Il 30 giugno Muhammad Morsy è diventato ufficialmente il primo presidente egiziano eletto dalla cacciata di Mubarak; il giorno precedente aveva tenuto il primo discorso in piazza Tahrir. Chi è Muhammad Morsy? Candidato dei Fratelli musulmani, laureato in ingegneria, è stato parlamentare dal 2000 al 2005 (eletto come indipendente, non essendo legale il movimento).
L’affluenza alle urne per il ballottaggio tenutosi il 16 e il 17 giugno scorso in realtà non è stata molto alta, il 51,8% dei voti. Morsy si è aggiudicato il primo posto con il 51,73% dei voti, contro il 48,27% di Shafiq, candidato dei militari. Considerato che il candidato dei Fratelli musulmani ha ottenuto il 25% dei consensi sugli aventi diritto e che in questa percentuale rientrano i voti di elettori di sinistra e parte dei gruppi rivoluzionari che lo hanno sostenuto nell’ottica del meno peggio, si può dire che non è certo stato un risultato straordinario per la più grande forza politica del paese.
Reale alternativa?
I Fratelli musulmani sia alle elezioni parlamentari che a quelle presidenziali hanno voluto presentarsi come reale alternativa al precedente regime e come difensori delle istanze della rivoluzione. Parte della sinistra egiziana considera questa formazione come l’ala destra del movimento rivoluzionario per la partecipazione di un suo settore (quello più giovane e riformista) alle manifestazioni e per il consenso che avrebbe in una parte del movimento operaio. è opportuno fare un po’ di chiarezza.
La base sociale della Fratellanza è principalmente la classe media, soprattutto dopo la ricostruzione del movimento a partire dagli anni settanta. I Fratelli hanno guadagnato consenso nei campus universitari e nei sindacati di categoria (soprattutto medici, avvocati, ingegneri, ecc.) sostenuti anche dal regime di Sadat per contrastare le forze di sinistra, fornendo servizi ad hoc e dando voce a una classe media sempre più impoverita. Oggi il partito Libertà e giustizia guarda con maggiore interesse addirittura alla classe imprenditoriale, perseguendo quella che può essere tranquillamente definita una politica neo-liberista. Se si legge il programma elettorale del partito, sebbene trovino spazio gli echi populisti delle parole d’ordine della rivoluzione, come il salario minimo a 1.200 lire egiziane, cifra da raggiungere in cinque anni (sic!), l’estensione della copertura sanitaria, diritto allo studio, maggiori tutele per i lavoratori, l’attenzione viene posta soprattutto allo sviluppo del libero mercato: potenziamento del settore industriale, perseguimento delle politiche di privatizzazione, apertura agli investimenti, razionalizzazione della produzione (che in Egitto, come altrove, significa taglio dei diritti e dei salari per i lavoratori e le classi più basse).
Il movimento si fa carico di tutelare gli interessi di quel settore della borghesia esclusa dalla spartizione del potere sotto il regime di Mubarak. Non si nega il fatto che possano trovare una base di consenso tra un settore di lavoratori, anche e soprattutto per una debolezza delle forze di sinistra. Questo, però, non fa di loro una forza interessata a cambiare l’assetto strutturale del paese o che guardi gli interessi della classe lavoratrice. In fondo questo programma elettorale, fatto salvo per gli appelli alla democrazia in esso contenuti, non contiene proposte politiche molto distanti da quelle del vecchio regime. Il partito Libertà e giustizia non persegue altro che la stessa politica che un qualsiasi partito liberista e conservatore attuerebbe in ogni dove.
Ora, dell’atteggiamento del movimento nei giorni della rivoluzione, si è già parlato in diversi articoli. Interessante è osservare l’atteggiamento di oggi, che si conferma sulla stessa linea. Dopo le timide proteste appena fu sciolto il parlamento (a maggioranza islamista) da parte della giunta militare, nulla è seguito. I Fratelli musulmani hanno mantenuto il piede in due scarpe, come oramai ci hanno abituato a vedere. Notizia di oggi (2 luglio) che i Fratelli musulmani hanno invitato i loro membri a interrompere il sit-in in piazza Tahrir. Lì infatti, dopo l’attesa dei risultati elettorali e il discorso di Morsy, si era formato un sit-in permanente di parte dei rivoluzionari che chiedeva il ripristino del parlamento e il ritiro degli emendamenti costituzionali. Secondo Mustafa el-Ghoneimy, membro del maktab al-irshad (organismo dirigente del movimento), il presidio andrebbe interrotto “temporaneamente e eccezionalmente” per permettere al nuovo presidente di ripristinare il parlamento e agire a pieni poteri. La sensazione è più quella di voler mettere dei paletti al movimento di piazza e di traghettare il paese verso una fase di “stabilità” (ovvero vogliono cercare di affossare la rivoluzione).
