La caratteristica più significativa di tutte queste mobilitazioni è stata la presenza significativa di migliaia di immigrati, in gran maggioranza arabi: lavoratori con le loro famiglie, giovani di seconda generazione che sono scesi in piazza esprimendo una radicalità molto forte. Gli slogan contro l’imperialismo, sia di matrice israeliana che americana, erano centrali nei cortei, così come la consapevolezza che ben poco di buono per le masse palestinesi potrà venire dai governi dei paesi arabi.
Da parte del governo e della borghesia si è subito scatenata una campagna feroce contro “l’islamocomunismo” e Maroni ha colto la palla al balzo per emanare una direttiva che vieta le manifestazioni davanti ai luoghi di culto. Il pretesto era il fatto che alcune centinaia di musulmani avevano avuto la sfrontatezza di pregare sul selciato di Piazza Duomo alla fine di uno dei cortei pro-Gaza, ma è evidente che, se questa direttiva fosse messa in pratica, porterebbe al divieto di fatto di manifestare.
La cosa più allarmante è che davanti a questa ennesima provocazione reazionaria del ministro leghista molti dirigenti del sindacato e della sinistra, invece di organizzare iniziative di protesta di massa contro la direttiva, hanno cominciato a fare le pulci, preoccupati, alle modalità con cui gli immigrati scendono in piazza. Lo scandalo deriva dal fatto che gruppi di immigrati si sono dedicati alla preghiera nei cortei ed erano organizzati dagli Imam delle moschee. Per chi conosce un po’ la storia, ciò non dovrebbe sorprendere: da sempre la prima forma di organizzazione comune di un emigrato è stato attorno alla propria comunità e alle proprie tradizioni, anche quando ad emigrare eravamo noi. Inoltre l’atteggiamento con cui una minoranza discriminata si relaziona alla religione non è lo stesso che ha il lavoratore italiano verso la religione cattolica. È un tentativo di difendere, in maniera distorta, la propria identità. Spesso le moschee sono infine gli unici luoghi dove si possono riunire e trovare un po’ di solidarietà ed aiuto.
Ciò che non hanno trovato da parte della organizzazioni di sinistra che quando sono state al governo hanno solo apportato piccoli cambiamenti di superficie a leggi come la Bossi-Fini. O che non trovano dal sindacato quando sono sfruttati e umiliati sul luogo di lavoro. Se molti immigrati sono organizzati dalle moschee e non dalla sinistra, la colpa è della sinistra stessa.
Comprendere il fenomeno non significa lasciare alcuno spazio al fondamentalismo islamico, che è nemico delle masse arabe e della lotta antimperialista. L’alternativa da opporre deve però tendere all’unità di classe fra lavoratori immigrati ed italiani, tra le masse arabe e chi scende in piazza in occidente.
Si può essere credibili verso coloro che sono scesi in piazza se non si concede altresì alcuna apertura di credito verso l’Onu, l’Unione europea o anche Obama come risolutori del conflitto israelo-palestinese. In sessant’anni di esistenza (e di presenza con una sua missione in loco), le Nazioni unite non hanno migliorato di un millimetro le condizioni delle masse palestinesi. Perché dovrebbero farlo ora?
In Italia, semplicemente criminale è stata la posizione del partito democratico. Fassino, ministro degli esteri ombra ha detto esplicitamente che Hamas era responsabile della crisi a Gaza ed ha partecipato a manifestazioni filoisraeliane, come quella del 10 gennaio a Roma. Sulla crisi di Gaza, come su tante altre questioni, Pd e Pdl non hanno alcuna differenza sostanziale.
