Guerra, occupazione, resistenza
La guerra dei “sei giorni” (5-10 giugno 1967) rappresenta un punto di svolta fondamentale nella storia del Medio oriente. La vittoria fulminante dell’aviazione e dell’esercito israeliano e la disfatta rovinosa delle forze armate egiziane, giordane e siriane determinano l’ascesa d’Israele a livello di potenza militare regionale di primo piano. Questo fallimento avrà conseguenze politiche rilevanti sullo sviluppo successivo della lotta di liberazione del popolo palestinese. A differenza della Nakba (“la Catastrofe”) del 1948, che aveva avuto l’effetto di prostrare per quasi un ventennio la lotta del popolo palestinese, la sconfitta del giugno 1967 avvenne nel contesto di una generale radicalizzazione delle masse in tutto il mondo arabo.
Grazie a questa vittoria, Israele diventa il perno fondamentale della politica dell’imperialismo statunitense nel medio oriente, come testimonia l’incremento esponenziale dei finanziamenti Usa, in prevalenza aiuti militari: 120 milioni di dollari nel 1967, 3,2 miliardi nel 1971, 9,9 miliardi nel 1974 e 13,9 miliardi nel 1979 (valori espressi in dollari costanti del 2007).
La vittoria israeliana, al contrario di quanto si potrebbe pensare, non scaturì fondamentalmente dalla supremazia tecnologica e militare dell’esercito israeliano (Idf). Sulla carta le forze israeliane non erano preponderanti né per numero, né per armamenti. La chiave della vittoria d’Israele deve essere individuata soprattutto nella capacità della classe dominante israeliana di raccogliere e mobilitare attorno a sé l’intera popolazione nello sforzo bellico, contando sul fatto che per la schiacciante maggioranza Israele era e resta l’unico paese in cui poter vivere.
Israele viene forgiato dalla classe dirigente sionista come una società in stato di guerra permanente, costantemente minacciata da nazioni e popoli ostili.
Nonostante il notevole flusso migratorio, con il passare degli anni, una parte sempre più importante di israeliani era nata all’interno di Israele (27,7% nel 1949, 35,1% nel 1958, 44% nel 1968, 57% nel 1981) e anche gli immigrati di prima generazione in massima parte avevano reciso ogni legame con i rispettivi paesi di provenienza. Non avevano nulla a cui tornare. La classe dominante israeliana quindi ha sempre avuto buon gioco a presentare ogni guerra come una questione di vita o di morte per la maggioranza della popolazione del neonato Stato israeliano.
Nascita dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp)
La “soluzione” su basi capitaliste della questione ebraica aveva generato la moderna questione palestinese. Alle centinaia di migliaia di profughi palestinesi del 1948 i regimi arabi non seppero offrire nulla di meglio che parole, campi profughi e povertà.
Ciononostante, i regimi arabi e in particolar modo l’Egitto di Nasser credettero di poter sfruttare la tragedia palestinese per accreditarsi come regimi antimperialisti e proiettare la rabbia dei propri popoli su obiettivi esterni.
Fu così che per decisione del vertice dei capi di stato arabi, il 28 maggio del 1964 nacque l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Nella sua Carta Costitutiva l’Olp si impegnava a lottare per la “liberazione di tutta la Palestina”, ritenuta un dovere per ogni Stato arabo, ma allo stesso tempo i governi reazionari si cautelavano imponendo all’Olp la clausola di “non ingerenza negli affari interni di alcuno Stato arabo”.
La direzione dell’Olp fu affidata ad Ahmed Shuqeyri, un avventuriero che screditò la causa palestinese con una serie di proclami sanguinari e controproducenti quanto inconsistenti come la dichiarazione di voler “buttare a mare gli israeliani”.
Crisi sul confine siriano
La Resistenza contro Israele riguardava piccoli gruppi “irregolari” come Fatah, non inquadrati nell’Olp, principalmente dediti ad operazioni di “disturbo” del nuovo Stato sionista sulla base dell’infiltrazione di commandos in Israele per lo più dal Libano e dalla Giordania.
Gli attacchi andavano però intensificandosi nel corso del 1966 e del 1967. Le rappresaglie israeliane indirizzate contro obiettivi militari siriani e giordani e villaggi palestinesi si facevano sempre più violente. L’ascesa al potere in Siria della sinistra baathista convinse il governo israeliano che gli attacchi fossero orchestrati dal governo siriano, in rotta di collisione con Tel Aviv per la decisione israeliana di avviare lo sfruttamento delle acque del Giordano.
La crisi precipita in seguito ad un attacco alla Siria il 7 aprile 1967. L’aviazione israeliana appoggiata da carri armati ed artiglieria distrugge 17 postazioni di confine e umilia la Siria in una battaglia aerea sui cieli di Damasco nella quale vengono abbattuti sei Mig.
