Thomas Piketty, un economista ed accademico francese, si è velocemente guadagnato un enorme successo editoriale grazie al suo libro “Il capitale nel 21° secolo”, un bestseller che, per la sua dettagliata analisi della disuguaglianza sotto il capitalismo, ha acceso i dibattiti nei diversi movimenti, suscitando elogi ed esultanza nella sinistra riformista ed orrore e paura nella destra del libero mercato.
Con la sua chiara e semplice analisi delle disuguaglianze in seno al capitalismo, è chiaro come Thomas Piketty sia diventato la “rock star dell'economia”; sostenuto dal suo studio meticoloso ed attento dei dati storici relativi alla ricchezza ed al salario in molti paesi, l'autore giunge ad una inequivocabile conclusione: la crescita delle disparità tra ricchi e poveri, tra i detentori del capitale ed il resto della società, è il normale stato delle cose sotto il capitalismo, e i periodi in cui queste disparità sono meno visibili sono l'eccezione che conferma la regola.
Le condizioni creano la coscienza
Il successo di Piketty, tuttavia, non è dovuto solamente alla sua genialità o al suo rigore, né alla semplicità e chiarezza del suo eloquio, ma anche al fatto che ciò che scrive è lo specchio dei tempi in cui viviamo: un'era di crisi profonda del capitalismo, dove la paralisi economica e la crescita della disparità sono diventate la norma. Come ci fa notare l'Economist (3 Maggio 2014)
“Il successo del libro deve molto al fatto di aver detto le cose giuste al momento giusto. La questione della disuguaglianza è un tema caldo, soprattutto negli Stati Uniti. Gli americani, colpiti in prima persona dagli eccessi di Wall Street, stanno improvvisamente iniziando a parlare di ridistribuzione delle ricchezze; da qui la propensione per un libro che spiega che la crescente concentrazione del benessere è intrinseca al capitalismo, ed auspica una tassa globale sul patrimonio come soluzione a lungo termine.”
Andrew Hussey dell'Observer (13 Aprile 2014), inoltre, dice che
“Il valore eccezionale del libro sta nel fatto che Piketty ci dà una prova scientifica della correttezza di questa intuizione, e mette nero su bianco quello che in molti pensano da anni.”
L'autore stesso ammette che parte del successo del libro è dovuto al crescente divulgarsi della preoccupazione in merito al tema delle disparità.
“Negli Stati Uniti si diffonde la coscienza della crescita delle disparità, e sempre più persone si chiedono se questa situazione continuerà per sempre. Di fronte ad una crescita pressoché inesistente, pari all'1 o 2%, la gente si preoccupa per il proprio futuro, ed inizia veramente a parlare di disuguaglianza” (New Statesman, 6 Maggio 2014)
Sei anni di crisi del capitalismo, durante la quale i banchieri hanno continuato ad accumulare profitti da record mentre alla gente comune viene costantemente richiesto di pagare la crisi con tagli e politiche di austerità, hanno portato la maggior parte della società a convincersi che non è vero che “la crisi tocca tutti quanti”. Questo profondo senso di ingiustizia all'interno del sistema capitalista si riflette in molti aspetti della società degli ultimi tempi, dal rapporto dell'Oxfam che rivela che 85 miliardari possiedono quanto la metà più povera della popolazione agli studi che indicano che la porzione di ricchezza che va ai lavoratori sotto forma di salario è diminuita in tutto il mondo negli ultimi decenni. Altri nel frattempo segnalano che l'umanità è sempre più impegnata in una corsa contro le macchine, e che le tecnologie create dalla società hanno portato da una parte ad un accumulo di profitti, e dall'altra all'abbassamento dei salari ed alla disoccupazione di massa.
Questa crescente comprensione della ineguaglianza intrinseca al capitalismo è dimostrata soprattutto dagli innumerevoli movimenti di massa che sono nati spontaneamente in tutti gli angoli del mondo, e più specificamente dall'ormai universale slogan “Siamo il 99%”. Il dibattito sulla disuguaglianza, quindi, non è un fenomeno nuovo che Piketty ha aiutato a nascere, ma piuttosto lo spirito dei nostri tempi di crisi ed austerità permanenti.
Piketty Marxista?
