“L’accumulazione di ricchezza a un polo è quindi contemporaneamente accumulazione di miseria, di tormento lavorativo, di schiavitù, di ignoranza, di abbruttimento e di degradazione morale al polo opposto…”
Karl Marx, Il Capitale
Un recente studio della Banca d’Italia sulla ricchezza delle famiglie rivela che in due anni (dal 2010 al 2012) il reddito medio delle famiglie italiane è calato del 7,3%, metà dei nuclei famigliari non raggiunge 2mila euro al mese e il 20% non arriva neanche a 1.200 euro.
La povertà vera e propria (meno di 640 euro al mese) è aumentata dal 14% al 16%, con punte del 24,7% nel Sud Italia e del 30% tra gli immigrati (che in media hanno un reddito del 40% inferiore rispetto agli italiani). Il 35,8% delle famiglie ritiene che i propri redditi non siano sufficienti per arrivare alla fine del mese (contro il 29,9% di due anni fa e il 24,3% del 2004) e per la prima volta in trent’anni diminuisce la quota delle famiglie con un’abitazione di proprietà (-1,2%). Ad essere colpiti sono soprattutto i giovani: solo nel 9,4% dei casi il “capofamiglia” (percettore di maggior reddito all’interno del nucleo famigliare) ha meno di 34 anni. Allo stesso tempo però il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46,6% della ricchezza, un dato peraltro in costante aumento (era il 45,7% nel 2010 e il 44,3% nel 2008).
La fotografia fornita da questi dati non potrebbe essere più chiara: mentre la maggioranza della popolazione è sempre più povera, una minoranza al vertice della società concentra la ricchezza sempre di più nelle sue mani. La consapevolezza a livello di massa di questo stato di cose cresce ogni giorno di più, come emerge da un sondaggio Demos-Fond Unipolis, in base al quale l’85% degli intervistati sostiene che “le differenze fra chi ha poco e chi ha molto sono aumentate” e il 60% ritiene di appartenere al ceto sociale più basso. Persino la piccola borghesia impoverita fatica a riconoscersi nei propri panni di “ceto medio”: anche il 50% dei lavoratori percepisce di essere sprofondato in fondo alla scala sociale, così come il 55% degli intervistati del Nord Est, regno della piccola impresa.
Questa profonda polarizzazione sociale non è però una specificità tutta italiana. Anzi, se guardiamo alle cifre internazionali, il quadro è anche peggiore. Secondo un rapporto di Credit Suisse, lo 0,7% della popolazione mondiale detiene il 41% della ricchezza totale, mentre il 68,7% della popolazione (3,2 miliardi di persone) si spartisce un misero 3% della ricchezza. Una ricerca del Centro nuovo modello di sviluppo ci dice che negli ultimi sedici anni i profitti delle 200 più grandi multinazionali sono aumentati del 329,30% e che in una classifica delle 100 economie più grandi, dove sono messi a confronto i bilanci degli Stati e i fatturati delle imprese private, le multinazionali occupano ben 67 posizioni contro le 33 delle nazioni. L’associazione Tax Justice ha calcolato che nei paradisi fiscali trovano rifugio valori per oltre 30mila miliardi di dollari, che permettono ai loro detentori di evadere ogni anno tra i 200 e i 280 miliardi di dollari di tasse.
Di fronte a questi numeri perdono qualsiasi significato non solo tutte le chiacchere sull’unità nazionale, la democrazia e la giustizia, ma anche tutti gli argomenti utilizzati dai politici e dagli economisti borghesi per giustificare sacrifici di ogni tipo, salari sempre più bassi e lavoro sempre più precario: ci hanno ripetuto fino alla nausea che, se agli imprenditori vengono garantiti buoni margini di profitto, ci sarà una ricaduta positiva in termini di salari e occupazione; per anni ci hanno fatto credere che, se le cose vanno bene per i super-ricchi, dal banchetto sarebbe caduta qualche briciola anche per tutti gli altri. La realtà è esattamente il contrario!
Di recente però la propaganda sta cambiando. Se siamo abituati a sentire parlare i dirigenti del sindacato e della sinistra contro le diseguaglianze e a favore di una maggior redistribuzione della ricchezza (peraltro con assai scarsi risultati), nell’ultimo periodo si sono uniti a questi discorsi anche insospettabili esponenti della classe dominante. Il rapporto 2014 sui rischi globali del World Economic Forum, che ha riunito a Davos i principali strateghi del capitale, recita testualmente: “Il divario tra i redditi dei cittadini più ricchi e quelli più poveri è il fattore di rischio che ha più probabilità di causare gravi danni a livello globale nel prossimo decennio”. E anche Papa Francesco alla Giornata mondiale della pace ha invocato “politiche che servano ad attenuare una eccessiva sperequazione del reddito”.
Da dove nasce questa inedita passione per l’equità sociale? Sicuramente una parte della borghesia auspica una ripresa dei consumi per far ripartire l’economia, ma la verità è che i membri più intelligenti dell’establishment comprendono che una differenziazione sociale così marcata porta in sé i germi di vere e proprie esplosioni sociali. Già abbiamo visto conflitti di massa in una serie di paesi (Grecia, Spagna, Tunisia, Brasile, Bosnia…) e nel prossimo periodo potremo assistere a simili ondate di mobilitazione popolare anche in altre nazioni, Italia compresa.
è questa prospettiva che spaventa l’oligarchia al potere, che però non può andar oltre le frasi ipocrite a buon mercato. Come si può d’altronde pretendere un’equa distribuzione all’interno di un sistema di produzione basato interamente sulla massimizzazione del profitto e l’abbattimento dei costi? Non è possibile ridurre l’accumulazione di patrimoni senza mettere in discussione l’appropriazione privata della ricchezza prodotta collettivamente da tutti. Solo espropriando l’élite che controlla tutte le leve dell’economia potremo eliminare davvero le sperequazioni sociali.