Le analogie tra la crisi attuale e quella che iniziò a Wall Street nel 1929 e durò per tutti gli anni ’30, coinvolgendo il mondo industrializzato dell’epoca, sono un tema ricorrente. La crisi allora si trasformò in vera e propria depressione non tanto per il crollo dei valori in Borsa, ma per la stretta creditizia e la drastica caduta dell’interscambio mondiale, con l’escalation protezionista degli Stati.
Uno scenario che può riproporsi nei prossimi anni su scala infinitamente più grande.
La bolla cinese
In un precedente articolo analizzavamo il processo di “balcanizzazione finanziaria” in corso in Europa (Banche europee nel caos, Falcemartello n. 251), qui tratteremo gli squilibri in un paese decisivo come la Cina, che qualcuno considerava il “prestatore di ultima istanza” che avrebbe salvato il mondo dai fantasmi della crisi finanziaria.
La Cina non solo non ha risolto le storture del suo modello di sviluppo, che nel 2007 il Primo ministro Wen Jiabao definiva “instabile, sbilanciato, scoordinato e insostenibile”, ma in realtà le autorità cinesi per rispondere alla crisi, attraverso massicci stimoli monetari e fiscali, non hanno fatto che rafforzare quel modello amplificandone gli squilibri.
Pechino continua ad investire a ritmi senza precedenti nella storia, ma mentre prima del 2008 i suoi investimenti erano altamente produttivi, oggi i capitali si orientano verso lidi sempre più speculativi.
Altrettanto allarmante è il fatto che la maggior parte dei debiti contratti sfuggono al controllo centrale, essendo finanziati dalla crescita esponenziale del cosiddetto shadow banking cioè da soggetti che elargiscono credito al di fuori dei canali ufficiali.
“Questo settore fiorisce per due ragioni. Innanzitutto, il 97% dei 42 milioni di piccole imprese non ha accesso al credito ufficiale controllato dalle grandi banche di Stato: ricorre perciò a prestiti da privati, spesso underground, da trust, da veicoli finanziari che le banche approntano appositamente e non compaiono nei loro bilanci. Secondo, le autorità locali che sono sempre più indebitate – 2.100 miliardi di dollari nei calcoli di Fitch, il 25% del Pil – ricorrono in larga misura alle banche ombra per rifinanziarsi”(Corriere Economia, 29 aprile 2013)
Negli ultimi cinque anni la creazione annua di credito nel paese si è quadruplicata, mentre il rapporto tra indebitamento totale e Pil è aumentato di ben il 60%, fino ad arrivare al 180% del Pil (240% se si include lo shadow banking).
Non a caso per la prima volta dal 1999 l’agenzia di rating Fitch ha declassato il debito della Cina. Nel 2012 per ogni euro di crescita del Pil si sono accumulati 3 euro di debiti (Nel 2006 il rapporto era 1:1).
Keynesismo in “esaurimento”
Come ha commentato George Soros: “La rapida crescita dello shadow banking ha somiglianze preoccupanti con il mercato dei subprime mortgage che provocò la crisi finanziaria del 2007-2008”. In altre parole una crisi bancaria potrebbe essere all’ordine del giorno nei prossimi anni in Cina.
Come si è già visto in Europa e negli Usa, è tipico che le bolle creditizie si chiudano con bruschi rallentamenti dei prestiti alle imprese e alle famiglie e un conseguente calo del Pil.
Secondo le stime della banca d’affari Morgan Stanley è prevedibile che il tasso di crescita del Pil rallenti in Cina fino al 5-6% per tutto un decennio e questo avrà serie ripercussioni non solo sull’economia mondiale (a partire da quei paesi che forniscono materie prime a Pechino) ma anche sull’equilibrio interno del paese.
Se per l’Europa un tasso di crescita del 5-6% equivarrebbe a un nuovo boom, per la Cina non è sufficiente ad assorbire il notevole incremento demografico e la forte mobilità sociale, che vede decine di milioni di persone che ogni anno si riversano dalle campagne nelle città alla ricerca di un lavoro.