Con il messaggio centrale del libro, ovvero il fatto che le dinamiche interne di un capitalismo senza regole non porteranno alla riduzione della disparità ma piuttosto l'aumenteranno, e con la scelta del titolo “Capitale”, Piketty è stato prevedibilmente paragonato all'autore del “Capitale” del diciannovesimo secolo Karl Marx.
L'attenzione sulla questione del capitale come possesso di ricchezza accumulata piuttosto che di semplice reddito, come molti altri discorsi già fatti sulla questione della disuguaglianza, ha sicuramente molte somiglianze con l'analisi di Marx, come simili sono le conclusioni dell'economista francese, nelle quali si dichiara che la disuguaglianza è un sintomo delle leggi del capitalismo, un qualcosa di strettamente legato al sistema e non una sfortunata conseguenza dello stesso.
Come Marx faceva notare nella sua opera magna:
“Nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione dell'operaio, qualunque sia la retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare. (...) Questa legge determina un'accumulazione di miseria proporzionata all'accumulazione di capitale,
L'accumlazione di uno dei due poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto ossia da parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale.” (il Capitale, Libro primo, Capitolo venticinquesimo, pag 706. Editori riuniti 1980)
Qui, tuttavia, finiscono tutte le somiglianze tra i due autori
La teoria di Piketty si basa fondamentalmente sulla distribuzione delle ricchezze all'interno della società che, ipotizza l'autore, si riduce a due variabili, dove r è il tasso di rendimento generale, ovvero il tasso medio di profitto, e g il tasso di crescita economica della società. Quando r è più alto di g, e quindi il tasso di profitto è maggiore del tasso di crescita, il capitale, l'accumulo di ricchezza nelle mani dei ricchi, aumenterà più rapidamente dell'economia nel suo complesso; ciò significa che la fetta più grande della torta andrà nelle mani del Capitale, e una parte sempre più piccola ai Lavoratori, e quindi le disuguaglianze aumenteranno.
Secondo gli studi empirici di Piketty questa tendenza è stata la norma storica nella Francia e nell'Inghilterra del XIX secolo. Solo la distruzione di grandi quantità di capitali nel corso di due guerre mondiali, le forti politiche di tassazione e di regolamentazione, ed un periodo eccezionale di crescita economica dopo la seconda guerra mondiale, hanno permesso un'inversione di questa disuguaglianza nel XX secolo.
Dagli anni 70, però, quando la crescita ha cominciato a rallentare persistentemente mentre i profitti continuavano a crescere, la tendenza alla crescita della disuguaglianza è tornata più spietata di prima.
Il marxismo però non vede questa disuguaglianza come semplice conseguenza della distribuzione delle ricchezze, bensì come l'inevitabile risultato della produzione di ricchezza sotto il capitalismo. Tutte la ricchezza della società sono il prodotto della forza lavoro, creato dagli sforzi fisici e mentali della classe lavoratrice. Come Marx ha spiegato, i profitti, il rendimento del capitale, non sono altro che il lavoro non pagato della classe operaia, la differenza tra il valore di ciò che viene prodotto e ciò che torna nelle tasche dei lavoratori sotto forma di salario. Un tasso di profitto in crescita, quindi, implica semplicemente la crescita dello sfruttamento della classe lavoratrice e di conseguenza un accumulo maggiore della ricchezza della società nelle mani dei capitalisti, che sono una minuscola élite di sfruttatori.
Marx ha dimostrato nei tre volumi del Capitale come, attraverso vari mezzi, i capitalisti riescano a spremere sempre più profitti dalla classe operaia: con il prolungamento della giornata lavorativa, l'intensificazione del ritmo di lavoro, l'aumento dell'efficienza e della produttività, con la sostituzione dei lavoratori con le macchine, ecc. Tutto ciò ha quindi portato ad una sola conseguenza: l'aumento dello sfruttamento della classe lavoratrice e la crescente differenza tra lavoro non pagato e lavoro totale.
Questo sfruttamento è anche, però, la fonte di una contraddizione insita nel capitalismo: se i lavoratori non vengono pagati per l'intero valore del loro prodotto, come funziona normalmente in un sistema di proprietà privata e di produzione per profitto, come potranno mai riacquistare tutti i beni che essi stessi producono?
