandemente le economie asiatiche, quella cinese in primo luogo, ma anche quella giapponese, coreana, ecc.
In altre parole: i consumatori Usa comprano i prodotti asiatici, e per giunta li comprano spesso a un prezzo più caro, considerato il calo del dollaro (circa –20% sullo Yen).
Debiti pubblici e privati
Ma se i salari americani sono al palo e gli investimenti sono modesti, la crescita da dove salta fuori? La risposta è presto detta: da una montagna di debiti pubblici e privati, dall’aumento senza precedenti della spesa militare, del debito pubblico, dei debiti delle famiglie e dalle riduzioni delle tasse volute da Bush. In altre parole, l’America cresce (per quanto tempo è un’altra storia) con soldi presi a prestito; prestiti, per giunta, che non vanno a sostenere investimenti produttivi, allargamento della base industriale, delle infrastrutture, ecc. ma unicamente spese di consumi e spese militari. Insomma, è come una famiglia che si indebita non per comprare una casa, o per avviare un’attività, ma per pagarsi le ferie o il cinema. Gli esiti sono prevedibili.
Il risparmio delle famiglie Usa scende dal 2,1% del reddito all’1,7. Il bilancio federale Usa, che nel 2000 aveva un attivo di 236 miliardi di dollari (pari al 2,4% del Pil) ha nel 2003 un passivo di 375 miliardi (pari al 3,5% del Pil), ma l’applicazione delle ultime proposte di Bush potrebbe portare a un deficit di 521 miliardi di dollari (4,5% del Pil).
La spesa militare nel 2002 era pari a 438,3 miliardi di dollari. Nel 2003 cresce come segue:
(Miliardi di dollari, proiettati su base annua)
I trimestre: 463,3
II trimestre: 507,3
III trimestre: 507,2
IV trimestre: 511,5
Si tratta del più grande bilancio militare mai visto, e i recenti avvenimenti in Iraq non faranno che gonfiarlo ulteriormente.
Le famiglie americane si indebitano ulteriormente, grazie al calo dei tassi d’interesse. In media ogni famiglia è indebitata, fra mutui e credito al consumo, per il 107% del proprio reddito annuale, e deve destinare al pagamento oltre il 13% del proprio reddito. Secondo la Banca d’Italia, “questi livelli di servizio del debito rappresentano un massimo storico”.
Il totale del credito per il consumo delle famiglie Usa ha raggiunto nel 2003 la cifra record di 2001,8 miliardi di dollari. Il calo della Borsa e la crisi del 2001 avevano rallentato la crescita dell’indebitamento delle famiglie (+8,1% nel 2001, +4,4% nel 2002), che però ora torna ad accelerare: +5,2% nel 2003.
Sono queste cifre che spiegano il temporaneo boom dei consumi in Usa. Il terzo trimestre del 2003 ha visto una fiammata di acquisti, in particolare di beni durevoli (+28%) tra cui si segnalano gli acquisti di autoveicoli (+39,7%). C’è stato anche un corrispondente aumento degli investimenti, che però già nel trimestre successivo è stato molto più contenuto. È appunto una fiammata sostenuta da una serie di fattori speculativi che non è affatto detto che continueranno a farsi sentire nei prossimi mesi.
La piramide dei debiti dell’economia americana si regge soprattutto grazie ai massicci afflussi di capitale, in particolare dall’Asia. I paesi asiatici continuano a comprare dollari e titoli denominati in dollari. L’Asia detiene 1900 miliardi di riserve in dollari, di cui 660 miliardi in Giappone e 420 in Cina. C’è qui un rapporto di mutua dipendenza, per cui i paesi asiatici esportano in Usa, ma devono far convergere negli stessi Usa una parte importante dei loro profitti per sostenere la domanda in quel paese; a questo si aggiungono i profitti che rientrano dalle multinazionali Usa, che hanno massicciamente delocalizzato i loro impianti. È questo gigantesco flusso di capitali che tiene in piedi tutto l’edificio, e che spiega la parziale ripresa di Wall Street. Ma è del tutto evidente che l’intero meccanismo è instabile da cima a fondo. Da circa quindici anni gli Usa si indebitano con l’estero. All’inizio degli anni ’90 la massa degli investimenti degli Usa all’estero e quelli esteri in Usa grosso modo si equivalevano. Ora c’è una situazione debitoria netta pari a circa il 25% del Pil, e cresce senza sosta.