La tensione al confine cresce con altri 14 incidenti nelle tre settimane successive, tanto che il primo ministro israeliano Eshkol dichiara l’11 maggio che “dovremo adottare misure non meno drastiche di quelle del 7 aprile”. Il giorno seguente il direttore del servizio segreto militare, generale Aharon Yariv dichiara che “Israele effettuerebbe un intervento militare limitato volto a rovesciare il regime militare di Damasco, se i terroristi siriani continueranno a compiere sabotaggi in Israele”.
Egitto e Giordania trascinate nel conflitto
Le voci di un imminente attacco in grande scala contro la Siria si moltiplicano spingendo Damasco a chiedere l’intervento del presidente egiziano Nasser a scopo deterrente. La minaccia di guerra alla Siria provoca una reazione di massa in tutto il mondo arabo, tanto che persino re Hussein di Giordania si dichiara pronto a scendere in guerra a fianco di Siria ed Egitto.
Nasser risponde alla chiamata siriana schierando in assetto difensivo sette divisioni (100mila soldati), 900 carri armati e 700 pezzi d’artiglieria nel Sinai, praticamente tutti gli effettivi operativi dell’esercito egiziano. Il Sinai era controllato dalla forza d’interposizione Onu (Unef) in base all’accordo tra Egitto e Israele del 1956 al termine della guerra di Suez. Nasser chiede all’Unef di ritirarsi (cosa che a sorpresa viene immediatamente eseguita dall’Unef il 20-21 maggio) e minaccia di chiudere alle navi israeliane l’accesso al golfo di Eilat, via di approvvigionamento strategica per Israele. Il 23 maggio la minaccia viene attuata.
Nelle intenzioni egiziane la levata di scudi doveva essere un bluff mirato a provocare un intervento delle potenze occidentali, bluff appunto non sostenuto da seri preparativi di guerra. Mentre Nasser annuncia che la guerra contro Israele ha come fine ultimo la liberazione della Palestina, la situazione delle truppe egiziane è seriamente compromessa da una serie di errori del capo dell’esercito Amir. Il comandante operativo della missione nel Sinai viene sostituito a pochi giorni dall’inizio delle ostilità, i piani di difesa sono approssimativi, la protezione radar delle basi insufficiente, ecc.
L’impreparazione generale viene mascherata da proclami per galvanizzare le masse. Il 23 maggio Radio Damasco diffonde il proclama: “Masse arabe, questo è il vostro giorno. Accorrete al campo di battaglia… Fate loro sapere che impiccheremo l’ultimo soldato imperialista con le viscere dell’ultimo sionista”. Il primo ministro iracheno – che aveva inviato truppe corrazzate e aerei in appoggio all’esercito giordano – si unì al coro alludendo ad “un appuntamento a Tel Aviv con i nostri fratelli arabi”, mentre il presidente dell’Olp Shuqeyri immancabilmente prometteva che “Tra gli ebrei non ci saranno sopravvissuti”.
I preparativi israeliani
Questa campagna isterica ebbe l’unico effetto di far schierare l’intera popolazione israeliana a sostegno del proprio esercito. Il quotidiano a maggior diffusione, Haaretz, pubblica un’analisi del discorso in cui Hitler annunciava lo sterminio degli ebrei nel 1939 equiparandolo al discorso del 26 maggio di Nasser.
Il primo ministro Eshkol viene dichiarato inadatto a guidare il paese in guerra a causa della sua titubanza a lanciare l’offensiva. La campagna culmina in un vero e proprio golpe bianco sostenuto dai servizi di sicurezza che impongono come ministro della difesa Moshe Dayan, il comandante vittorioso della guerra di Suez.
I vertici militari israeliani nel frattempo si sono convinti ad utilizzare le minacce egiziane come pretesto per sferrare un colpo decisivo alla potenza militare dei vicini.
Alle sette del mattino del 5 giugno, sciolta la riserva statunitense, Dayan dà il via all’attacco. L’aviazione israeliana si lancia fulmineamente contro le basi aeree egiziane, siriane e giordane con tutte le sue forze, anche a costo di lasciare sguarnito lo spazio aereo israeliano, distruggendo in poche ore gli aeroporti e 304 dei 419 aerei da combattimento egiziani (perdendone solo 15) senza permettere loro la benché minima reazione.
Immediatamente dopo l’attacco aereo l’Idf penetra nel Sinai in tre punti provocando la rotta disordinata delle truppe egiziane, impreparate a far fronte a questo tipo di
attacco, confuse da ordini contrastanti provenienti dal comando centrale, che prima ordina di ripiegare abbandonando le armi pesanti e poi annulla l’ordine. Tra i soldati e gli ufficiali egiziani si diffonde il timore di restare imprigionati nella penisola del Sinai senza vie di fuga, privi di copertura aerea. In 36 ore il Sinai è saldamente nelle mani dell’Idf.