È probabile che in un lasso di tempo breve, se non brevissimo, Pechino esaurisca le risorse che in questi anni hanno permesso al governo di applicare politiche keynesiane di stimolo alla domanda interna. Mentre cinque anni fa la Cina non aveva problemi debitori, ora ne ha e come.
I faraonici investimenti infrastrutturali (sestuplicata in un lustro la spesa in opere pubbliche) e l’iniezione nell’economia di una massa enorme di denaro non hanno risollevato un tasso di crescita che è stato comunque declinante rispetto al passato.
Molto presto i flussi monetari non saranno sufficienti a pagare gli interessi sul debito e centinaia di migliaia di imprese cinesi, se non milioni potrebbero fallire, una prospettiva che preoccupa molto il governo, ma che difficilmente potrà essere evitata.
Resta così dimostrata la tesi di chi aveva ipotizzato che la crisi mondiale avrebbe trascinato la Cina verso il basso e non viceversa.
Ma non è l’unica conclusione che possiamo trarre da questa situazione: se sommiamo all’intervento “espansivo” della Cina quello della Fed, della Bce, della Banca d’Inghilterra e della Banca del Giappone (che recentemente ha messo in circolazione una nuova massa di denaro pari a 720 miliardi di dollari), ci troviamo in uno scenario “iperdrogato” dove il denaro circolante ha perso ogni corrispondenza con l’economia reale, o detto meglio in termini marxisti, con la valorizzazione del capitale attraverso l’estrazione di plusvalore.
Il mondo è seduto su una bomba ad orologeria. Come era prevedibile il sogno capitalista di far denaro dal denaro senza passare dalla produzione si è trasformato in un vero e proprio incubo.
Le nubi del protezionismo
In un rapporto pubblicato nell’estate del 2012, l’Unione europea ha registrato un significativo aumento del protezionismo nel mondo, con l’introduzione di 123 nuove restrizioni, portando il totale delle misure restrittive in vigore a 534.
Il rapporto parla di 31 paesi che hanno eretto barriere protezioniste: Sudafrica, Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Australia, Bielorussia, Brasile, Canada, Cina, Corea del Sud, Egitto, Ecuador, Usa, Hong Kong, India, Indonesia, Giappone, Kazakistan, Malesia, Messico, Nigeria, Pakistan, Paraguay, Filippine, Russia, Svizzera, Taiwan, Tailandia, Turchia, Ucraina e Vietnam.
Da allora è passato meno di un anno e si è assistito ad un’ulteriore impennata di misure protezionistiche.
Il governo argentino, uno dei più attivi in tal senso, ha promulgato lo scorso 23 gennaio un decreto che aumenta i dazi d’importazione per cento nuovi prodotti. Il provvedimento, vigente fino al 31 dicembre 2014, formalizza gli esiti dell’accordo raggiunto a fine 2011 con il resto dei paesi soci del Mercosur (Brasile, Uruguay e Paraguay). La lista di prodotti che pagheranno un 35% di dazio include 43 voci di beni di consumo.
Nonostante la Cina critichi queste forme di protezionismo, essa stessa ha preso delle misure, persino estreme, decidendo di adottare i prodotti locali per uso interno e diminuendo drasticamente le importazioni. Pechino ha proibito a tutte le agenzie governative locali, provinciali e nazionali di comprare prodotti importati, eccezion fatta per quelli che non hanno un sostituto in patria. Ha posto inoltre un limite sulla quantità di materie prime chiave che possono lasciare il paese.
Tra le conseguenze di questo c’è il calo dell’export cinese verso gli Usa diminuito del 12,1% nei primi quattro mesi dell’anno rispetto all’anno precedente, mentre gli export americani verso la Cina sono diminuiti del 17,2%.
Ron Kirk, il rappresentante degli Stati Uniti presso il Wto, ha accusato la Cina di dare un vantaggio ingiusto alle manifatture cinesi. La Cina nega di aver rotto alcuna regola del Wto, ma gli Stati Uniti hanno rincarato la dose dichiarando che “non solo stanno continuando ma anche accelerando gli approcci protezionisti che hanno preso nel passato per promuovere lo sviluppo economico”.