Non può sfuggire come in questa costruzione siano essenziali i fattori politici. La ripresa Usa ha cominciato a materializzarsi dopo la metà del 2003, quando pareva che la “vittoria” di Bush in Iraq avesse nuovamente ristabilito un certo equilibrio su scala mondiale. Lo stesso Bollettino economico della Banca d’Italia da cui attingiamo parte di questi dati, pubblicato solo poche settimane fa (marzo 2004), esordiva con una valutazione singolarmente miope: “La ripresa dell’economia mondiale (…) si è consolidata nell’ultimo trimestre dell’anno, favorita dall’allentarsi delle tensioni politiche internazionali”. Evidentemente la ristrettezza di vedute (leggi: la completa idiozia) di George Bush si trasmette anche alle più sobrie istituzioni finanziarie…
Più in generale, è necessario tenere presente come la profonda crisi dell’egemonia mondiale americana non potrà non avere effetti diretti anche in campo economico. Le contraddizioni del mondo intero, sia politiche che economiche, scaricano oggi i loro effetti sull’imperialismo americano, proprio per la dimensione mondiale che esso ha assunto. È questo dato di fondo che dobbiamo tenere presente nel valutare la reale portata della ripresa economica oggi in atto: essa non potrà risolvere alcuno dei problemi di fondo che abbiamo indicato: deficit pubblico crescente, spesa militare fuori controllo, debito estero, disavanzo commerciale, indebitamento massiccio, instabilità di fondo dei mercati finanziari mondiali; al contrario, su ciascuno di questi nervi scoperti potrebbero scaricarsi tensioni insopportabili che soffocherebbero rapidamente i ridotti effetti positivi della ripresa ciclica.
La stagnazione europea
Il calo prolungato del dollaro ha significato un disastro per le economie europee. Le cifre della tabella 1 mostrano la stagnazione europea.
Tabella 1 | |||
La stagnazione europea | |||
Prodotto interno lordo: | 2001 | 2002 | 2003 |
Area Euro | 1,6 | 0,9 | 0,4 |
Germania | 0,8 | 0,2 | -0,1 |
Italia | 1,8 | 0,4 | 0,3 |
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Esportazioni: | 2001 | 2002 | 2003 |
Area Euro | 3,4 | 1,5 | 0 |
Germania | 5,6 | 3,4 | 1,2 |
Italia | 1,6 | -3,4 | -3,6 |
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Investimenti fissi lordi: | 2001 | 2002 | 2003 |
Area Euro | -0,3 | -5,8 | -1,2 |
Germania | -4,2 | -6,7 | -2,9 |
Italia | 1,9 | 1,2 | -2,1 |
Tutte le voci del commercio estero dell’Unione europea mostrano un peggioramento più o meno marcato, la Banca d’Italia parla di un “deterioramento generale della competitività esterna” dell’Unione. Queste cifre spiegano perché sia saltato il patto di stabilità e quando Francia e Germania hanno sforato il “tetto” del 3% di deficit pubblico non siano state sanzionate.
La crescita dell’euro è stata una conseguenza delle scelte di Bush, alle quali si è sommata una componente speculativa. In realtà l’euro rimane una valuta minata da una contraddizione di fondo, e cioè dal fatto di reggersi su un insieme di Stati i cui interessi non sono convergenti. D’altra parte se l’euro forte ha significato un disastro per l’industria europea (e in particolare quella italiana, come vedremo in seguito), un euro debole creerebbe altre contraddizioni altrettanto pericolose: costringerebbe la Banca Centrale Europea (Bce) ad alzare i tassi d’interesse, causerebbe un innalzamento della bolletta energetica (già oggi il prezzo del petrolio è a livelli altissimi, ma in parte questo viene attenuato proprio grazie all’euro forte) e aprirebbe un forte conflitto interno alla stessa Unione, poiché i paesi “virtuosi” dovrebbero accettare un forte aggravio del loro bilancio per puntellare il debito pubblico di paesi come l’Italia, che sarebbe messo a rischio da una forte svalutazione della moneta europea.
