La febbre per l’ultimo saggio di Thomas Piketty ha varcato i confini del nostro paese e, in continuità con il quadro internazionale, anche qui ha avuto il merito di riaccendere il dibattito economico. L’attuale crisi pone, in ampi settori sociali, importanti interrogativi sulle devastazioni che questa produce e in generale sul futuro del sistema economico capitalista; se Piketty sta riscuotendo così tanto successo è perché prova a parlare a queste persone e dar loro
un’alternativa all’ austerità.
L’obiettivo de Il capitale nel XXI secolo è indagare su alcune peculiari componenti del capitalismo: la disuguaglianza e la distribuzione della ricchezza nel mondo, attraverso l’utilizzo di dati empirici prima di oggi mai utilizzati. A Piketty vanno riconosciute due tesi: 1) le analogie tra la fase contemporanea e quella del XIX secolo rispetto all’aumento delle disparità economiche causate dal peso dei patrimoni che sovrastano il tasso della crescita economica; 2) l’individuazione di fasi di maggiore redistribuzione della ricchezza come momenti assolutamente eccezionali di un sistema economico dominato dalla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi.
L’analisi della crisi internazionale rende il libro dell’economista francese un’ancora di salvezza per i variopinti sostenitori del libero mercato (compresi alcuni keynesiani come Krugman) da tempo alla ricerca di un nuovo messia. Il motivo principale è dovuto al ridimensionamento della gravità della recessione internazionale facendo perdere all’attuale crisi il suo carattere epocale per essere inscritta nell’ordinario funzionamento del capitalismo.
Nonostante le critiche che dalla destra conservatrice sono pervenute agli assi portanti del ragionamento dell’economista francese, il quadro teorico sul quale Piketty si muove resta quello liberista. La centralità, non certo nuova, che assume la tecnologia vista come motore dell’uguaglianza sociale ne è un esempio.
L’innovazione tecnologica come componente in grado di favorire l’accumulazione del capitale va di pari passo, in Piketty, con la convinzione che “oggi sappiamo che solo la crescita della produttività permette una crescita strutturale a lungo termine” (pag. 350). Ciò che però in realtà emerge è la svalorizzazione che si registra nel mercato del lavoro e che trova la sua origine nella rottura tra la dinamica delle retribuzioni reali e la crescita della produttività. Per dirla con l’Economist, se il salario minimo dal 1968 fosse aumentato in linea con la produttività esso dovrebbe essere oggi di 21,72 dollari e non di 7,25 l’ora.
Non osservando il processo che si genera dalla contrapposizione tra chi possiede i mezzi di produzione e chi solo la sua forza lavoro, l’economista francese arriva ad ipotizzare la perfetta sostituibilità tra tecnologia e lavoro. In realtà l’aumento dell’innovazione tecnologica e la crescita della produttività causano un avvitamento della recessione su se stessa, creando l’ulteriore crescita della disoccupazione e aggravando la crisi di sovrapproduzione. Piketty comprende la disuguaglianza e i problemi che essa comporta, rimanendo però sul terreno della circolazione delle merci, tanto che parla della trasformazione del sistema in un capitalismo di tipo patrimoniale.
La nostra critica a Piketty ribadisce l’attualità dell’analisi marxista. La crisi economica ha favorito l’accelerazione dell’appropriazione di fette sempre più consistenti di plusvalore sottratte ai lavoratori, sotto forma di peggioramento delle loro condizioni di lavoro, di aumento dello sfruttamento e di salari da fame. Tutto questo Piketty non lo vede non solo perché nel suo ragionamento il conflitto di classe non trova spazio ma anche perché l’economista francese non va oltre i limiti del sistema economico capitalista. Dopo la lettura di 928 pagine risulta riduttiva, a esser generosi, la proposta di una tassa mondiale sul capitale e sui redditi alti per ridurre le disuguaglianze.
“Non sono particolarmente ottimista riguardo al futuro. La lezione del passato sembra suggerire che sono i turbamenti violenti a giocare un ruolo centrale”. Lo stato d’animo dell’economista è quello di tutti i riformisti, mummie di un mondo che non esiste più. Su una cosa ha però ragione, si presenteranno turbamenti macroscopici nel prossimo periodo che potrebbero avere la forza di scuotere le fondamenta di questo sistema. Allora le sue ricette si mostreranno per quello che sono: una riproposizione fuori tempo massimo di soluzioni già viste.
Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani editore