Questa contraddizione della sovrapproduzione, che in alcuni periodi storici è stata superata attraverso gli investimenti, l'utilizzo del credito e l'espansione del commercio mondiale, è la causa delle periodiche crisi del capitalismo, compresa la profonda crisi organica che stiamo vivendo oggi, che ci svela tutte le incoerenze accumulate dal sistema.
Marx, tuttavia, non ha mai visto l'economia capitalista in semplici termini di variabili astratte, ma come un sistema dialettico di processi contraddittori e connessi tra loro, e in ultima istanza come una lotta tra forze vive; una lotta di classe tra capitalisti e classe lavoratrice che ha al centro il plusvalore prodotto dalla società. Con i mezzi sopracitati, i capitalisti tentano di accrescere i loro profitti alle spese della classe lavoratrice, ma dove questa è organizzata, unita e desiderosa di lottare, le riforme possono essere conquistate ed i lavoratori possono prendersi una fetta più grossa della torta.
La differenza tra Marx e Piketty, quindi, non sta semplicemente nelle conclusioni, ma nell'approccio: mentre nel primo troviamo un'analisi dialettica e rivoluzionaria del capitalismo, nel secondo l'approccio è invece secco, empirico e accademico, come scrive Paul Mason nel Guardian (28 Aprile 2014):
“Piketty è forse il nuovo Karl Marx? Chiunque abbia letto quest'ultimo sa che non è così. Lì dove Marx vedeva relazioni sociali, tra lavoratore e dirigenti, proprietari di fabbrica ed aristocrazia terriera, Piketty vede solo categorie sociali: ricchezza e reddito. L'economia Marxista vive in un mondo dove le tendenze innate del capitalismo vengono smentite dall'esperienza diretta, mentre il mondo di Piketty è costruito sui soli dati storici concreti, rendendo completamente fuori luogo le accuse di marxismo morbido.”
La “manna dal cielo” dei riformisti
Piketty ha comunque fatto di tutto per mettere ben in chiaro di non essere un marxista, dichiarando categoricamente che “abbiamo bisogno della proprietà privata e delle istituzioni del mercato, non solo per acquisire efficienza economica, ma anche per mantenere la nostra libertà personale” (New York Times, 19 Aprile 2014), autodefinendosi un “difensore del libero mercato e della proprietà privata” ma segnalando in maniera abbastanza socialdemocratica che “anche i mercati hanno i loro limiti.”(The Guardian, 2 Maggio 2014).
Altrove, in varie interviste, Piketty ha definito il Capitale di Marx “poco influente” nella sua formazione e di “non essere mai riuscito a leggerlo”; tuttavia questo didattico accademico si sente nella posizione di poter criticare Marx per la sua mancanza di dati empirici, nonostante il Capitale sia corredato da rapporti qualitativi e dati quantitativi provenienti da innumerevoli fonti!
Per la sinistra riformista, quindi, Piketty è una benedizione: qualcuno che fornisce una spiegazione teorica delle cause della disuguaglianza, fornendo anche delle giustificazioni accademiche alle politiche socialdemocratiche, mascherate da radicali, di alta tassazione sul reddito e della ricchezza, e allo stesso tempo si distanzia dalle idee rivoluzionarie del Marxismo, proponendo un programma che seppur a prima vista appare radicale, in realtà si attiene fermamente ai dettami del capitalismo, come chiarisce Paul Mason (28 Aprile 2014).