Appena vinte le elezioni parlamentari si erano affrettati a dare dei teppisti a chi continuava le proteste (duramente represse). Questo atteggiamento mostra come i Fratelli musulmani siano più che l’ala destra della rivoluzione, una forza controrivoluzionaria. È un peccato che le organizzazioni di sinistra si siano divise su questo punto. Invece di capitalizzare e costruire sul risultato ottenuto da Sabahi, il candidato “nasseriano” e punto di riferimento della sinistra, terzo con il 21,5% dei voti, un settore ha preferito gettare confusione nella base dando patenti “rivoluzionarie” a chi non ne ha il minimo diritto.
Parola d’ordine: Stabilità
La parola d’ordine del neo-presidente è stata quella della necessità di stabilizzare il paese. Si è poi proposto come presidente di tutti gli egiziani, auspicando un percorso di unità nazionale. Ma questo cosa significa? A noi queste parole paiono in qualche modo familiari, anche qui, in Italia, ci hanno chiesto di stare uniti e insieme uscire dalla crisi, questo ha portato a un attacco durissimo alle condizioni di vita di tutti noi. In Egitto dovrebbe essere diverso? Assolutamente no.
Fin dalle origini il movimento islamista ha promosso un’idea di società in cui tutte le classi sociali dovrebbero collaborare in perfetta armonia, negando ogni tipo di conflittualità. In sostanza il padrone deve trattare dignitosamente l’operaio che però deve guardarsi bene dal fare scioperi o chiedere miglioramenti della propria condizione. Sogno quanto mai impossibile da realizzarsi in un paese strangolato dalla crisi economica, con un tasso di povertà che supera abbondantemente il 40% della popolazione, e in un contesto internazionale che non dà spazi di manovra. In realtà, come si diceva, i Fratelli musulmani hanno già scelto da che parte stare.
I continui appelli a interrompere le manifestazioni e alla pace nazionale celano in realtà il desiderio di non scontrarsi con il Consiglio superiore delle forze armate (Csfa) e l’accettazione della sua presenza dietro le quinte del governo del paese. Sono anche un messaggio agli Stati Uniti, per tranquillizzarli e presentarsi come interlocutori credibili. Il governo di Washington ha subito definito la vittoria dei Fratelli musulmani come il trionfo della democrazia; lo stesso Israele si è augurato di poter continuare le relazioni amichevoli con l’Egitto. Tutto come prima insomma.
Nei giorni precedenti l’annuncio ufficiale dei risultati elettorali entrambi i contendenti si sono proclamati vincitori. è significativo il passo indietro del Csfa che si è guardato bene dal far precipitare il paese nel caos, dall’altra parte i Fratelli musulmani si sono mostrati più interessati a partecipare al potere che a perseguire una reale democrazia, non sostenendo di fatto le parole d’ordine della rivoluzione quali la fine del regime militare.
Dove va l’Egitto?
Dopo l’annuncio della vittoria di Morsy ci sono state scene di gioia in tutto l’Egitto. Manifestanti per le strade a cantare e a urlare il nome del nuovo presidente e slogan come: “Via la Giunta militare, noi siamo il popolo!” e “Rivoluzione fino alla vittoria, Rivoluzione, Rivoluzione!” Ma questa gioia durerà poco. Questa fase del processo rivoluzionario paleserà tutte le contraddizioni insite nel movimento dei Fratelli musulmani e il loro atteggiamento compromissorio coi militari.
Il tentativo di appianare ogni conflitto sociale fallirà miseramente. I lavoratori e i contadini poveri dell’Egitto non hanno fatto una rivoluzione per dare il potere ai Fratelli musulmani, ma per avere lavoro, terra, case, cibo, una vita degna di questo nome. Ora faranno l’esperienza dei Fratelli musulmani e torneranno a chiedere ciò per cui hanno lottato e sono morti. Solo una classe vincerà e i lavoratori possono ancora giocare la loro partita e vincere.