Anche nel caso degli Stati Uniti si critica il protezionismo altrui e non il proprio. Secondo il direttore dell’Amf, l’autorità di vigilanza sulla finanza francese, Jean-Pierre Jouyet, la metà delle transazioni finanziarie mondiali avviene su mercati non regolamentati, mercati ombra che sono in mano a cinque o sei banche d’affari americane. Un risultato recente di questa situazione è stato il ritiro dei fondi monetari americani, che “hanno ridotto in un solo mese il loro acquisto di titoli europei del 40%”.
Tutto questo, dice il direttore dell’Amf, “assomiglia molto a quanto avvenuto negli anni ’30: allora c’era il protezionismo commerciale che portò alla recessione, oggi c’è il protezionismo finanziario che può a sua volta condurci alla recessione”.
Secondo quanto riportato in un articolo di Morya Longo sul Sole 24 ore, è tornata l’era del protezionismo, “non sul commercio di beni e servizi, ma sulla liquidità. Banche, società private e anche istituzioni sono in tutto il mondo concentrate su un obiettivo preciso: tenere in patria e in bilancio più denaro liquido possibile. Tenersi pronti per eventuali shock. Proteggersi dalla crisi, tutt’ora fumosa, dell’Europa”.
La Fed (la banca centrale americana), sempre secondo la Longo, starebbe esercitando pressioni sul mondo bancario statunitense per disimpegnarsi il più possibile dall’area dell’euro.
In realtà, a differenza di quanto affermano Jouyet e Longo, il protezionismo sta agendo ormai in ogni campo, dalla finanza, alle valute, al commercio, al sistema produttivo come dimostrano le recenti misure protezioniste che diversi paesi (a partire dalla Francia) stanno prendendo a difesa dell’industria dell’auto e di altre branche dell’economia.
Come nella grande crisi degli anni ’30, tutti sostengono che il protezionismo è una via senza uscita, ma tutti continuano a praticarlo. Come allora, si sta preparando il terreno per scontri di portata superiore.
Le scaramucce di oggi possono trasformarsi nella guerra di domani. I governi nazionali si troveranno a giocare un ruolo sempre più importante, con buona pace di coloro che in questi anni hanno sostenuto il superamento della funzione degli Stati e la fine delle contraddizioni inter-imperialistiche.
Gli indici di una crisi di sistema
Le richieste di immissione di liquidità a partire dall’estate 2011, hanno mandato in fumo 15mila miliardi di dollari, mettendo in forte esposizione debitoria le banche centrali di tutto il mondo (il Fmi stima la cifra a 3.600 miliardi di dollari).
Come abbiamo spiegato più volte la crisi in corso è una classica crisi di sovrapproduzione, ritardata per oltre trent’anni. Ma sono gli ultimi cinque quelli in cui si è operata un’espansione creditizia senza precedenti che ha aggravato oltre misura le contraddizioni del sistema.
I deficit pubblici dei paesi Ocse sono cresciuti di otto volte dal 2007 ad oggi portando il debito pubblico totale all’astronomica cifra di 50mila miliardi di dollari. Nella sola zona euro i deficit sono cresciuti di dodici volte e il debito ha superato gli 8.600 miliardi di euro.
Simultaneamente grazie al “salvataggio” del settore finanziario, il movimento speculativo sul debito pubblico non ha potuto far altro che esplodere. In pratica, ciò che è accaduto è che il settore finanziario è stato condotto per mano ad utilizzare contro la finanza pubblica quegli stessi capitali monetari che lo Stato gli aveva erogato.
Di fatto l’economia mondiale non è mai uscita dalla recessione in cui è entrata nel 2008, nonostante le migliaia di miliardi iniettati nell’economia. Dopo la crescita “artificiale” del 2010 vi è stato un netto calo della domanda e un conseguente calo del commercio mondiale (dal +5% nel 2011, al +2,5% nel 2012).
Una delle risposte del capitale è stata un processo di concentrazione senza precedenti. Cinque società d’affari (J.P. Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Paribas) hanno il controllo ormai di oltre il 90% del totale dei derivati. Le prime dieci società con maggiore capitalizzazione a Wall Street, pari allo 0,12% delle 7.800 società registrate, detengono il 41% del valore totale, il 47% dei ricavi e il 55% delle plusvalenze registrate.
