Prima il massacro della città di Gaza a luglio, con l’uccisione di Salah Shehade, capo militare di Hamas e di 15 civili (tra cui nove bambini), poi le stragi di contadini a Sheikh Ajlin a fine agosto e il massacro a Shujayeh a metà settembre, l’ennesimo assedio al quartier generale di Arafat, infine il tentativo fallito di ammazzare nel pieno centro di Gaza, Mohammed Deif, il dirigente di Hamas che ha preso il posto di Shehade, tra una folla di ragazzini e lavoratori. Solo ultima di una serie di attacchi, l’incursione di 40 mezzi corazzati appoggiati dal fuoco di un elicottero Apache i cui missili hanno lasciato 12 civili sul terreno a Khan Yunis. La campagna di "eliminazioni selettive" di dirigenti palestinesi e di provocazioni inaugurata dal governo Barak prosegue senza soste sotto la guida di Sharon, poco importa se essa comporta regolarmente l’uccisione di donne e bambini.
Come avevamo previsto la campagna di terrore di Sharon non ha avuto alcun effetto se non quello di esasperare ulteriormente i palestinesi, facilitando il compito ai reclutatori di aspiranti martiri, disposti a morire pur di infliggere un colpo all’oppressore israeliano. L’imperialismo israeliano non può permettersi di prendere il controllo diretto dei Territori, ma allo stesso tempo la dinamica stessa degli avvenimenti lo spinge inesorabilmente in quella direzione. Questa è la base dello stallo attuale.
A poco serve la "muraglia cinese" di Sharon, ovvero il muro in costruzione lungo il confine a difesa delle frontiere israeliane. Quasi impossibile fermare chi non dà più un valore alla propria vita ed è disposto a farsi saltare in aria. Diverso è il discorso su quale impatto avrà la costruzione del muro intorno a Gerusalemme sulla vita di decine di migliaia di palestinesi i cui villaggi si trovano presi in mezzo tra questo muro e quello in costruzione lungo la "linea verde" ai confini con la Cisgiordania. Lo scenario di una nuova espulsione di massa di decine di migliaia di palestinesi si fa sempre più probabile.
La disillusione palestinese dopo gli accordi di Oslo
Gli accordi di Oslo del 1993 che diedero vita all’Anp hanno deluso i palestinesi su due livelli: sul piano strategico, invece di sancire la nascita di uno Stato indipendente palestinese, l’accordo ha ricostituito la base di sottomissione neocolonialista, cambiando la forma dell’Occupazione israeliana senza rimuoverla. Sul piano della vita quotidiana chi ne ha tratto beneficio è stato solo l’entourage di Arafat tornato con lui dall’esilio tunisino e una minoranza borghese, parassitaria e corrotta, vicina all’establishment. Per la difesa dei propri interessi questa congrega di parassiti è scesa a bassi compromessi con gli oppressori israeliani, sia gestendo in prima persona lo sfruttamento economico della popolazione palestinese, sia prestandosi ad una collaborazione nella repressione con le forze di sicurezza e i servizi segreti israeliani, sotto la supervisione dei consiglieri della CIA. In questi anni Arafat ha incarcerato gli oppositori degli accordi di Oslo e i suoi avversari (come chi ha avuto il coraggio di denunciare la corruzione dell’Autorità palestinese), chiuso giornali, radio e TV che osavano criticare la sua politica, calpestato ogni legge anche contro sentenze emesse dagli stessi tribunali palestinesi.
Purtroppo tutte le forze della sinistra palestinese (dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina al Partito Comunista) in tutto questo tempo hanno sostanzialmente appoggiato Arafat, lasciando alle organizzazioni islamiche vicine ad Hamas e alla Jihad il ruolo di portavoce dell’opposizione. A causa della continua pressione militare israeliana e per il ruolo di queste organizzazioni verso cui la maggioranza dei palestinesi resta diffidente, stenta ad emergere una vera opposizione di massa alle politiche di Arafat all’interno dell’Anp, anche se sono sempre più evidenti i segnali del crescente malcontento contro Arafat.
La crisi economica che ora colpisce duramente anche l’economia israeliana, con la disoccupazione che ha superato ormai il 12%, le masse palestinesi l’hanno sperimentata fin dai primi anni della nascita dell’Anp. Già prima dell’esplosione della seconda Intifada nell’autunno del 2000 il tenore di vita delle masse palestinesi era sceso del 30% rispetto al periodo dell’occupazione militare israeliana diretta. Da allora non ha fatto che peggiorare.