“Il Capitale di Piketty, a differenza di quello di Marx, contiene soluzioni basate sul terreno del capitalismo stesso: la tassa del 15% sul capitale, dell'80% sui redditi più elevati, la trasparenza applicata a tutte le operazioni bancarie, l'uso palese dell'inflazione per ridistribuire ricchezza verso il basso”
Len McCluskey, leader di Unite the Union, il maggior sindacato inglese, descrive il lavoro di Piketty come una “manna dal cielo”, mentre Paul Krugman, economista Premio Nobel e acclamato accademico del moderno Keynesismo, descrive il suo Capitale come un “tour de force”, "la diagnosi magistrale" che ha "trasformato il nostro discorso economico" fornendo una “una teoria a campo unificato della disuguaglianza, che integra la crescita economica, la distribuzione del reddito tra capitale e lavoro, e la distribuzione della ricchezza e del reddito tra gli individui in un unico fotogramma”
Come tutti i riformisti, in ultima istanza, Piketty non ha fiducia nel potere della classe lavoratrice di trasformare la società; a differenza di altri riformisti, però, non prevede un ritorno al periodo post bellico di boom economico e politiche di carattere Keynesiano, in quanto “ la classe lavoratrice è troppo debole, l'innovazione tecnologica troppo lenta e il potere globale del capitalismo troppo esteso.” (Mason, 28 Aprile 2014)
Da questo punto di vista Piketty ha ragione: il boom economico postbellico è un'anomalia del capitalismo, un'eccezione resa possibile da una confluenza di fattori, come spiega Ted Grant nella sua analisi Ci sarà una recessione?, quali la distruzione di massa dei mezzi di produzione durante la seconda guerra mondiale, il rafforzamento degli Stati Uniti a seguito della guerra ed il conseguente controllo che questi hanno avuto sull'espansione sul commercio mondiale, lo sviluppo e l'implementazione di nuove tecnologie e tecniche di produzione resi possibili da programmi di ricerca e sviluppo nazionalizzati durante la guerra e non ultimi i tradimenti degli stalinisti e riformisti alla fine della guerra. Una situazione di tale crescita non è applicabile al giorno d'oggi, mentre la prospettiva è quella di una recessione permanente, una stagnazione secolare ed un'austerità senza fine.
La soluzione, per Piketty, è solamente quella di appellarsi ai politici e chiedere loro di provare a curare la profonda ferita che il capitalismo ha creato, rattoppando il sistema con lo scopo di mantenerlo in funzione. A questo proposito il problema per Piketty non è la disuguaglianza in sé e per sé, ma il fatto che essa crei rabbia ed ingiustizia nella società, minacciando il sistema: “ molto difficile far funzionare un sistema democratico quando ci sono così tante ineguaglianze” (New York Times, 19 Aprile 2014).
Le preoccupazioni di Piketty sono condivise dai leader riformisti del movimento operaio, come ad esempio McCluskey che ha dichiarato che “se il divario tra i ricchissimi ed il resto della popolazione continuasse a crescere, ciò porterebbe sicuramente all'agitazione sociale, che si potrebbe manifestare in molti modi, nessuno dei quali positivo”(28 Aprile 2014).
Lungi dal richiedere a gran voce una vera trasformazione della società, quindi, i riformisti, capitanati dal loro nuovo leader teorico Thomas Piketty, si aggrappano al cadavere del capitalismo, avvisando la classe dominante dei pericoli della rivoluzione se il problema della disuguaglianza non venisse affrontato.
Piketty non è dunque un ideologo dai solidi principi, ma piuttosto un ennesimo economista liberale che vuole sottolineare i peggiori eccessi del capitalismo nella speranza di permettere al sistema di andare avanti indisturbato, come John Maynard Keynes ha fatto prima di lui nella sua Teoria Generale scritta al tempo della grande depressione. “Non ho nulla contro la disuguaglianza” ha detto Piketty al New York Times “fintanto che è nell’ interesse comune” (19 Aprile 2014)
Pragmatismo o Utopia?
Come tanti altri accademici, Piketty cerca di mostrarsi come un osservatore neutrale, al di sopra delle questioni politiche mondiali più spicciole; lungi dal descriversi come anticapitalista rivoluzionario, ma neanche come fondamentalista del libero mercato, l'autore spera di persuadere i politici mondiali ad agire attraverso le argomentazioni ragionate e l'appellarsi ai fatti.
C'è da dire, innanzitutto, che nonostante Piketty si autodefinisca un “pragmatico”, un uomo di scienza e di evidenza empirica, è di sicuro legato alle idee della classe dominante e ai pregiudizi della classe borghese; Come Keynes fa correttamente notare nella sua Teoria Generale “gli uomini pratici, che credono di non essere toccati dalle influenze intellettuali, spesso sono schiavi degli economisti che li hanno preceduti”, e Piketty è, ironia della sorte, schiavo di Keynes stesso, nella sua speranza di poter, con le sue teorie, riformare e regolamentare il capitalismo, sbarazzandosi dei suoi peggiori eccessi, ma permettendo comunque al sistema di mantenersi in vita.
