“Non paghiamo il vostro debito, come in Islanda”, “Facciamo come l’Islanda”. Erano questi alcuni degli slogan più gettonati quando nel 2009 una massiccia protesta popolare aveva fatto cadere il governo conservatore e, nelle successive elezioni, portato al governo una coalizione di sinistra.
Dalla crisi – e quella che aveva colpito la piccola isola era stata veramente pesante, portando al fallimento tutte le banche principali – si può uscire senza piegarsi ai dettami del Fondo monetario internazionale, ci spiegavano. In un referendum gli islandesi avevano addirittura rifiutato il rimborso di circa 4 miliardi di euro chiesto dalla Gran Bretagna e dalla Olanda per risarcire i propri investitori.
Il problema è che l’opposizione alle richieste delle istituzioni internazionali non era in nome di un sistema economico alternativo ma tutta interna al capitalismo.
Il governo socialdemocratico ha sì nazionalizzato le banche fallite, ma per ricapitalizzarle. Allo stesso tempo il valore della corona islandese si è dimezzato rispetto alle altre valute, portando a un raddoppio della rata dei mutui legati a valute straniere stipulati prima del 2008. Anche l’inflazione ha raggiunto livelli inconsueti per l’isola, oltre il 10% all’anno tra il 2009 e il 2011, per “stabilizzarsi” al 5% nel 2012.
Questa vicenda politica è un monito per chi crede che il problema della crisi attuale sia l’euro e basti ristabilire la sovranità monetaria di un paese per sfuggire all’austerità e alle speculazioni finanziarie.
La coalizione composta dal Partito socialdemocratico e da Sinistra-Movimento verde ha attaccato lo stato sociale, tagliando i servizi sanitari e l’istruzione, ed ha aumentato le tasse. Nelle parole di Steingrimur Sigfusson, ex ministro delle Finanze e leader di Sinistra-Movimento verde: “Sono stato ministro delle finanze durante tre anni terribili dove non ho mai smesso di tagliare la spesa e aumentare le tasse. Era chiaro che queste misure non sarebbero state popolari, ma credevo che la gente ci avrebbe capito”. (The Independent, 29 aprile). Lo stesso articolo riportava un commento di un elettore della sinistra deluso “Ok, c’è stato un grosso incidente stradale, ma poi il governo è arrivato ed ha ammazzato anche il sopravvissuto.”
Mentre fiumi di parole venivano sprecati sulla stampa e sui siti di sinistra nel resto d’Europa sulla nuova Costituzione stilata “on-line”, i lavoratori islandesi e le loro famiglie dovevano fare i conti con l’austerità dettata dalle leggi del capitalismo.
Le elezioni del 27 aprile hanno espresso lo scontento nei confronti delle politiche del governo. L’affluenza (81,4%) è stata la più bassa dall’indipendenza, avvenuta nel 1944. I socialdemocratici sono passati dal 29 al 13%, mentre Sinistra-Movimento Verde è crollato dal 21 al 10%.
L’alleanza conservatrice tra il Partito dell’indipendenza – che ha governato l’Islanda per la maggior parte della sua storia – e il Partito progressista guadagna così la maggioranza assoluta, sulla promessa di una diminuzione delle tasse. Dopo solo quattro anni ritornano a governare i responsabili del crack finanziario.
Memoria corta da parte degli islandesi? Tutt’altro. Questo voto è la conseguenza di una politica riformista, portata avanti dalla socialdemocrazia e dai suoi alleati, che nell’epoca del capitalismo si ritrova senza riforme da offrire. Ed è punita, giustamente, nelle urne. Sta a chi lotta per un’alternativa rivoluzionaria fare tesoro di queste lezioni.