L’unico possibile sbocco delle difficoltà esterne delle economie europee è un nuovo attacco ai diritti dei lavoratori e ai salari in tutto il continente. Significativo a questo proposito un accordo sindacale firmato di recente in una fabbrica tedesca controllata dalla Siemens, accordo che prevede il ritorno della settimana lavorativa di 40 ore (invece di 35) senza alcuna variazione salariale e la rinuncia alla tredicesima e alla quattordicesima: una decurtazione salariale di circa il 30%, in cambio della quale la multinazionale rinuncia a spostare la produzione in Ungheria (Corriere della Sera, 3 aprile 2004). Lavorare di più, per più anni, per una paga minore, con meno diritti: questa è l’unica promessa che il più forte capitalismo europeo, quello tedesco, può fare ai propri lavoratori. È facile capire cosa si prepara per le economie più deboli.
L’Italia a picco
L’economia italiana in questo contesto di stagnazione europea si trova una volta di più nella parte di anello debole. La quota dell’Italia nel mercato mondiale si riduce dal 4,5% del 1995 al 3% del 2003. L’euro forte mette in crisi le esportazioni italiane, che in passato si giovavano delle periodiche svalutazioni della lira. Nei primi undici mesi del 2003, l’export italiano è calato praticamente in ogni settore, riducendo di quasi la metà l’attivo commerciale italiano: +14,6 miliardi di euro nel 2002, +8,4 miliardi nel 2003.
Le merci italiane perdono mercato sia nell’Unione europea che fuori, come mostra la tabella 2.
Tabella 2 Esportazioni italiane | ||
(variazioni gen-nov 2003 sul 2002) | ||
Paese | valori | quantità |
• Paesi Ue | -3,8 | -5,7 |
in particolare: | ||
• Francia | -3,6 | -6,6 |
• Germania | -3,9 | -6,1 |
• Paesi extra Ue | -3,1 | -3,6 |
in particolare: | ||
• Cina | -5,4 | -3,6 |
• Usa | -13,9 | -9,4 |
Emerge in sostanza come l’industria italiana perda terreno verso i paesi dove la crescita è più forte (Asia, Usa) e senza per questo avvantaggiarsi in modo particolare del mercato europeo. Da segnalare inoltre il calo dei margini nell’export verso gli Usa: il calo in valori è maggiore del calo in volume, poiché i dollari che si incassano valgono meno e/o perché per tentare di mantenere quote di mercato le imprese devono tagliare i prezzi. In entrambi i casi, i profitti ne risentono.
Da segnalare che nello stesso periodo l’import dalla Cina aumenta del 15,4% in valori e del 29% in quantità.
Se si guarda indietro agli ultimi due decenni, si vede chiaramente come l’industria italiana stia sistematicamente sparendo dai settori decisivi: cancellate l’informatica e la chimica, in crisi profonda l’automobile e la siderurgia, la cantieristica, i tradizionali settori dell’industria leggera (tessile, calzature, ecc.) massacrati dalla crisi internazionale e dalla concorrenza asiatica e dell’Europa orientale, ricerca ridotta al lumicino… L’entrata nell’Euro significa oggi per l’industria italiana qualcosa di simile a quello che significò per il Mezzogiorno del paese l’unità nazionale: non lo sviluppo e il benessere, ma la colonizzazione economica e la distruzione, generale o parziale, della propria capacità produttiva.
