Quote alle donne? No grazie!
Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Falcemartello n° 154, febbraio 2002.
Il partito è attraversato da un dibattito piuttosto acceso attorno al voto del Cpn del 30/11 e del 16/12 sull’emendamento antidiscriminatorio che porterebbe la presenza delle donne nelle delegazioni e negli organismi dirigenti obbligatoriamente al 40%. Si dice che non si sta parlando di quote, bensì di norme antidiscriminatorie. Francamente, considerando la natura del dibattito, mi è difficile capire la differenza.
Apparirò assai impopolare, ma a me pare che la discriminazione stia proprio nell’accettare l’esistenza delle quote. Le quote sono offensive e umilianti perché, come già alcuni compagni e compagne hanno detto, promuovono le donne non per le loro capacità, ma per il loro sesso e non si fa un buon servizio alle donne proporre loro questo percorso di emancipazione. Ma c’è un’altra ragione, ancora più importante, per avversare le quote: dietro le quote si nasconde sempre la moderazione politica sia nella difesa dei diritti delle donne che in generale degli oppressi. Non incuriosisce nessuno il fatto che tutti i partiti socialdemocratici (e anche molti di destra) e le organizzazioni sindacali contemplano nei loro statuti la presenza in quote delle donne? Non c’è dubbio che le masse lavoratrici, e non, di sesso femminile abbiano tirato un sospiro di sollievo per questa importante conquista, soprattutto poi quando queste organizzazioni si sono rese responsabili dei tagli allo stato sociale e della precarizzazione del lavoro, garantendo comunque a poche elette (da chi?) un bel posticino nei loro organismi dirigenti e nelle istituzioni!
Mi pare evidente che, ovunque sia contemplata la quota alle donne, essa sia una foglia di fico per nascondere un autentico disinteresse per la causa delle donne e in particolare delle lavoratrici, come ci dimostra anche la lettera inviata dalla presidente della commissione nazionale per le pari opportunità Marina Mauro Piazza e pubblicata su Libera-zione il 30/11/01, la quale, indignata, ci accusa (dopo il voto di novembre che rifiutava l’aumento della percentuale) di essere sideralmente lontani dall’Europa, che secondo la signora Mauro Piazza promuoverebbe le pari opportunità. La signora mostra una notevole "faccia di bronzo" e ammetto di essere stata imbarazzata dalla risposta di Bertinotti, tutta sulla difensiva, che invece avrebbe dovuto attaccare l’ipocrisia dei discorsi altisonanti dei Consigli europei, quando poi nella sostanza l’Ue ha varato il lavoro notturno per le donne (peggiorando la legislazione degli stati) ha promosso, in nome dei parametri di Maastricht, la flessibilità del mercato del lavoro, la privatizzazione dei servizi e di quel poco che ci resta di stato sociale, il che forse vale la pena ricordarlo, viene pagato prima di tutto dalla donne.
Ma a sostegno delle quote si dice che l’agire politico ha un carattere sessuato e che dunque solo la presenza fisica delle donne può garantire la difesa degli interessi di genere, che non devono e non possono essere delegati all’altro sesso. La tesi, mi pare di capire, sia più o meno questa: agli uomini appartiene storicamente la sfera pubblica, la gestione del potere in qualsiasi ambito e alle donne la sfera privata, la cura della famiglia, dei sentimenti e che dunque con le quote si obbliga le donne ad entrare nella sfera pubblica e si obbliga gli uomini ad accettarle e che questa sia la base di partenza per affrontare l’oppressione di genere.
Posto che la questione delle quote non ha mai coinvolto nella storia l’interesse delle masse femminili e forse già solo questo dovrebbe suscitare il dubbio sul suo effettivo carattere progressista, ma l’aspetto centrale è che questa analisi è superficiale in quanto si limita a descrivere l’esistente senza indagare quali siano i meccanismi che provocano questa suddivisione dei ruoli e dunque senza porsi realmente il problema di scardinare il sistema.
Nell’analizzare la storia non ci si può limitare ad usare il criterio sessuale. Ci sono forze che a secondo degli interessi che esprimono giocano nella storia un ruolo più o meno progressista. Si cita sempre l’esempio di Olympia de Gouges a titolo di antesignana del movimento femminista e vittima del potere maschile seppur rivoluzionario e si dimentica sempre di aggiungere che la ragione per cui fu ghigliottinata era perché aveva fatto un appello contro l’esecuzione del re. Sostenendo il re la girondina de Gouges, seppure si fosse mostrata paladina dei diritti delle donne, nella sostanza tradisce il popolo e soprattutto quelle sancoulotte che a centinaia di migliaia erano diventate protagoniste della scena politica nel processo rivoluzionario.
