Un ruolo importante nell’espansione del mercato mondiale negli ultimi vent’anni lo hanno giocato i paesi cosiddetti emergenti e principalmente i Brics, vale a dire Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.
Per avere un’idea più appropriata del fenomeno occorre precisare quali sono i criteri ai quali si fa normalmente riferimento nel definire i paesi emergenti o in via di sviluppo e chi li stabilisce.
Sono tali quelli definiti dalla Banca mondiale, dalla International finance corporation, dalle Nazioni Unite, dalle autorità dei paesi, quei paesi con una capitalizzazione del mercato azionario inferiore al 3% del Msci world index (un indice elaborato da Morgan Stanley che comprende le borse di oltre 1.600 paesi). Essi geograficamente sono situati in Asia, escluso il Giappone, nell’Europa orientale, nell’America centrale e meridionale, in Medio Oriente ed in Africa.
In questa vastità ed eterogeneità di paesi si possono distinguere quelli di prima fascia alla quale appartengono i Brics, che maggiormente hanno avuto un peso nella crescita economica mondiale, e quelli di “frontiera” nei quali principalmente si annoverano diversi paesi dell’Africa, del Medio Oriente e dell’America Latina, che sono dal punto di vista dello sviluppo economico grosso modo nella situazione in cui erano i Brics circa 20-25 anni fa.
Un fiume di liquidità
La crisi del 2008 ha prodotto effetti devastanti sulla crescita economica, l’intero sistema finanziario è stato a rischio di default. Solo l’interventismo delle maggiori banche centrali del mondo ha evitato il collasso generalizzato della finanza e quindi della produzione, senza peraltro evitare la più profonda recessione globale almeno dal dopoguerra ad oggi. Le politiche di quantitative easing, ossia la creazione massiccia di liquidità e di bassi tassi di interesse, hanno permesso di tamponare gli effetti più devastanti ed epocali. Dalle banche centrali sono stati immessi nel mercato oltre 22mila miliardi di dollari di liquidità, i tassi di riferimento fissati dalle autorità monetarie dei paesi sviluppati sono ai minimi storici. Tuttavia queste manovre, come ben sanno le classi dirigenti del capitalismo mondiale, non rappresentano una via d’uscita risolutiva dalla crisi economica.
Il fiume di liquidità proveniente dalle banche centrali ha preso in parte la strada di investimenti verso i paesi emergenti, nella classica logica di breve termine: prendere a prestito laddove il denaro costa poco e investirlo dove gli interessi sono più alti. Questo sta gonfiando diverse bolle speculative e accentua l’instabilità dell’economia mondiale.
È stato sufficiente infatti che a fine maggio 2013 il governatore della Federal reserve Ben Bernanke annunciasse l’intenzione di iniziare gradualmente il ridimensionamento del quantitative easing per provocare lo sconquasso nei mercati finanziari con la chiusura di buona parte delle “posizioni attive” soprattutto nei paesi emergenti, Brics compresi. Come mai?
Appare evidente come gli stessi capitalisti non credono in una ripresa economica stabile e duratura nonostante gli annunci ed i dati statistici sull’uscita dalla recessione del 2008-2009. Allo stesso modo, gli investitori “vedono” lo sviluppo degli emergenti non solo in fase di decelerazione della crescita, che ci potrebbe anche stare, ma come uno sviluppo troppo squilibrato e quindi ostaggio della “volatilità” degli stessi mercati finanziari.
Gli squilibri della Cina
La Cina è forse l’esempio più pregnante di questa situazione proprio per il ruolo di primo piano che ha assunto nello sviluppo del mercato mondiale.
Questo immenso paese continua a crescere a tassi sostenuti, anche se inferiori ai livelli pre-crisi, quando l’incremento del Pil aveva raggiunto la ragguardevole cifra dell’11%. Nel 2013, stando alle statistiche ufficiali, il Pil è cresciuto del 7,7%, superando l’obbiettivo governativo del 7,5%. Tuttavia questa crescita continua a trascinare con sé tutti gli squilibri che si erano accumulati già nella fase di crescita sostenuta. Alcuni analisti hanno definito lo sviluppo cinese come afflitto da un doppio eccesso. Eccesso di investimenti, che a inizio 2013 rappresentavano il 46% del Pil; una percentuale molto elevata per il sistema capitalista, se si considera che il Giappone nella sua fase di espansione degli anni ’70 e ’80 aveva raggiunto la percentuale del 36% circa (prima di conoscere la lunga fase di stagnazione economica degli anni ’90 ed di inizio nuovo millennio). Eccesso di produzione non interamente assorbita dalle esportazioni e dalla capacità di consumo interna.