Poche ore dopo il primo attacco aereo un’analoga operazione viene portata a termine con esiti simili contro le più deboli forze aeree giordane e siriane, che avevano cominciato nel frattempo ad attaccare postazioni israeliane, portando il conflitto in Cisgiordania, a Gaza e nel Golan siriano. Il 7 giugno l’Idf prende Gaza e Gerusalemme, completando l’occupazione della Cisgiordania. Il 9 giugno, per anticipare la dichiarazione del cessate il fuoco da parte dell’Onu, Dayan ordina di prendere le alture del Golan che nel frattempo sono state abbandonate dall’esercito siriano in rotta.
Bilancio della guerra
All’alba del 10 giugno di fronte agli occhi sgomenti del mondo arabo, Israele non solo aveva unificato sotto il suo dominio l’intera Palestina del Mandato britannico ma aveva occupato il Golan e il Sinai, infliggendo alle nazioni arabe una disfatta epocale.
Il totale delle perdite israeliane è inferiore alle mille unità. Sul fronte principale, quello del Sinai, l’esercito israeliano conta 338 perdite a fronte di dieci-quindicimila soldati egiziani uccisi. Sul fronte giordano 300 israeliani e 800 soldati giordani uccisi. 141 israeliani e 500 soldati siriani persero la vita sul fronte siriano.
Il prezzo pagato dai palestinesi fu particolarmente caro. La tattica già sperimentata nel 1948 dalle forze israeliane di spingere all’esodo la popolazione palestinese distruggendo interi villaggi venne praticata da un settore significativo dei comandanti dell’Idf in numerosi villaggi, a macchia di leopardo in tutti i territori occupati, in particolare nella provincia di Qalquilya e Tulkarem e nella città vecchia di Gerusalemme (con il tacito consenso di Dayan), provocando la fuga di 250.000 palestinesi dalla Cisgiordania (un quarto della popolazione). 70.000 in fuga da Gaza entrarono in Egitto, mentre altri 80.000 fuggirono dal Golan siriano.
Rinascita della Resistenza palestinese
La guerra dei “sei giorni” non ebbe sui palestinesi dell’esilio l’effetto demoralizzante della Nakba; questa volta fu la rabbia a prevalere sulla demoralizzazione. La sconfitta araba sortì l’effetto di spazzare via ogni residua illusione che un intervento esterno avrebbe “messo le cose a posto”, creando, tra i palestinesi ritrovatisi di colpo sotto la dominazione diretta israeliana e tra tutti quelli che affollavano i campi profughi in Giordania, Siria e Libano, un terreno fertile per le idee socialiste.
Da questo ambiente trasse impulso la Resistenza palestinese (in particolare Fatah e il neonato Fronte Popolare di Liberazione della Palestina) che conquistò ben presto una base di massa nei campi profughi.
Il 21 marzo 1968 l’esercito israeliano, per spazzare via definitivamente la guerriglia palestinese, decise di attaccare il quartier generale palestinese nel villaggio di Karameh in Giordania. Arafat decise di tenere le posizioni accettando lo scontro frontale. La resistenza, inattesa dagli israeliani, portò ad un’intera giornata di scontri alla fine dei quali l’Idf dovette ritirarsi sconfitto, con 28 morti, 69 feriti e il danneggiamento di una trentina di carri armati. Oltre un centinaio di guerriglieri furono uccisi, ma questo episodio dimostrò che la resistenza palestinese era riuscita dove avevano sempre fallito gli eserciti degli stati arabi: infliggere all’esercito israeliano per la prima volta una sconfitta. Lo sviluppo impetuoso della Resistenza proiettò tra il 1969 e il 1970 Fatah e Arafat ai vertici di un’Olp paralizzata dalla crisi.
I regimi arabi contro le masse palestinesi
I profughi palestinesi della nakba erano stati accolti dai paesi ospitanti con malcelato fastidio. Relegati alla miseria dei campi profughi, la cui popolazione era in continua crescita, i palestinesi furono usati dalla borghesia dei vari paesi come forza lavoro a basso prezzo, sottoponendoli a condizioni umilianti. L’afflusso dei nuovi profughi del 1967 non fece che inasprire queste condizioni, ma portò anche una nuova radicalizzazione.
L’ascesa della Resistenza alla fine degli anni ’60 restituì ai palestinesi il proprio orgoglio, trasformando i campi in veri e propri santuari delle organizzazioni guerrigliere.