Siamo comunisti e forse la storia del pensiero comunista dovrebbe aiutarci a capire la realtà. Domando quindi se qualcuno intende superata l’analisi di Engels sull’origine della famiglia e dell’oppressione della donna. A me pare di no. Non è qui la sede per dissertare sull’analisi di Engels, tuttavia sarebbe puerile non riconoscere che il marxismo (non lo stalinismo) ha sempre chiarito come la donna lavoratrice sia vittima di una doppia oppressione (di classe e di genere) e che nella sua storia millenaria di oppressione di genere c’è un passaggio decisivo che pone su basi enormemente più avanzate la sua lotta per la liberazione dalla sua specifica oppressione.
Questo passaggio è la nascita e lo sviluppo del capitalismo perché nonostante l’ideologia borghese e patriarcale vuole la donna relegata alla sfera privata, al ruolo dell’angelo del focolare, il capitale è costretto a trascinarla nella sfera pubblica, ovvero le offre un’arena sociale (non più la casa, ma la fabbrica, l’ufficio, il call center) per lottare con altri e altre per i suoi diritti di sfruttata.
Inoltre a differenza del passato pre-capitalista l’ideologia patriarcale viene diffusa a piene mani perché l’oppressione di genere è funzionale ed essenziale al mantenimento del sistema capitalista, perché le donne rappresentano la razza minore da sottopagare. In questo conflitto dunque le donne della borghesia, seppur anch’esse vittime dell’oppressione di genere, diventano la retroguardia se non, come è stato il caso della de Gouges (e si possono citare centinaia di esempi analoghi), le campionesse della reazione.
La battaglia contro l’esaltazione della famiglia, per la socializzazione del lavoro domestico attraverso uno stato sociale sempre più diffuso sono dunque battaglie contro il capitalismo, e non ci saranno fatte concessioni dal capitale se non ci renderemo promotrici di una campagna anticapitalista, unico strumento per raccogliere quelle forze (di lavoratori e lavoratrici) che ci permetteranno di ottenere dei risultati.
Ha senso dunque parlare di lotta contro l’oppressione di genere solo se si inserisce in un quadro più generale di rivoluzione per superare il sistema capitalista che è il nemico numero uno delle donne. Limitarsi a parlare del carattere sessuato dell’agire politico perché relativo alla storica divisione dei ruoli ricaccia indietro la lotta per l’emancipazione in un pericoloso interclassismo, in una ipotetica e improbabile rivoluzione culturale, da cui hanno da guadagnare solo le classi benestanti.
Mi pare dunque che anche per noi la questione delle quote serva a nascondere dietro un certo radicalismo verbale, una proposta politica alquanto moderata che toglie dignità all’argomento di cui stiamo parlando.
Solo alla luce di questa analisi posso leggere il fallimento del nostro partito fra le donne (sono solo il 17% degli iscritti).
Una volta si diceva "il privato è pubblico", ma le donne sono disposte a mettere in piazza il loro sfruttamento privato solo se siamo in grado di offrire loro un canale di lotta per cambiare la loro situazione, altrimenti sarebbe solo autolesionismo. Per quanto non esista in generale una coscienza delle ragioni della propria oppressione e dunque un coscienza rivoluzionaria, le donne, proprio perché sono la parte più sfruttata della nostra classe, possono esprimere una poderosa spinta radicale alla rottura del sistema che le opprime, ma questa carica non si esprime nel nostro partito perché esso non offre risposte.
Nel nostro partito invece, purtroppo e puntualmente, la questione femminile esce dal circolo chiuso del forum delle donne solo per rivendicare le quote di poltrone nei congressi o nelle liste elettorali.
Lidia Cirillo e la "lettura" della storia
Il 6 febbraio scorso Liberazione ha pubblicato nella tribuna congressuale un contributo/risposta di Lidia Cirillo al mio intervento che qui sopra è riportato integralmente. I seminari di formazioni sul tema sono utili, ma mi domando quale storia si vuole raccontare. Non posso negare lo stupore e la profonda amarezza per la falsificazione storica operata dalla Cirillo. Mai, in nessuna tesi, in nessuna risoluzione, in nessun documento i bolscevichi che hanno preso il potere in Russia nel ’17 hanno sostenuto le quote, o una qualsisasi forma statutaria che prevedesse un percorso preferenziale per alcun settore particolare della classe operaia, tanto meno delle donne. Ciò non significa che non fossero i più arditi paladini non solo della difesa dei diritti delle donne, ma della lotta per trascinare le donne nell’arena politica e nel partito. Lenin, in una delle sue lettere da lontano nel marzo del ’17, ammoniva i bolscevichi sui loro compiti e sulla necessità di un’autentica milizia popolare sostenendo che se essa non avesse avuto la più ampia partecipazione delle donne, non sarebbe stata né democratica, né popolare, né tantomeno rivoluzionaria. Vorrei chiarire a tutti, forse pare che ce ne sia bisogno, che questo è il metodo dei comunisti e che nulla ha a che vedere con le quote.
Questa vuole essere una breve nota. Seguirà sul prossimo numero un articolo più esaustivo su questi temi e altri toccati dalla Cirillo.