Una conferenza dei Giovani comunisti dovrebbe, almeno secondo logica, affrontare i problemi dell’intervento dei Giovani comunisti. Naturalmente siamo gli ultimi a proporre una logica “separatista” o a negare il legame fra l’intervento fra i giovani e la politica generale condotta dal Prc. E tuttavia, il limite più evidente del secondo documento è la sua sostanziale incapacità di tracciare un bilancio convincente dell’attività dei Gc in questi anni e di proporre una linea d’intervento praticabile, alternativa ovviamente a quella della “disobbedienza” proposta dalla direzione uscente.
Il testo, firmato dai compagni Madoglio, D’Alesio, Meloni e Sicilia, si compone di 11 capitoli. I primi sei, che coprono circa i tre quarti del testo, sono una faticosa parafrasi di concetti e idee già espressi nel congresso del Prc (che, vivaddio, non si è tenuto un secolo fa, ma è terminato da meno di due mesi), con alcune differenze significative sulle quali torneremo.
Il lettore che si incammini nella lettura verrà così doverosamente informato che il capitalismo è in una fase di crisi e che provoca guerre, povertà e barbarie; che l’unica reale alternativa è il socialismo internazionale; che tutt’oggi continua ad esistere l’imperialismo, così come pure esiste la lotta di classe; che in Palestina non può esservi pace fra oppressori ed oppressi; che in Argentina un grande movimento si è opposto al saccheggio del paese proponendo parole d’ordine molto avanzate; che in Francia la sinistra plurale ha perso le elezioni per l’impossibilità di accontentare contemporaneamente i padroni e i lavoratori; che il programma del Secondo forum mondiale di Porto Alegre non costituisce una reale alternativa al capitalismo; che è stato un grave errore collaborare col governo Prodi, soprattutto quando introduceva le privatizzazioni e la precarizzazione.
Finché si rimane su questo terreno, si procede tutto sommato senza scosse, a patto naturalmente di non pretendere di imparare qualcosa di nuovo. Inoltre, alcuni punti meriterebbero certo un approfondimento. Per esempio la posizione sulla Palestina: i compagni di Progetto comunista sono a favore della distruzione dello Stato d’Israele? Dal testo si direbbe di sì, anche se la formulazione è piuttosto confusa. Per sostituirlo con cosa? Con uno Stato arabo (all’interno di una federazione socialista mediorientale) che riconosca “i diritti nazionali alla minoranza ebraica”. Quali siano i confini di questi diritti, non è specificato: parlare la propria lingua? Praticare la propria religione? Forme di autogoverno locale? O diritto all’autodeterminazione? Un chiarimento sarebbe forse opportuno, considerata l’importanza vitale della questione palestinese nel nostro dibattito e negli avvenimenti internazionali.
Altre imprecisioni si possono toccare solo di sfuggita: la crisi argentina, con tutta la sua drammaticità, non è certo la “più eclatante catastrofe economica che la storia ricordi” (a meno di non cancellare la crisi del 1929 o la crisi tedesca del 1923, tanto per citarne alcune); così come la “totale predominanza di politiche neoliberiste” di cui si parla non è affatto detto che debba proseguire, considerato che oggi le grandi potenze si rivolgono piuttosto a politiche protezionistiche, a cominciare dagli Usa.
Si tratta tuttavia di dettagli che si potevano emendare o correggere nel dibattito. Già più significativo ci pare il riferimento al Lenin del Che fare?, che a dire degli estensori del documento, “già agli inizi del secolo scorso individuava nell’impossibilità che i lavoratori autonomamente si dotassero di un programma rivoluzionario, la ragione per costruire un partito di classe e comunista”. Questa posizione, che non a caso costituisce la citazione prediletta di tutte le sette pseudorivoluzionarie in ogni tempo e in ogni luogo, in realtà costituisce il punto debole del Che fare?, e venne successivamente corretta dallo stesso Lenin che ammise che si trattava di un eccesso polemico e non di una analisi scientifica. Tra l’altro, non era farina del sacco di Lenin, ma di Karl Kautsky, teorico della socialdemocrazia tedesca.
L’intento di Lenin nel Che fare? non era affatto quello di negare la coscienza socialista dei lavoratori, ma bensì di polemizzare con coloro i quali, i nome della “spontaneità” del movimento operaio intendevano in realtà subordinare i lavoratori alla borghesia liberale. I compagni estensori del documento, che oltre che leninisti si considerano anche trotskisti, possono trovare delle importanti osservazioni al riguardo nel libro di Trotskij Stalin.
Proseguendo nella lettura, apprendiamo che Bertinotti ha nuovamente fatto aperture di credito all’Ulivo, e che questo costituisce un grave errore. Di conseguenza, il capitolo 6 propone, fin già dal titolo, di “mutare l’orientamento tattico e strategico dei Gc e del Prc” In cosa deve consistere questo mutamento? Nella necessità di lottare per “un governo dei lavoratori” (molto bene!), per la conquista del potere politico alla classe operaia (benissimo!!), per porsi nuovamente il compito che si posero la Comune di Parigi e i bolscevichi nel 1917 (splendido!!!) e… per la ricostruzione della Quarta Internazionale (applausi scroscianti).