Senza fonti di reddito stabili, afflitti da una disoccupazione di massa ormai endemica, privati di assistenza medica, sussidi di disoccupazione o pensioni, sprovvisti di acqua potabile, viste le poche infrastrutture costruite in questi anni distrutte dalle incursioni israeliane, confinati in città e villaggi isolati gli uni dagli altri, accerchiati dall’esercito israeliano e dagli insediamenti di coloni israeliani in continua espansione, sottoposti ad ogni tipo di vessazione ai posti di blocco, i palestinesi si sono amaramente risvegliati dal sogno inconsistente propugnato da Arafat di poter trasformare l’Autorità palestinese in una nuova Singapore del Medio oriente.
Due nazioni, due stati?
Il fallimento della prospettiva delirante di una nuova "isola di prosperità" come Singapore in Palestina non è che il fallimento della possibilità di costruire uno stato palestinese realmente indipendente su basi capitaliste. Dobbiamo essere chiari: questa Anp è l’unico possibile stato palestinese finché non si ponga fine al dominio dell’imperialismo israeliano.
Rivendicare oggi, come fanno in tanti a sinistra (alcuni animati dalle migliori intenzioni), una soluzione negoziata con la mediazione dell’ONU o dell’imperialismo americano significa rimandare ad una seconda fase la lotta per il socialismo nella regione e rimuovere questo nodo ineludibile. Una tale politica non può che esprimersi in un generale appiattimento del movimento operaio internazionale sulle posizioni sterili e controproducenti del nazionalismo palestinese dell’OLP di Arafat, come di fatto avviene. L’esistenza stessa di uno stato capitalista in Israele impedisce la costituzione di uno stato palestinese che non sia brutalmente asservito. Qualsiasi "soluzione" che parta dal presupposto di una "spartizione" dei territori fra due stati capitalisti prepara il terreno a nuovi bagni di sangue e pulizie etniche, considerando l’intreccio inestricabile di insediamenti israeliani ed arabi che sono Israele e la Palestina. Abbattere il dominio imperialista israeliano, abbattere le classi dominanti capitaliste arabe ed israeliana non significa rivendicare di "ricacciare a mare gli israeliani", come qualche pseudorivoluzionario propaganda. Sostenere tale prospettiva significa rafforzare il legame fra lo stato imperialista israeliano e la maggioranza dei lavoratori non arabi di Israele. Significa condannare la rivoluzione alla sconfitta e rafforzare la reazione.
Il mantenimento al potere di una qualsiasi delle fazioni della borghesia palestinese all’interno dell’Anp condanna le masse palestinesi ad un futuro di miseria. Tutto quello che le diverse bande in lotta fra loro all’interno di questa cricca corrotta hanno da offrire al proprio popolo è un’alternativa fra repressione e collaborazione con l’occupazione israeliana e l’imperialismo, da una parte, e dall’altra una sterile "guerra santa" portata avanti al ritmo incessante degli attacchi suicidi, incapace di intaccare minimamente il potere della classe dominante israeliana. Solo lottando contro la borghesia corrotta dell’Anp e facendo emergere l’alternativa della lotta di massa contro l’occupazione israeliana rispetto alla tattica suicida in tutti i sensi del terrorismo individuale propugnata da Hamas, dalla Jihad e dalle Brigate dei martiri "Al-Aqsa" vicine a Fatah (il partito di Arafat), solo riscoprendo le tradizioni autenticamente rivoluzionarie della prima Intifada, sarà possibile porre all’ordine del giorno la liberazione delle masse dall’oppressione dell’imperialismo israeliano e del capitalismo, che ne è la causa.
Negli anni ‘70, quando l’ascesa della lotta rivoluzionaria dei lavoratori palestinesi mise a rischio la sopravvivenza della monarchia e del capitalismo giordano e scosse dalle fondamenta tutto il medio oriente provocando una temporanea convergenza d’intenti tattica fra le classi dominanti arabe e l’imperialismo israeliano al fine di scongiurare il pericolo della rivoluzione, il lavoro sporco per l’imperialismo fu portato avanti da re Hussein che con il massacro passato alla storia come "settembre nero" assassinò decine di migliaia di palestinesi suoi sudditi, mentre i numerosi "amici dei palestinesi" disseminati nei ricchi palazzi delle capitali arabe guardavano da un’altra parte. Come allora non è possibile separare la soluzione della questione palestinese e quella della minoranza araba israeliana (il 20% circa della popolazione) dalla prospettiva di una sollevazione delle masse arabe contro la sofferenza, la povertà e l’oppressione dei regimi reazionari della maggior parte dei paesi arabi. Le classi dominanti dei paesi aderenti alla Lega araba hanno ancora una volta dimostrato quali interessi difendono realmente, capitolando al profumo del dollaro dopo aver sollevato inutili minacce di fronte alla richiesta americana di non opporsi ad una guerra contro l’Irak.