La scorsa primavera si è fatto un gran parlare della ripresa europea ma i dati più recenti dell’economia reale vanno in tutt’altra direzione. Nella palude questa volta c’è anche la Germania che nel secondo trimestre dell’anno è entrata in recessione con una contrazione del Pil dello 0,2%.
Il quotidiano berlinese, Tageszeitung osserva che la tendenza è ancora peggio di quanto appaia perché su questo trimestre, e non era mai successo, la Germania aveva ottemperato alla direttiva europea che impone di calcolare nel Pil anche i rilevamenti “illegali” sul mercato della prostituzione, delle droghe e sul lavoro nero.
Se l’Ocse parla eufemisticamente di una “ripresa deludente in Germania”, il giornale di Confindustria è molto più esplicito nel dichiarare che siamo di fronte a “una caduta non momentanea dell’economia tedesca” (Il Sole 24 ore, 14 agosto 2014).
A fronte della gravità della crisi che colpisce l’Eurozona (crescita zero per la Francia, -0,4% per l’Italia) il governo francese decide di sfidare Bruxelles e rifiuta di adottare nuove misure di austerità.
La legge di bilancio per il 2015 prevede infatti un deficit statale che quest’anno si attesterà al 4,4% del Pil, e appena sotto al 4,3% l’anno prossimo. Fino al 2017 non ci sarà il rispetto dei vincoli europei. “Abbiamo preso la decisione”, ha spiegato il Ministro delle finanze, Michel Sapin, “di adattarci alla situazione economica del paese. La nostra politica economica non sta cambiando, ma il deficit sarà ridotto più lentamente del previsto a causa delle circostanze economiche”. “Le nostre prospettive economiche”, ha ammesso il ministro, “non sono quelle previste qualche mese fa”.
Per la Germania si tratta di una vera e propria provocazione, visto che Hollande si era impegnato solennemente a scendere sotto il 3% già da quest’anno.
Immediata la risposta della cancelliera tedesca Angela Merkel: “I paesi devono fare i loro compiti per il loro benessere”, e ha ricordato che il patto di stabilità e crescita “si chiama così perché non può esserci crescita sostenibile senza finanze solide”.
Lo scontro tra le due principali potenze europee è così aperto, mettendo a dura prova la stabilità dell’Unione europea e dell’euro stesso.
Deutschland, Deutschland über alles
Nonostante le sbruffonate di Renzi su quanto peserà l’Italia e il Pd in Europa, la realtà è che il predominio tedesco nelle istituzioni comunitarie diventa sempre più assoluto.
Basta vedere la nuova mappa del potere Ue. La Germania controlla direttamente la presidenza dell’Europarlamento con Martin Schulz, la Banca europea degli investimenti (Bei) con Werner Hoyer e il Fondo salva-Stati (Esm) con Klaus Regling.
Rispondono alla Merkel anche il presidente della Commissione, il lussemburghese Juncker, e veri e propri falchi come il finlandese Katainen e il lettone Dombrovski, due dei sette vice-presidenti che controlleranno le politiche macro-economiche di bilancio, sviluppo, occupazione, industria, ricerca, mercati finanziari, trasporti ed energia.
Lo stesso commissario agli affari economici, il socialista Pierre Moscovici, messo lì da Hollande, è stato sommerso da una tale grandinata di minacce e di pressioni che alla fine si è dovuto piegare alla Merkel annunciando sanzioni contro il suo paese.
Discorso solo parzialmente diverso per quanto riguarda la Bce. Draghi a Napoli ha annunciato i criteri in base ai quali acquisterà a partire da metà ottobre gli Abs (Asset backed securites). Si tratta di titoli derivati che poggiano su prestiti effettuati dalle banche alle imprese. Di conseguenza il loro rimborso è legato al fatto che i prestiti sottostanti siano effettivamente rimborsati alle banche dalle imprese. Se questo non avvenisse le perdite verrebbero scaricate sul bilancio comunitario, e dunque sul bilancio degli Stati andando a ingrossare ancor di più i debiti sovrani.
È evidente che la soluzione di acquistare gli Abs è molto rischiosa anche perché il presidente della Bce sembrava intenzionato ad acquistare anche quelli di Grecia e Cipro, oltre che i titoli di Stato seguendo il modello della Fed.