Ora, ci domandiamo: come mai questo punto della Quarta Internazionale viene inserito nel documento per la conferenza dei Gc mentre era stato (saggiamente, aggiungiamo noi) messo da parte nel testo della minoranza per il congresso del partito “adulto?” Rimaniamo in fiduciosa attesa che il dibattito della conferenza di chiarisca questo punto.
A parte la questione di metodo, tuttavia, dobbiamo rispondere nel merito. Naturalmente concordiamo col secondo documento laddove dice che la nuova internazionale rifondata “non può ripartire da zero”. Certamente costruiamo su una tradizione politica e teorica che individuiamo nel marxismo, nell’elaborazione del partito bolscevico dell’epoca di Lenin e dei primi quattro congressi dell’Internazionale comunista (1919-1922); analogamente siamo concordi nel ritenere che quella tradizione sia poi proseguita nella battaglia dei Trotskij, dell’opposizione di sinistra internazionale negli anni ’20 e ’30 e che quella battaglia sia stata sistematizzata nel Programma di transizione del 1938.
Tuttavia il mondo non si è fermato nel 1938; nonostante non sia mai stata un’organizzazione di massa, la Quarta Internazionale ha continuato ad esistere, e attraverso numerose scissioni ha dato luogo a diverse decine di strutture che in un modo o nell’altro si richiamavano al suo nome. Prese nel loro complesso, queste strutture si sono distinte tra le altre cose, per il loro settarismo, l’incapacità di radicarsi fra i lavoratori, per l’opportunismo in campo teorico e politico (avendo via via fatto concessioni a tutte le teorie “alla moda” nelle diverse epoche), per i metodi del tutto non bolscevichi, non marxisti e non proletari di affrontare la costruzione del partito. Chi vuole oggi porsi l’obiettivo di una nuova internazionale operaia di massa e rivoluzionaria deve necessariamente rompere con queste organizzazioni che in sessant’anni si sono dimostrate del tutto incapaci di contribuire in modo significativo al marxismo, sia sul terreno teorico che su quello politico e organizzativo.
Chiusa questa parentesi (sulla quale speriamo in futuro di poter sviluppare i necessari approfondimenti), torniamo al nostro lettore. Il quale nel capitolo 5 scopre alcune cose sorprendenti. Ad esempio, che secondo i compagni del secondo documento il governo Berlusconi“ha cercato, per tutta una prima fase, di muoversi con cautela preservando il metodo della concertazione sindacale” E per fortuna che si è mosso con cautela, considerato che nel giro di un anno è riuscito ad attaccare: studenti, docenti, lavoratori, sindacato, magistrati, immigrati, giornalisti! Se questa è la cautela, come si manifesterebbe un atteggiamento aggressivo? Forse i compagni pensano che sparare addosso ai manifestanti sia una forma di “cautela” e che invitare i sindacati a un tavolo dicendo “se vi arrendete senza condizioni possiamo essere buoni amici” sia una forma di concertazione.
La realtà è che il conflitto sociale in corso ha colto completamente di sorpresa questi compagni (così come del resto anche la maggioranza del partito). Basti confrontare il testo attuale con quello che presentarono all’assemblea nazionale di Foligno (fine dicembre) dove sulla prospettiva di uno scontro sindacale non c’era neppure una riga.
Giunti infine alla pagina 20, capitolo 7, finalmente leggiamo qualcosa sull’intervento di Gc nelle giovani generazioni. Questo tre capitoli mostrano chiaramente che il documento è stato scritto da compagni animati dalle migliori intenzioni ma sostanzialmente digiuni da qualsiasi intervento sistematico, sia nei Gc che nei movimenti.
Sulla scuola e l’università, la parola d’ordine centrale che agitano è la costruzione dei collettivi studenteschi. Come se in questi anni i Gc avessero fatto altro che questo. Collettivi, collettivi e ancora collettivi: fino a due anni fa non si poteva parlare d’altro, e se oggi non se ne parla più è solo perché il riflusso delle lotte nelle scuole ha portato i Gc ad abbandonare quel terreno per gettarsi a corpo morto nella “disobbedienza” e nei Social forum. L’idea che il nostro intervento universitario e studentesco sia stato frenato perché prevaleva il tentativo di “condizionare dall’interno l’operato di organizzazioni come l’Udu” è assolutamente fantastica. Se è vero che circa sei anni fa qualche compagno dei Gc ipotizzava un intervento (su basi opportuniste) nell’Uds o nell’Udu, questa posizione è stata rapidamente abbandonata. Il problema è in realtà ancora più drammatico: finché c’è stata nelle scuole e nelle università una certa mobilitazione, i Gc si sono limitati a seguirla; quando questa si è esaurita, hanno semplicemente voltato le spalle a questo lavoro.
