Un assaggio della rabbia covata dalle popolazioni arabe lo si è avuto nell’aprile del 2002. In seguito all’offensiva israeliana del 29 marzo nei territori occupati, un’ondata di manifestazioni spontanee ha attraversato tutti i paesi arabi senza eccezione. I cortei più grandi sono stati il 9 aprile al Cairo con 500mila manifestanti ed in Marocco con 3 milioni di persone. Al Cairo gli attacchi della polizia hanno causato un morto tra i manifestanti. Lo stesso è avvenuto nello Yemen. Dovunque la reazione dei regimi arabi è stata quella del bastone e della carota. In Giordania il governo ha cercato di incanalare la protesta facendo marciare i propri ministri alla testa di un corteo di 80mila persone ad Amman, mentre ad Al Bakaa, cittadina del nord della Giordania con forte presenza palestinese, le truppe antisommossa causavano un morto tra i manifestanti. Al Bakaa è stata poi assediata dai carri armati per una settimana. Manifestazioni di dimensioni minori ma comunque significative ci sono state nel Bahrein (20mila persone), nell’Oman, negli Emirati Arabi, nel Qatar e addirittura nel Kuwait.
Il segretario di Stato americano Powell ha così commentato quelle giornate: “Due o tre giorni dopo l’inizio delle incursioni israeliane le ambasciate americane hanno cominciato a informarci delle conseguenze nelle piazze per i leader della regione. Abbiamo visto cose che non ci saremmo mai immaginati di vedere: auto in fiamme nel Bahrein, mezzo milione di persone che manifestava in Marocco, altre manifestazioni in Egitto. La situazione ci preoccupa e questa preoccupazione è dovuta al fatto che non ci troviamo più di fronte ad un conflitto fra le due parti nei territori occupati, bensì di fronte a qualcosa che ribolle come un calderone e trabocca, toccando non soltanto gli interessi di Israele, ma anche quelli americani e in maniera duratura, sul lungo termine”.
La Giordania
Nel cosiddetto Medio Oriente risiedono il 65% delle riserve petrolifere conosciute. Nessun’altra regione a livello mondiale sarebbe in grado di sostituire i rifornimenti petroliferi derivanti da questa zona.
Ovviamente le tensioni sulla questione del petrolio non sono le uniche cause dei crescenti screzi tra Stati Uniti e paesi arabi. Le cricche dominanti arabe sono costrette a prendere pubblicamente posizioni anti-americane e anche per cercare di cavalcare la rabbia che si sta accumulando nei propri paesi.
L’esempio più evidente di questa contraddizione è la Giordania. La monarchia giordana Hashemita è fortemente dipendente dagli Usa. L’economia, in questo momento, si sta reggendo in piedi solo grazie al lavoro sporco che svolge per gli Stati Uniti. La Giordania, infatti, è stata inserita nel programma di scambi con l’Iraq “Oil for food”. L’Iraq è costretto a vendere alla Giordania 5,5 milioni di tonnellate di petrolio all’anno al prezzo stracciato di 19 dollari al barile. Naturalmente questo petrolio viene immediatamente girato alle potenze occidentali. Gli Usa hanno ripagato questi servigi con un sussidio di 500 milioni di dollari nel 2002.
Questa dipendenza non permetterà alla Giordania di rimanere fuori dalla guerra. Nonostante il re Abdallah abbia giurato e spergiurato di non star concedendo aiuti per preparare la guerra all’Iraq, i soldati anglo-americani da tempo si stanno addestrando nel deserto giordano.
L’Iraq assorbe il 20% delle esportazioni giordane. La guerra priverà l’economia di alcune delle principali entrate, con un aumento della disoccupazione e dello scontento sociale. A questo si aggiunge la ferita aperta dalla situazione palestinese; il 60% della popolazione giordana è di origine palestinese. Nonostante re Abdallah sia avvezzo a farsi riprendere dalle televisioni mentre dona sangue per i bambini palestinesi, esclude di interrompere i rapporti economici con Israele regolati dal Trattato Commerciale del 1994.
L’Egitto
Le giornate di aprile hanno visto il proprio apice in Egitto. Questo è un riflesso della situazione disastrosa in cui si trova l’economia. Il livello ufficiale di disoccupazione è del 9%, ma la stima più verosimile è che si aggiri attorno al 17%. Tale cifra sale al 40% tra i giovani sotto i 25 anni. La borsa è crollata del 15% medio annuo per 3 anni consecutivi. La vita artistica rappresenta in questo caso un termometro abbastanza fedele dello stato d’animo delle masse. Il regista Raafat El Meehy ha dichiarato quest’estate: “Se nelle mie pellicole inserisco (...) le immagini di una bandiera Usa che brucia, il pubblico è soddisfatto e affolla numeroso il cinema”. L’hit musicale “Odio Israele” è stato per diversi mesi nei primi posti della classifica.
