Pochi giorni prima dell’arrivo dell’inviato speciale del governo americano Anthony Zinni Israele ha scatenato l’offensiva militare più imponente da 20 anni a questa parte (dopo l’invasione del Libano) contro l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) di Arafat.
Il piano per la soluzione della questione palestinese in cambio del riconoscimento di Israele da parte della Lega araba presentato dal principe saudita, benché rafforzato dalla risoluzione approvata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu nei giorni scorsi, nasce di fatto cadavere.
L’obiettivo di Sharon era porre l’amministrazione Bush di fronte al fatto compiuto, ma la manovra rischia di ritorcersi come un boomerang, giacché appare sempre più evidente anche a importanti settori della classe dominante israeliana l’impossibilità di sedare la rivolta palestinese ricorrendo esclusivamente a mezzi militari.
L’arresto da parte della polizia palestinese dei militanti del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp) ritenuti responsabili dell’uccisione del ministro del turismo israeliano Zeevi, leader del partito fascista "Madre Patria", non ha fermato l’attacco. La liberazione di Arafat dagli arresti domiciliari suona come una beffa atroce per i palestinesi che si trovano a fronteggiare l’occupazione da parte di centinaia di carri armati della capitale Ramallah e dei principali centri dell’Anp.
Arafat ha fatto quanto in suo potere negli ultimi mesi per reprimere la ribellione delle masse palestinesi. La messa al bando della seconda organizzazione dell’Olp, il Fplp, e l’arresto di numerosi suoi dirigenti ha creato divisioni fratricide nel campo palestinese. Le manifestazioni filo-talebane dei mesi scorsi sono state duramente represse dalla polizia palestinese che ha lasciato diversi manifestanti sul terreno e l’Anp ha richiesto ed ottenuto da Israele di equipaggiare alcuni reparti della polizia con armamenti anti-sommossa.
Arafat porta in pieno tutta la responsabilità di questa politica insensata di collaborazione con l’imperialismo israeliano che ha indebolito il fronte di lotta palestinese.
L’esercito israeliano, avuta mano libera, si sta distinguendo per la sua particolare brutalità. Centinaia di palestinesi sono stati uccisi in pochi giorni, migliaia internati in campi di concentramento. Il rastrellamento della popolazione maschile fra i 15 e i 40 anni a cominciare dai campi profughi dove i militari israeliani hanno incontrato una forte resistenza, le torture, l’umiliante pratica di marchiare i prigionieri unite alle sistematiche rappresaglie attuate nell’ultimo anno sulla popolazione inerme, alla demolizione di centinaia di case, alla distruzione delle coltivazioni, alla politica di "eliminazioni mirate" di dirigenti palestinesi e alla distruzione delle infrastrutture dell’Anp, rendono se possibile ancora più odiosa l’occupazione israeliana.
L’adesione di migliaia di persone all’appello a resistere ha fatto sì che nonostante l’enorme sproporzione delle forze in campo le perdite per gli israeliani siano state particolarmente alte.
Il recente episodio dell’assassinio del reporter Raffaele Ciriello e i numerosi ferimenti, frutto dell’aggressione a giornalisti, cameraman e fotografi da parte dei soldati israeliani, dimostrano che il nervosismo sta dilagando fra i militari.
Quello che avrebbe potuto essere un trionfo per i cosiddetti falchi israeliani rischia di trasformarsi in una vera e propria crisi della politica militare nei confronti dell’Anp. Sharon esita. Si è detto, a ragione, che se il confronto fosse esclusivamente sul piano militare Israele potrebbe spazzar via l’Anp ed Arafat in una notte: perché dunque Sharon sta esitando?
Il ruolo della destra israeliana e le divisioni fra i militari
Il fallimento della campagna militare può far esplodere le contraddizioni che si stanno accumulando da anni nella società israeliana. Nell’ultimo mese abbiamo assistito ad un crollo verticale della popolarità di Sharon, che ha fallito la promessa di garantire la sicurezza dei cittadini israeliani. L’ondata di repressione non ha fatto altro che inasprire ulteriormente gli attentati terroristici contro obiettivi israeliani.
Le recenti dimissioni dal governo dei ministri dei partiti di estrema destra Israel Beitenu e Ihud Leumi, in polemica per la revoca degli arresti domiciliari ad Arafat, sono un sintomo della grande delusione dei coloni di fronte a quella che la destra israeliana considera una politica arrendevole. "Il governo Sharon si rifiuta di vincere i palestinesi" commenta Hagai Segal, direttore dei servizi giornalistici di Radio 7, la radio dei coloni. Il rabbino Israel Rozen propone apertamente di contrapporre alla resistenza palestinese la costruzione di cellule terroristiche ebraiche nei Territori in quanto "nessun esercito al mondo ha potuto sconfiggere un movimento di guerriglia con i carri armati. Né l’artiglieria serve certo a sradicare il terrorismo". Nell’estrema destra israeliana si parla di "criminali di Oslo" riferendosi a Shamir e Peres, ricordando i toni usati nel periodo precedente all’assassinio del premier laburista Rabin nel 1995.