Dire “bisogna rompere con Udu e Uds” non serve a molto: serve invece sviluppare un intervento e mostrare sul campo che è possibile costruire in questo settore decisivo. Ma questo non pare interessare gli estensori, che non a caso non indicano alcuna proposta programmatica per l’intervento studentesco.
Oltretutto, come si spiega nel quarto documento da noi sostenuto, le organizzazioni giovanili legate ai Ds e alla Cgil (Uds, Sinistra giovanile, Udu - seppure quest’ultima ancora in misura ridotta) sono in evidente ripresa di consensi, come si è visto nelle manifestazioni di questi mesi e come spieghiamo nel nostro documento. Il problema di “rompere” con queste organizzazioni “irriformabili” è tutto sommato facile da risolvere fino a che la rottura si deve esercitare nella testa dei quattro estensori del documento; un po’ più complicato è fare in modo che a rompere non siano solo i nostri letterati, ma anche le migliaia di giovani che potrebbero nel prossimo periodo, anche a causa degli errori dei Gc, orientarsi a queste organizzazioni cercando di usarle come un veicolo di mobilitazione.
Altrettanto vaga (e anche scorretta) è la parte sul precariato. Secondo i compagni, i precari sono semplicemente la preda elettorale della destra. Il fatto che in molti settori i lavoratori precari si stiano rapidamente avvicinando al sindacato, che siano stati presenti massicciamente nelle piazze del 23 marzo e del 16 aprile, le esperienze significative di organizzazione sindacale degli interinali e di altri settori di precari, tutto questo passa sotto silenzio. In realtà tutta questa parte del documento è permeata da una profonda sfiducia nelle possibilità di mobilitare e organizzare i giovani, tanto studenti quando disoccupati. Ci si ritiene soddisfatti di denunciare gli errori della maggioranza. Del resto, questo è un dibattito che nella sinistra del Prc non è certo cominciato oggi: da sempre i compagni che oggi si riconoscono nel secondo documento hanno teorizzato che il compito della sinistra del Prc non è quello di far seguire i fatti alle parole, ma è solo di fare proposte per vedersele respingere dalla maggioranza.
Tanto altisonante è la critica generale alle posizioni di maggioranza, tanto timida è la critica sul terreno organizzativo. Dell’assoluta mancanza di democrazia nei Gc, della gestione antidemocratica del coordinamento, del sistema delle cooptazioni, dei rinvii innumerevoli della conferenza non si parla. Non se ne parla per l’ottima ragione che i compagni D’Alesio e Madoglio sono stati consenzienti a questo andazzo per tutti questi anni. Le proposte organizzative si limitano alla richiesta di maggiori finanziamenti per i Gc e di maggiore spazio sul quotidiano del partito. Duri e intransigenti nelle parole, morbidi e accomodanti nei fatti, ad esempio nel definire “un importante passo avanti” il campeggio nazionale dei Gc: un’iniziativa che, come ben sa chiunque vi abbia partecipato, vede una gestione dei dibattiti e un livello di democrazia e strutturazione peggiori di quelli del più scalcagnato dei social forum e del più movimentista dei centri sociali.
I problemi più scottanti del dibattito rimangono ai margini del documento; la critica alla “disobbedienza”, sia essa “civile” o “sociale”, è vaga e sfumata: per l’ottimo motivo che i compagni di Progetto comunista hanno essi stessi fatto ampie concessioni in passato a queste concezioni; l’analisi dei Social forum e dello sviluppo del movimento dimostra a sua volta una completa mancanza di conoscenza dello stato reale delle cose, la proposta di strutturazione democratica dei Sf aveva un senso mesi fa, nella fase ascendente del movimento, ma è del tutto superata oggi, quando la maggior parte dei Sf, soprattutto nelle città più importanti e a livello nazionale si sono ormai cristallizzati in intergruppi e vedono una rapida involuzione politica, organizzativa e di influenza mentre il terreno della mobilitazione si sposta sempre più sullo scontro sociale.
Con queste brevi note non abbiamo certo esaurito l’argomento, e anzi invitiamo tutti i compagni, giovani o meno, a leggere con attenzione tutti i documenti della conferenza dei Giovani comunisti, poiché esprimono a nostro avviso in modo molto evidente le caratteristiche delle diverse aree che li hanno espressi. Per contribuire a questa definizione politica e organizzativa, tuttavia, il testo di Progetto comunista andava a nostro avviso titolato in modo diverso: non “Per l’egemonia del progetto rivoluzionario tra i Giovani”, ma “Bentornati compagni!”. Perché in effetti, giunti al termine della lettura, la vera domanda che rimane senza risposta è: ma voi, compagni D’Alesio Madoglio, Meloni e Sicilia, in tutti questi anni dove diavolo siete stati?!?
28/5/2002