Durante le manifestazioni di aprile i cortei del Cairo si erano conclusi non di fronte all’ambasciata americana, ma di fronte agli uffici della Lega Araba con slogan contro gli attuali regimi arabi ed inneggianti a Nasser. Nasser era arrivato al potere nel 1952 iniziando una campagna di nazionalizzazione dei settori chiave dell’economia sfociata nel 1956 con la nazionalizzazione
del canale di Suez tra il tripudio popolare. Gli anni del nasserismo avevano registrato un certo miglioramento delle condizioni economiche egiziane. Al contrario dal 1979, anno in cui venne firmato il trattato di pace tra Washington, Israele ed Egitto, l’economia è stata ampiamente privatizzata e le condizioni delle masse sono peggiorate in maniera drastica e costante.
L’attuale presidente Mubarak sta giocando a nascondino con le aspirazioni delle masse egiziane. In piazza e nei suoi discorsi si unisce al ricordo del “glorioso Nasser”, ma nella realtà non può fare a meno degli aiuti americani (2 miliardi di dollari all’anno). Tenere il piede in due scarpe in un paese sull’orlo del disastro economico-sociale non è mai consigliabile.
L’Arabia Saudita
Durante tutti gli anni ‘80, l’Arabia Saudita in accordo con l’imperialismo, ha promosso l’espansione del fondamentalismo islamico a livello internazionale (Afghanistan, Cecenia, Algeria) attraverso la corrente islamica wahabita (Bin Laden ne è un espressione) da utilizzare contro l’Urss e le lotte operaie nei paesi arabi.
La guerra del Golfo del 1991 ha segnato però uno strappo profondo tra la monarchia e il wahabismo più ortodosso, aumentando l’instabilità interna alla cricca araba dominante.
La necessità dell’Arabia di tenere inutilizzata la metà delle propria capacità produttiva petrolifera per tenere alto il costo del greggio non si scontra solo con le esigenze imperialiste ma ha un effetto estremamente più importante sulla disoccupazione. Il 15% della popolazione è disoccupata. Si tratta di una cifra sbalorditiva considerato che le donne non sono contate in simile statistica. La monarchia ha cercato di reggersi per anni sia sul fondamentalismo wahhabita sia sul razzismo verso i lavoratori immigrati. L’Arabia, infatti, è terra di immigrazione dallo Yemen, dal Pakistan, dall’Egitto, dall’Indonesia e dalle Filippine. Con il rallentamento dell’economia le condizioni di questi lavoratori sono terribilmente peggiorate, soprattutto con l’introduzione di una tassa del 10% sui loro salari.
Ammutinamenti nell’esercito, insurrezioni locali e scontri di diversi tipi iniziano ad essere sempre più frequenti nel paese, tanto che anche i membri della famiglia reale hanno dovuto accennare nei propri discorsi pubblici al numero crescente di “disturbi”. Nella cricca dominante saudita si è aperta una discussione sulla concessione di una serie di riforme per ammorbidire l’attuale regime monarchico. Si tratta di un tentativo di prevenire con concessioni dall’alto un’esplosione sociale dal basso.
Per la federazione socialista del Medio Oriente
In Giordania l’82% dei lavoratori ritiene che i “valori americani” siano negativi per il mondo. In Egitto le masse usano il nome degli Usa e di Israele per indicare in realtà la propria povertà e danno il nome Nasser alle proprie aspirazioni ad un mondo migliore. L’antiamericanismo delle masse arabe sarà strumentalizzato dal fondamentalismo islamico, dalle peggiori idee reazionarie, da qualche altro imperialismo straniero che si presenterà come l’imperialismo buono oppure tale sentimento sarà trasformato in una lotta cosciente contro il capitalismo? Questa è la questione che si pone di fronte ai marxisti.
La propaganda borghese in occidente ha imparato a gonfiare ad arte il peso del fondamentalismo islamico nei paesi arabi.
E’ evidente che in alcune zone il fondamentalismo ha un peso, ma è anche evidente che questo peso è direttamente proporzionale all’assenza di una seria alternativa anti-capitalista.
Soltanto la nazionalizzazione delle principali risorse in un regime di democrazia operaia basato sulla pianificazione economica, potrà garantire che la ricchezza generata dai lavoratori sia indirizzata verso il miglioramento della vita delle masse.
Soltanto questo porrà fine all’esasperazione sociale che produce il terrorismo, il fondamentalismo e l’odio religioso. Non c’è nessuna terza via tra l’attuale situazione ed il socialismo: per una Federazione Socialista del Medio Oriente inserita nella Federazione Socialista mondiale!
Il testo integrale dell’articolo può essere scaricato dal sito www.marxismo.net