Prima della crisi del 2008 il rapporto di indebitamento complessivo (debito pubblico più debito privato) in rapporto al Pil era molto basso, ma negli ultimi cinque anni la somma totale di nuovo credito annuo creato ha raggiunto la ragguardevole cifra di 2.500 miliardi di dollari portando l’indebitamento complessivo al 180% del Pil.
Il settore immobiliare è quello che più soffre dell’effetto bolla speculativa. Negli ultimi tre anni sono state sfornate nuove costruzioni per un valore annuo di 700 miliardi di dollari, circa il doppio dell’incremento del settore immobiliare americano alla vigilia dello scoppio della bolla immobiliare e non coerente con la necessità di nuove abitazioni e di ammodernamento di quelle esistenti. Ciò avviene in un paese dove i prezzi di mercato degli immobili hanno raggiunto le stesse valutazioni del mercato americano pre-crisi, ma dove il Pil pro-capite è di 6mila dollari, vale a dire nove volte inferiore a quello degli Usa. Questo fattore ha spinto le autorità governative dal 2010 in avanti ad imporre forti restrizioni agli acquisti in sessanta fra le maggiori città del paese.
La Cina continua ad investire a ritmi molto sostenuti, si è raggiunta la cifra di 4mila miliardi annui, il doppio di quella statunitense per una economia che, pur crescendo molto, a marzo 2013 era la metà di quella degli Usa.
La politica delle autorità cinesi dopo lo scoppio della crisi del 2008 è stata orientata ad accrescere la domanda interna con l’uso di stimoli fiscali e monetari che hanno prodotto sì un aumento della domanda aggregata, ma anche pressioni inflazionistiche ed una espansione del credito anche al di fuori dei circuiti bancari ufficiali. Basti pensare al fenomeno del mercato ombra del credito del quale si avvalgono le autorità regionali per finanziare e rifinanziare gli investimenti infrastrutturali anche ben al di sopra delle effettive necessità, creando quindi situazioni occupazionali non sostenibili nel lungo periodo e fenomeni di corruzione.
Si è determinata una situazione nella quale i nuovi investimenti prendono un indirizzo a carattere sempre più speculativo, che è classico nel precedere lo scoppio di una bolla.
I dati di fine 2013 ci dicono comunque che la Cina ha accumulato un surplus della bilancia commerciale di 260 miliardi di dollari rimanendo quindi una economia fortemente dipendente dall’import-export. Inoltre a gennaio 2014 c’è stato un brusco calo dell’attività manifatturiera; l’indice Pmi è sceso sotto il livello di 50 che convenzionalmente segna il discrimine tra attività manifatturiera: in crescita e in diminuzione.
La politica monetaria e fiscale di Pechino non ha sanato né attenuato i fattori di squilibrio insiti nella vorticosa crescita economica del paese spingendo ulteriormente, nella logica del sistema, le autorità governative sul sentiero di nuove privatizzazioni con la creazione anche di grandi banche private e con la creazione di dodici nuove aree di libero scambio all’interno della nazione.
Nella situazione della Cina si aggrovigliano contraddizioni gigantesche che possono anche preludere ad un “hard landing” (atterraggio duro) nel processo di decelerazione in atto.
Per quanto riguarda Brasile, Russia, India e Sudafrica in questa fase stanno evidenziando in proporzioni diverse fra loro: spinte inflazionistiche che hanno indotto le rispettive banche centrali a manovre di aumento dei tassi; deflusso di capitali, soprattutto esteri, sia diretti (eccetto il Brasile), sia indiretti (compreso il Brasile); contrazione in periodi alternati dell’attività manifatturiera, soprattutto il Sudafrica scosso da importanti scioperi nel settore industriale e minerario in particolare.
I Brics non costituiscono quindi un fattore di stabilità e di sviluppo per l’economia mondiale, ma anzi vi hanno introdotto e introdurranno contraddizioni crescenti.