Negli anni d’oro queste società hanno fatto una montagna di soldi e un pugno di magnati e di manager hanno intascato autentiche fortune accumulando ricchezze personali superiori al Prodotto interno lordo della gran parte degli Stati esistenti sul pianeta.
Oggi a pagare il conto della “grande abbuffata” vengono chiamati i lavoratori con feroci piani di austerità che si generalizzano in ogni angolo del globo.
Prospettive future
Ma arriverà la tanta sospirata ripresa economica?
Negli ultimi decenni un gruppo di paesi “emergenti” ha effettivamente incrementato la produzione a tassi elevati (Cina, Brasile, Russia, Sudafrica, India, Turchia, ecc.). Gran parte del plusvalore prodotto in questi paesi (trattandosi di investimenti provenienti dal capitale europeo e statunitense) è affluito in Occidente consentendo di rinviare effetti ancora più violenti della crisi capitalistica mondiale. Ma come si vede la crescita degli “emergenti” non può essere eterna e di fatto sta rallentando. Molti degli strumenti che Marx segnalava per contrastare la legge al calo del tasso di profitto sono stati abbondantemente utilizzati in questi anni e sono molto vicini al livello di saturazione.
Lo scenario più probabile che si apre di fronte a noi è quello di una intensificazione dei conflitti commerciali e valutari. Gli accordi commerciali fatti nel passato in sede Wto e quelli per stabilizzare le valute salteranno in aria uno dietro l’altro.
Torneremo a vedere le svalutazioni competitive e nuove fiammate inflazionistiche (alimentate dall’enorme massa di denaro circolante nei mercati). L’orologio della globalizzazione inizierà a girare al contrario con una tendenza al ritorno dei capitali negli Stati di provenienza. Inutile dire che in un tale scenario l’Unione europea è destinata a rompersi in più punti e la tenuta dell’euro sarà messa a dura prova.
Da un punto di vista capitalista, la svalutazione della moneta e l’alta inflazione possono essere uno dei sistemi per ridurre il debito, ma sono anche misure che se applicate su scala generale da tutti i paesi perdono di ogni efficacia.
A quel punto per rilanciare l’economia e il profitto non resterebbe che dare una sostanziosa “limatura”, svalorizzando gran parte del capitale reale e fittizio.
La crisi del 2007-2008 ne ha ridimensionato una parte, anzitutto negli Usa, ma l’intervento dei governi e delle banche centrali ne ha limitato le conseguenze, sostenendo i valori finanziari con l’immissione di nuovi capitali fittizi.
Una più generale svalorizzazione dell’economia che possa permettere un nuovo ciclo ascendente del capitalismo in passato si è realizzata solo attraverso guerre che hanno permesso di distruggere capitale fittizio e produttivo (impianti e forza-lavoro).
Negli anni ’30, il capitalismo passò dal protezionismo in economia al nazionalismo in politica e da questo alla guerra mondiale. Non a caso stiamo assistendo a una proliferazione di conflitti bellici locali. Ma una terza guerra mondiale rischierebbe di distruggere il pianeta e con esso l’umanità. Non è un’opzione praticabile neanche per i pescecani capitalisti che dominano il mondo.
Quali altri soluzioni verranno prese allora? Forse sarebbe meglio non aspettare che sia il capitale a rispondere a questa domanda.
Si tratta di lavorare a una prospettiva rivoluzionaria partendo dal concetto di fondo del rifiuto delle “compatibilità capitaliste”, e mettendo al centro i bisogni elementari delle masse popolari.
Per distribuire l’enorme ricchezza concentrata in poche mani non c’è politica fiscale ed economica che tenga. È necessario requisire le grandi ricchezze accumulate con la speculazione, espropriare le banche, le compagnie assicurative, le industrie e i gruppi strategici.
Solo così sarebbe possibile ottenere una piena e buona occupazione, tutelare il welfare e garantire condizioni di vita soddisfacenti per la totalità della popolazione. Pianificare l’economia sotto il controllo dei lavoratori è in definitiva l’unico modo per dare un futuro alle nuove generazioni.
(I dati economici la cui fonte non è citata sono tratti dai bollettini Geab www.europe2020.org)