I falchi tedeschi, si sono scatenati opponendosi al quantitative easing. Axel Weber, ex presidente della Bundesbank, oggi presidente di Ubs, ha esordito dicendo che la Bce si stava trasformando in una bad bank, una banca spazzatura. Più diplomatico il Ministro delle finanze di Berlino Wolfgang Schäuble che si è limitato a dire di non essere contento di questi acquisti.
Lo scontro è stato duro e alla fine Draghi si è piegato almeno in parte alle richieste tedesche. Ha limitato i piani di acquisto, non ha chiarito le quantità di Abs che verranno acquistati e non ha parlato della possibilità di acquistare titoli di Stato. Allo stesso tempo ha richiamato Hollande all’ordine.
La reazione delle borse si è fatta sentire subito con un crollo medio attorno al 3 per cento.
In ogni caso, checché ne dicano i riformisti di mezza Europa, è impensabile che una politica più “audace” di Draghi sul quantitative easing avrebbe favorito l’economia reale e non ulteriore speculazione.
Per quanto il presidente della Bce sia disposto ad usare la leva finanziaria con più flessibilità, non è disposto ad allentare le politiche di austerità che continueranno anche in Francia e in Italia. Le risorse messe a disposizione servono a salvare la banche ma non avranno quasi nessun effetto sull’economia reale.
Le annunciate riforme di Renzi su lotta al precariato, aumento dei salari e nuove risorse per l’occupazione sono solo annunci e niente più.
L’Italia in tutto questo?
L’Italia va sempre peggio. Il dato dell’export, tanto decantato dal governo, va analizzato con cura. Seppure è vero che l’industria italiana ha conosciuto nel 2013 un surplus con l’estero di oltre 100 miliardi di euro, bisogna confrontare il dato con la situazione della manifattura quando è cominciata la crisi.
“Gli indici destagionalizzati dell’Eurostat dicono che il fatturato dell’industria manifatturiera italiana a settembre 2013 risultava caduto del 16,9% rispetto al 2008, contro un calo del 2,8% della Germania. Colpa soprattutto di un autentico crollo del 23% del fatturato domestico italiano rispetto ad una più modesta flessione del 6,3% di quello tedesco” (Il Sole 24 ore, 24 dicembre 2013).
Il saldo delle partite correnti nel 2013 ha segnato un avanzo di 3,4 miliardi di euro (nel 2012 c’era stato un disavanzo di 32 miliardi). Questo è dipeso dall’avanzo commerciale che è stato di 29 miliardi di euro. Ma la dinamica dei flussi lascia intendere che non si riesce ad attirare investimenti a lungo termine dall’estero. Una cosa è migliorare i flussi con l’estero con un’economia in crescita, altra cosa è farlo con gli investimenti esteri a livelli ridicoli e con un calo netto delle importazioni.
è chiaro che la riduzione delle importazioni non dipende dalla maggiore competitività del sistema produttivo nazionale, ma dalla perdita di lavoro e dalla riduzione del potere d’acquisto delle famiglie.
Se si guarda al reddito delle famiglie si vede come è tornato al livello del 1988, il che significa che dall’inizio della crisi ogni famiglia ha perso mediamente 2.400 euro del proprio reddito (un dato doppio rispetto alla media del resto d’Europa).
I lavoratori poveri in Italia sono raddoppiati dal 2005 e sono triplicati nelle regioni del Nord (dal 2,5% al 6,4%). Si assiste a un processo di meridionalizzazione delle condizioni di vita anche nel Nord Italia. Tra il 2012 e il 2013 i consumi sono calati del 7,8%.
E la crisi è destinata a continuare. Nella disputa europea non ci schieriamo né con Merkel, né con Hollande e Renzi.
Solo mettendo in discussione l’austerità e il debito, illegittimamente creato dalle classi dominanti con la socializzazione delle perdite private, è possibile tutelare le politiche sociali e gli interessi del 99% della popolazione. Gli unici alleati che abbiamo in Europa sono i lavoratori e i giovani che pagano questa crisi. E non sono pochi.