Piketty, insomma, può essere considerato uno degli economisti più utopici, ben lungi dall'essere un vero pragmatico, tanto che egli stesso ha definito utopici alcuni dei suoi suggerimenti; tuttavia, al pari di molti altri riformisti, egli sostiene che per mettere in atto le sue idee è sufficiente avere “volontà politica”: “se siamo in grado di inviare un milione di truppe in Kuwait nel giro di pochi mesi per restituire il petrolio, possiamo di sicuro fare qualcosa per risolvere il problema dei paradisi fiscali”(New York Times, 19 Aprile 2014)
Un ragionamento simile, però, sorvola su tutta la realtà politica e confonde e fonde volutamente gli interessi di classe della società: le invasioni imperialiste in Kuwait, Iraq o Afghanistan vengono portate avanti dalla classe dominante a favore di maggiori profitti, espansione del mercato, estensione delle sfere di influenza, quindi a beneficio dei soli capitalisti; “risolvere il problema dei paradisi fiscali”, se si vuole davvero ridurre la disuguaglianza, si può fare solamente mettendo in discussione gli interessi del capitale, colpendone i profitti stessi.
Come commenta Paul Mason, “Piketty stesso definisce, a ragione, alcune delle sue soluzioni utopiche. É più facile immaginare il crollo del capitalismo che l’Élite permetta di metterle in pratica.”(28 Aprile 2014).
E ancora, come ci fa notare The Observer (13 Aprile 2014):
“È difficile, se non impossibile, immaginare che la cura che lui propone, ovverosia tasse e ancora tasse, potrà mai essere attuata in un mondo dove, da Pechino a Mosca a Washington, il denaro, e coloro che ne hanno più di quanto chiunque altro, la fa da padrone.”
Come tutti i leader riformisti e intellettuali prima di lui, Piketty crede che il capitalismo possa essere utilizzato contro gli interessi dei capitalisti stessi. Mentre la nostra rock star delle aule universitarie è occupata a vantarsi del suo uso di dati storici nei suoi studi economici, pare ignorare totalmente le lezioni della storia in merito alla questione politica dello Stato ed alla reale possibilità di riformare il capitalismo.
Se sono state conquistate delle riforme sotto il capitalismo, è sempre stato grazie alla lotta di classe e alla minaccia che questa portava per i capitalisti di perdere molto di più. Piketty ha riconosciuto l'importanza di questo elemento in una intervista con l'Huffington Post (1 Maggio 2014), spiegando come i pericoli della rivoluzione e l'esempio dell'economia pianificata in Unione Sovietica abbiano convinto i capitalisti a separarsi da parte dei profitti:
“L'esistenza di un modello diverso [in Unione Sovietica] è stato uno dei motivi per cui sono state accettate nel mondo alcune riforme e politiche progressiste.
Fa impressione pensare che in Francia, nel 1920, le maggioranze politiche adottassero sempre più velocemente la tassazione progressiva; si trattava degli stessi che, nel 1914, avevano rifiutato a gran voce l'imposta sul reddito con aliquota al 2%. Lo spauracchio della rivoluzione bolscevica, insomma, faceva sembrare la tassazione progressiva molto meno pericolosa.”
“La storia di ogni società sinora esistita," spiegavano Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista, "è la storia della lotta di classe." Ovunque i leader riformisti, come Allende in Cile nel 1973, abbiano tentato di riformare gradualmente il capitalismo nell'interesse della maggioranza della società, hanno sempre incontrato resistenza, sabotaggio, e persino una reazione violenta da parte della classe dominante, composta da capitalisti e proprietari terrieri.
Non c'è neanche bisogno di andare indietro fino al 1973 per dimostrarlo: basti guardare al tempo ed al paese dello stesso Piketty, ed al terribile esempio di François Hollande, il “Presidente Socialista” della Francia, che dopo una vittoria schiacciante nel 2012, grazie ad un programma di tassazione al 75% dei redditi più alti, solo nel primo anno di mandato ha visto i tribunali francesi, e quindi la borghesia di stato, annientare totalmente il suo progetto.
Ora, a due anni dall'elezione, Hollande sta rinnegando tutte le sue promesse elettorali e, sotto la pressione delle grandi imprese e le loro minacce di ritirare gli investimenti dal paese, sta mettendo in atto un programma di austerità atto a "ripristinare la competitività" dell'economia francese, tagliando sul costo del lavoro e aumentando i profitti.