Come è noto i calcoli sul calo reale di salari, stipendi e pensioni sono quantomai controversi. Il reale livello dell’inflazione viene sistematicamente sminuito e nascosto dal governo e da gran parte degli osservatori. Riportiamo comunque alcune cifre della Banca d’Italia che indicano chiaramente cosa è accaduto con l’introduzione dell’Euro in Italia.
Secondo questa indagine, tra il 2000 e il 2002 il reddito medio annuo delle famiglie, al netto di imposte e contributi, sarebbe cresciuto dell’1,1%. Ma la media nasconderebbe una crescita del 4,4% per i lavoratori autonomi e una stagnazione dei redditi da lavoro dipendente, all’interno del quale operai e impiegati perdono circa l’1,8%, che diventa un –4,4% per le fasce più povere. I pensionati perdono circa l’1%. Per quanto chiaramente edulcorati, questi dati dicono chiaramente la tendenza: i ricchi più ricchi, i poveri più poveri.
Non a caso cresce senza sosta l’indebitamento delle famiglie italiane, che raggiunge il 25% del Pil, un dato basso rispetto alla media europea (52%) ma che per l’Italia rappresenta un massimo. E non a caso numerose inchieste indicano che le famiglie devono ormai indebitarsi non solo per comprare la casa o l’automobile, ma anche per sostenere spese (sanitarie, di studio, ecc.) che in passato venivano coperte col normale bilancio familiare.
Calo dell’export, calo degli investimenti (in particolare in beni strumentali), impoverimento delle famiglie: su queste basi è inevitabile che la crisi si avviti su se stessa. E all’orizzonte si profila un nuovo problema. In dieci anni di privatizzazioni, tagli, e anche grazie al calo dei tassi d’interesse, il debito pubblico è stato mantenuto sotto controllo. Ma ora la situazione può sfuggire di mano. La scarsa crescita riduce le entrate fiscali, le condizioni per altre massicce privatizzazioni non sono presenti, al contrario lo Stato dovrà in qualche modo farsi carico delle varie crisi aziendali, a partire da quella Parmalat. I condoni fiscali ed edilizio, che erano comunque una misura cosmetica e una tantum (oltre che una colossale porcheria) hanno reso un decimo di quanto il governo si aspettava. Con queste premesse è probabile che il debito pubblico, che rimane attorno al 106% del Pil, ricominci a crescere nel prossimo periodo, creando grosse complicazioni sia economiche che politiche.
Una nuova concertazione?
È in questo contesto economico che i dirigenti sindacali (compresi quelli della Cgil) pensano di poter giungere a un nuovo patto sociale, a una nuova concertazione con la Confindustria di Montezemolo, magari sotto gli auspici di un governo di centrosinistra. È del tutto evidente che un simile patto sarebbe una ripetizione di gran lunga peggiorata dei disastrosi accordi di luglio 1992 e 1993.
Quali che siano le intenzioni e le illusioni delle burocrazie sindacali, le cifre dimostrano come i margini del capitalismo italiano siano stati completamente erosi negli ultimi anni. Tagli, tagli e ancora tagli: questa è l’unica base sulla quale il padronato sarà disposto a trattare. Ma oggi il tentativo di ingabbiare nuovamente i lavoratori per fargli pagare il peso della crisi cadrebbe in una situazione molto diversa da quella dei primi anni ’90. La classe operaia italiana, così come quella di molti paesi europei, è in fase di risveglio. Tante illusioni si sono bruciate, la pazienza che per un decennio e più i lavoratori italiani hanno dimostrato verso i propri dirigenti è stata già messa a dura prova.
Le lotte degli ultimi due anni, dalla Fiat, agli autoferrotranvieri, alla siderurgia, dimostrano quello che si sta preparando: non una nuova stagione di concertazione e di pace sociale, ma una nuova epoca di aspre lotte nel corso delle quali si apriranno enormi possibilità per fare emergere nel movimento operaio in Italia e su scala internazionale le idee e le posizioni del marxismo e la necessità di un’alternativa alla crisi di un sistema economico ormai marcio.
Fonti: Banca d’Italia, Federal Reserve, US Department of Labor, Bureau ef Economic Analisys