Ma il fallimento di Sharon non porta solo a una spaccatura nella destra israeliana: la "lettera dei combattenti" che si rifiutano di prestare servizio nei territori occupati ha raccolto in poche settimane oltre 250 adesioni fra i militari. L’intimidazione messa in atto dal governo contro i primi firmatari non ha fatto altro che aumentarne l’appoggio e polarizzare lo scontro politico dentro Israele.
Il valore sintomatico di questo movimento è grande perché riguarda anche un settore di militari non politicizzati, respinti per esperienza diretta dall’orrore per la condotta dell’esercito nella repressione dei civili palestinesi, come è il caso del sergente maggiore della brigata Giv’ati, di stanza nei Territori, Asaf Oron. Altrettanto rivelatrice la manifestazione pacifista del 16 febbraio: 20mila persone al grido "Fuori dai Territori subito!", la più grande da molti anni, anche se il movimento è ben lontano da raggiungere dimensioni di massa.
Divisioni emergono anche ai livelli più alti dell’esercito. Il settimanale britannico The Economist ha riportato il 23 febbraio che "il Consiglio per la pace e la sicurezza, un raggruppamento di centro-sinistra di generali in pensione e di agenti dei servizi segreti, si è risolto, dopo molta incertezza, ad aggiungere la propria voce autorevole al coro che richiede un ritiro unilaterale dell’esercito israeliano dalla maggior parte dei Territori come passo obbligato per nuove trattative di pace". Il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato il 2 di febbraio che: "L’ex-capo dello Shin Bet, nonché ex-ammiraglio della marina israeliana, Ami Avalon, ha dichiarato ieri sera di ‘provare una profonda simpatia per gli ufficiali riservisti’, si è spinto perfino ad affermare che i soldati non dovrebbero obbedire ad ordini ‘palesemente illegali’. ‘Per quanto mi riguarda – ha detto – sono troppo pochi i soldati che disobbediscono a tali ordini. Ad esempio l’ordine di sparare ad un giovane disarmato è palesemente illegale’".
In un sondaggio emerge che il 31% della popolazione israeliana dà ragione ai militari che si dissociano dall’occupazione mentre il 35% appoggia una soluzione militare che porti alla deportazione di massa dei palestinesi al di fuori dei Territori.
Una cosa è certa: un settore crescente della popolazione israeliana a tutti i livelli della società comincia a rendersi conto che sulle basi attuali non esiste alcuna soluzione ai problemi di fronte a loro.
Crisi economica e lotta di classe in Israele
Tutto questo sta avvenendo in una situazione in cui la crescita economica spettacolare dell’economia israeliana degli ultimi anni si è infranta sugli scogli della recessione mondiale. Autorevoli economisti hanno definito la crisi come la più rilevante dai primi anni ’50. Il settore dell’alta tecnologia è fortemente dipendente dalle esportazioni negli Usa e paga pesantemente la contrazione di quel mercato. La disoccupazione ha toccato quota 250mila, raggiungendo la soglia del 10%, un livello inaudito per Israele. Il settore turistico è crollato in media dell’80%, in alcune regioni addirittura del 98%. In particolare la crisi si abbatte sulla parte meridionale d’Israele, la più povera, dove è stata annunciata la chiusura di numerose fabbriche e i lavoratori stanno preparandosi a resistere all’attacco padronale.
Nella piccola città di Kiriat-Gat alcune centinaia di lavoratori della fabbrica tessile Bagir hanno occupato la fabbrica per impedirne la chiusura, disposta dal padrone per spostare la produzione in Portogallo e Egitto. In gennaio ci sono stati uno sciopero dei portuali e una manifestazione a Tel Aviv di centinaia di lavoratori dell’industria militare e aeronautica, minacciati di licenziamento. Tra la fine di dicembre e gennaio abbiamo visto manifestazioni di migliaia di lavoratori contro la legge finanziaria e i tagli alle spese sociali.
La combinazione della crisi a livello economico, sociale, politico e militare produce una situazione estremamente instabile in cui è inevitabile che emerga all’interno della società israeliana uno scontro su linee di classe di cui queste lotte rappresentano solo il prologo: il risveglio della classe lavoratrice israeliana rappresenta l’unica vera speranza di una via d’uscita per la tragica situazione delle masse palestinesi. Se la differenziazione di classe si svilupperà in un conflitto aperto fra lavoratori e padronato israeliani dipende in parte dalla strategia che seguirà la direzione palestinese e in parte dalla direzione stessa che si darà il movimento operaio israeliano.