Piketty è quindi tutt'altro che pragmatico e realistico, ma piuttosto un vero utopico, come tutti i leader riformisti; la sola soluzione realistica è la trasformazione della società attraverso la rivoluzione socialista, per fermare il sistema capitalista e mettere ricchezza e tecnologia della società su un piano di produzione razionale e democratico.
Le paure della destra
È ancora più interessante notare come il fascino che Piketty ha sui riformisti sia allo stesso tempo la croce di coloro che più ferocemente sostengono il capitalismo, e che inorridiscono di fronte al successo di un uomo che chiama a gran voce l'aumento delle tasse ai ricchi.
Nonostante egli affermi chiaramente la sua opposizione alle idee rivoluzionarie, i sostenitori ardenti del libero mercato comprendono che Piketty, fornendo una critica teorica del sistema capitalista, puntando i riflettori sulla questione della disuguaglianza, e rilanciando una discussione sui meriti della stessa analisi di Marx , ha potenzialmente aperto il vaso di Pandora della radicalizzazione delle masse.
I portavoce borghesi analizzano con calma e precisione i problemi che emergono dai suggerimenti riformisti di Piketty: "maggiori imposte sul reddito e sul patrimonio scoraggiano gli imprenditori e l'assunzione del rischio" (The Economist, 3 Maggio 2014); in altre parole, tassare i ricchi condurrebbe ad uno blocco degli investimenti ed una fuga di capitali . Il problema per gli apologeti del capitalismo, tuttavia, è che l'analisi empirica e storica di Piketty della disuguaglianza è abbastanza a prova di bomba. Il risultato è che i ferventi sostenitori del libero mercato sono incapaci di rispondere alle critiche di Piketty con una loro analisi personale; limitandosi semplicemente ad etichettarlo come marxista. Nonostante sia evidente che i metodi di Piketty non siano di stampo marxista, e le sue indicazioni politiche possano tranquillamente essere definite utopiche, i più accaniti sostenitori del sistema capitalista non riescono a trovare argomentazioni alle questioni che l'autore pone nella sua opera magna.
L'economista Keynesiano Paul Krugman spesso si vanta del fatto che “la destra sembra incapace di costruire qualsiasi contrattacco alle tesi di Piketty (New York Times, 24 Aprile 2014), e procede a puntualizzare le preoccupazioni dei teorici borghesi:
“Piketty non è di certo il primo economista a farci notare che stiamo vivendo un periodo di crescita della disuguaglianza, o anche a sottolineare il contrasto tra la lenta crescita del reddito per la maggior parte della popolazione rispetto all'impennata dei redditi più alti”
“La vera novità di questo Capitale è il modo in cui esso distrugge il più grande mito dei conservatori, ovvero la convinzione di vivere in un mondo meritocratico dove la ricchezza è guadagnata e meritata”
“Da un paio di decenni, la risposta conservatrice ai tentativi di rendere l'impennata dei redditi una questione politica ha coinvolto due linee di difesa: in primo luogo, la negazione che i ricchi stiano realmente facendo così bene e tutto il resto della popolazione così male, e in seconda battuta, quando negare l'evidenza non funziona più, sostenere che tale impennata sia una giusta ricompensa per i servizi resi. Non chiamateli l'1% o ricchi; chiamateli semplicemente 'creatori di posti di lavoro”
“Ma come si fa a costruire una buona difesa se i ricchi derivano gran parte del loro reddito non dal lavoro che fanno, ma dai beni di loro proprietà? E se una grande ricchezza provenisse non dal lavoro d'impresa, ma da un'eredità?”
Il capitalismo, e con lui la classe dominante che lo difende, fa forte affidamento sui pregiudizi, sulla “opinione pubblica” e sul “buonsenso” del passato, che loro stessi aiutano a diffondere e consolidare attraverso il controllo dello stato, dei media, del sistema educativo , ecc. Ma le condizioni fanno la coscienza, e i fatti parlano chiaramente. Sulla base di grandi eventi, e partendo dalle proprie esperienze personali, le masse acquistano coscienza delle ingiustizie e ineguaglianze della società in cui vivono, e questo le porta a porsi delle nuove domande, creando terreno fertile per nuove idee sempre più radicali.