Altrettanto scorretta è tuttavia una posizione di “equidistanza”, come quella sviluppata da D’Alema e che costituiva la base programmatica della manifestazione di Assisi, convocata in contemporanea il 17 gennaio alla manifestazione di Roma. Mettere sullo stesso piano la resistenza palestinese e l’esercito israeliano è come paragonare il lupo all’agnello. Chi lo fa porta all’estreme conseguenze la logica del pacifismo, secondo cui la violenza è sempre da condannare, sia quella dell’aggressore che quella dell’aggredito. Questi pacifisti però non hanno nulla da dire se le armi vengono usate da soldati che hanno il casco blu dell’Onu. Come se queste truppe non difendessero precisi interessi, quelli delle proprie borghesie, quando sono inviati in Afghanistan o in Libano.
I comunisti invece si pongono a fianco del popolo palestinese e del suo diritto alla resistenza. Proprio per questo è importante discutere a fondo come portare avanti questa solidarietà.
Da più parti si invoca l’arma del boicottaggio, spiegando che questo è stata la ragione principale della caduta del regime dell’apartheid in Sudafrica. Niente di più falso! Il regime sudafricano è caduto a causa delle lotte e degli scioperi dei lavoratori e dei giovani di quel paese. Davanti alla prospettiva di perdere tutto, dato che il movimento aveva assunto caratteristiche rivoluzionarie, la classe dominante ha preferito arrivare a un compromesso con la direzione dell’Anc. Così è finita la discriminazione razziale stabilita per legge, ma è continuata quella reale insieme a quella economica, ambedue dettate dal sistema capitalista tuttora vivo e vegeto.
I governi cadono e le rivoluzioni avvengono perché le masse entrano in azione, e non a causa di alcune iniziative individuali. Potremmo chiederci: perché boicottare le merci israeliane e non quelle degli Stati uniti, principale alleato di Israele? Tutto il ragionamento è permeato dalla logica del “consumo critico”, che non ha mai fatto male a una mosca, figuriamoci ad uno stato potente come quello israeliano.
Ben altra cosa sono le azioni di massa, come impedire il trasporto di armi e altro materiale verso Israele. In queste settimane decine di navi attraversano il Mediterraneo, dirette verso Israele. Si lanci un appello rivolto a tutte le organizzazioni sindacali dei lavoratori portuali perché organizzino scioperi e blocchi delle merci dirette verso Israele. Ciò successe già a Livorno nel 2003 ai tempi della guerra in Iraq. In queste attività le organizzazioni di sinistra e di solidarietà con la Palestina potrebbero avere un ruolo attivo. L’azione di massa è cento volte più efficace di quella individuale.
La questione è tuttavia più generale, di prospettiva. L’obiettivo dei comunisti è quello di limitarsi a fare pressione sul governo israeliano, perché faccia delle concessioni? Negli anni novanta il governo israeliano ha concesso all’Autorità nazionale palestinese di governare alcune regioni e quest’esperienza, che pure aveva suscitato enormi speranze, si è rivelata fallimentare e mai i palestinesi sono stati così lontani dalla libertà. Uno stato palestinese non potrà mai essere libero all’interno del sistema capitalista, ma sarà sempre assoggettato all’imperialismo israeliano o a quello arabo. Ciò pone la questione delle relazioni tra israeliani e palestinesi. C’è chi propone la distruzione di Israele, anche in Italia. Uno slogan che sembra a prima vista radicale, ma che non considera che oggi abitano in Israele oltre sei milioni di persone. Non costituiscono un unico blocco reazionario, ci sono capitalisti e lavoratori, sfruttatori e sfruttati. Rompere il blocco, totalmente reazionario, che unisce tuttora i lavoratori israeliani al loro stato è un compito necessario per la liberazione del popolo palestinese.
La lotta contro l’imperialismo, in Medio Oriente come in Europa, è dunque una lotta rivoluzionaria ed anticapitalista.
È questo il messaggio che i comunisti dovrebbero portare, senza reticenze o titubanze, all’interno delle mobilitazioni contro l’aggressione a Gaza. È questo il miglior contributo che possiamo fornire alla causa del popolo palestinese.
4 febbraio 2009