Le incursioni guerrigliere e i rapporti con la rete clandestina di collegamento con i palestinesi “dell’interno” si dipanavano a partire dai campi profughi, esponendo i campi stessi ed i paesi ospitanti alle violente rappresaglie israeliane.
Le classi dominanti arabe che da un lato volevano usare la “carta palestinese” per i propri fini, dall’altro non erano disposte ad accettare di pagarne le conseguenze. Questa contraddizione generò un costante attrito tra le formazioni guerrigliere ed i governi dei paesi ospitanti. Una crescente parte dei palestinesi, inoltre, concepiva la rivoluzione palestinese come parte di una più generale rivoluzione araba a carattere decisamente socialista.
Queste posizioni, forti del prestigio crescente della Resistenza palestinese, cominciarono ad attecchire soprattutto fra le masse libanesi e giordane, preparando grandi convulsioni rivoluzionarie che hanno scosso il medio oriente per tutti gli anni settanta e i primi anni ‘80. I regimi reazionari arabi hanno immancabilmente fatto ricorso ad ogni mezzo repressivo per impedire che ciò avvenisse. Dal massacro del “Settembre nero” per mano della monarchia giordana, ai massacri dei falangisti nei campi profughi durante la guerra civile libanese.
La colonizzazione dei Territori
La vittoria israeliana pose problemi inediti. L’occupazione del Golan, della Cisgiordania e di Gaza non prevista nei piani iniziali del governo israeliano (con la notevole eccezione di Dayan che fin dal principio aveva manovrato per perseguire questo fine) pose il problema di come gestire la presenza di oltre un milione di palestinesi che non avevano abbandonato le loro terre.
Era necessario definire lo status degli abitanti dei territori occupati, che dunque si trovavano dentro i nuovi confini dello Stato israeliano.
La guerra aveva suscitato l’attesa messianica di un settore della popolazione ebraica di aver a portata di mano finalmente la possibilità di creare la Terra d’Israele. Numerose organizzazioni si fecero portavoce di questa radicalizzazione sciovinista e diedero immediatamente impulso alla colonizzazione dei nuovi territori, a partire da Gerusalemme, con l’appoggio tacito delle autorità e del governo israeliano.
Nei primi dieci anni le colonie erano limitate a piccoli insediamenti in appoggio agli avamposti militari. Il numero totale non superava i 7.000 coloni. Con l’ascesa al potere della destra sionista del Likud nel 1977, la politica di colonizzazione cambiò radicalmente con l’obiettivo di “rovesciare l’equilibrio demografico dei Territori” (Sharon) per rendere irreversibile l’occupazione. Nell’arco dei dieci anni successivi erano state costruite su terra palestinese 18.000 abitazioni in 139 insediamenti per un totale di 80.000 coloni, con un reticolo di strade speciali per separare i coloni dagli arabi al prezzo di rendere quasi impossibile la libera circolazione della maggioranza. Oggi i coloni in Cisgiordania e a Gerusalemme Est sono più di 450.000, una cifra doppia di quella di dieci anni fa.
I Territori divennero fonti di risorse (come l’acqua del Golan e della Cisgiordania, che soddisfa l’80% del fabbisogno idrico israeliano) e allo stesso tempo mercato per le merci e riserva di manodopera a buon mercato per il capitalismo israeliano.
Consapevole del rischio rappresentato da una crescita del potere economico della popolazione palestinese, l’economia dei Territori doveva essere mantenuta nella più assoluta dipendenza: nel 1970 l’82% delle importazioni era già di provenienza israeliana, il 91% nel 1987.
Con queste misure il governo israeliano ha strangolato l’economia dei Territori, prevalentemente legata all’agricoltura, limitando il settore industriale quasi esclusivamente all’artigianato.
Per molti l’unica possibilità era ingrossare le fila dei 120.000 palestinesi che andavano quotidianamente a lavorare sulla costa israeliana dalla Cisgiordania e da Gaza (il 33% dei lavoratori della Cisgiordania e il 50% di quelli di Gaza).
Ulteriore odiosa misura repressiva divenne la detenzione amministrativa, prevista dai Regolamenti d’emergenza del Mandato britannico, applicati da Israele nei Territori in modo del tutto arbitrario dato che non richiedeva per essere eseguita alcuna imputazione o processo.
Nonostante tutte le limitazioni imposte dall’occupazione israeliana, inevitabilmente una nuova classe lavoratrice palestinese veniva a formarsi e, nella misura in cui il capitalismo israeliano traeva profitto dalla sua forza-lavoro, essa avrebbe acquisito coscienza della propria forza.
Questo nuovo proletariato concentrato nei territori occupati avrebbe ben presto conquistato la ribalta con l’esplosione della prima Intifada, scuotendo – come mai prima era avvenuto – il dominio israeliano nel ventesimo anniversario dell’occupazione.
04/07/2007