Di qui le preoccupazioni dei borghesi moderni, che si sentono minacciati da un accademico che mette in discussione il loro sistema inviolabile e li priva della loro autorità intellettuale. Commentando il lavoro di Piketty e le sue somiglianze con la Teoria Generale di Keynes, che ha fornito il quadro accademico per il "consenso post-bellico" riformista delle politiche economiche e di gestione della domanda keynesiane, James Pethokoukis, scrivendo per il National Review Online, implora gli economisti capitalisti di trovare un'argomentazione migliore di quella del libero mercato:
“Il vago Marxismo del Capitale [di Piketty], se incontrastato, si diffonderà tra l'intellighenzia, rimodellando il panorama economico politico su cui verranno combattute tutte le future battaglie politiche. Abbiamo già visto questo film: chi sosterrà la causa intellettuale per la libertà economica di oggi?”
Allister Heath, redattore di CITY AM, una voce affidabile per banchieri e finanzieri a Londra, che già lo scorso anno metteva in guardia i suoi colleghi capitalisti dicendo loro che "purtroppo le masse iniziavano a sostenere le nazionalizzazioni ed il controllo dei prezzi", e che "i sostenitori dell'economia di mercato avrebbero dovuto iniziare a rispondere alle preoccupazioni del popolo per non essere annientati ", ora esprime di nuovo le sue profonde preoccupazioni per il sempre maggiore calo di popolarità del sistema di sfruttamento che difende:
“Ultimo ma non meno importante, i sostenitori del capitalismo devono darsi una regolata. Sempre più spesso vengono massacrati sul campo di battaglia intellettuale da avversari che stanno cercando nuove entusiasmanti giustificazioni ai loro vecchi argomenti. Abbiamo bisogno di nuovi e più efficaci metodi di difesa del sistema della libera impresa, e ne abbiamo bisogno adesso." (Allister Heath, The Telegraph, 29 Aprile 2014)
Queste parole descrivono accuratamente le preoccupazioni della classe dominante, che capisce benissimo che anni di crisi e tagli stanno avendo un fortissimo impatto sulla coscienza delle masse, e che nota la crescita della popolarità della retorica anticapitalista e delle idee radicali nei giovani. Come fa notare Larry Elliott nel Guardian (2 Maggio 2014):
“Il Capitale di Piketty parla al movimento Occupy, parla ai 25enni inglesi i cui salari sono più bassi del 15% rispetto a quelli degli anni '90, parla alla Generazione Affitto”
Tuttavia Elliott sottolinea le contraddizioni della situazione stessa:
“Ammirare l'analisi è una cosa, accettarne i dettami un'altra. La classe lavoratrice si terrà alla larga anche dai suggerimenti più radicali di Piketty”
In altre parole, nonostante le richieste di tassazione dei ricchi siano estremamente popolari, i leader laburisti si rifiutano di metterle in atto, promettendo invece la continuazione del programma di austerità dei Tory. Come diceva Trotsky “la crisi storica dell'umanità si riduce alla crisi della direzione rivoluzionaria”.
Il suggerimento di Piketty di tassare i ricchi è sicuramente un sogno utopico in un mercato mondiale capitalista, dove il capitale è fluido e dinamico. Nonostante ciò il successo di questo libro, dall'entusiasmo di coloro che cercano una spiegazione ed una soluzione alle disuguaglianze del capitalismo, all'orrore e paura di coloro che difendono questo sistema decrepito, riflette chiaramente la consapevolezza cha la società sta acquisendo il fatto che il capitalismo ha raggiunto un'impasse, impossibilitato ad offrire una prospettiva alla maggior parte della popolazione se non quella di “accumulare miseria ed essere perennemente alla mercè di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalità e degrado morale”.
È ora di mettere un freno alle disuguaglianze ed ingiustizie del capitalismo; è l'ora di una trasformazione rivoluzionaria della società, che tolga la spaventosa quantità di ricchezze dalle mani dell'1% e le ridistribuisca su un piano democratico di produzione che sia basato sugli interessi del 99%. È ora di spazzare via questo sistema moribondo e di gettarlo nella spazzatura a cui appartiene.
29 agosto 2014