La morte di Vittorio Arrigoni ha scosso profondamente l’opinione pubblica e soprattutto il movimento filo palestinese, che si appresta a scendere in piazza il prossimo 14 maggio per lanciare la partenza della Freedom Flotilia 2 (nominata Stay Human, proprio in onore di Vittorio), prevista per la terza settimana di giugno, per portare aiuti alla popolazione di Gaza, strangolata dal blocco israeliano.
Non si può dire che l’uccisione dell’attivista italiano abbia suscitato altrettanta attenzione mediatica: i mass media italiani non hanno messo in luce né i dubbi riguardo le responsabilità e i veri attori dell’uccisione, né le drammatiche condizioni in cui versa la popolazione di Gaza e della Cisgiordania. Ancora una volta l’Italia si mostra fedele alleato dello Stato israeliano: Berlusconi nell’ottobre del 2010 dichiarò che si sarebbe impegnato perché la Freedom Flotilla non partisse, e naturalmente non mancano mai dichiarazioni dei politici nostrani che dipingono Israele in toni entusiastici, uno stato che ha reso fertile una terra arida e povera, purtroppo anche a sinistra come quelle di Nichi Vendola, che incontrando l’ambasciatrice israeliana Meir ha dichiarato: ”[Israele è] un Paese che ha trasformato aree desertiche in luoghi produttivi e in giardini, un Paese che si confronta col tema mondiale del governo del ciclo dell’acqua, dell’energia, dei rifiuti con pratiche di avanguardia.” Dimenticandosi di ricordare di come prosciughi i pozzi d’acqua palestinesi, delle discriminazioni verso gli arabo-israeliani, delle aggressioni militari, della prigione a cielo aperto di Gaza, dei coloni ultraortodossi nella Cisgiordania, solo per citare alcuni comportamenti del “civile e democratico” governo Netanyahu.
La Freedom Flotilla si accinge a partire in un momento piuttosto convulso per la regione mediorientale a seguito dell’aggressione Nato in Libia e delle rivoluzioni scoppiate nei paesi arabi , che sebbene vivano un momento difficile (in Egitto e Tunisia dopo la cacciata di Mubarak e Ben Ali, la vecchia classe dirigente si sta riorganizzando perché di fatto non cambi nulla), hanno modificato ( e continuano a farlo) gli equilibri nella regione. Gli stessi palestinesi, sia a Gaza che nella Cisgiordania, nei giorni della rivoluzione egiziana hanno manifestato contro il regime di Mubarak e in solidarietà coi manifestanti. Sono stati duramente repressi, sia da Fatah sia da Hamas, che ha mantenuto un atteggiamento piuttosto ambiguo, sostenendo a parole le rivolte nei paesi arabi, per poi reprimere le manifestazioni al proprio interno in sostegno delle stesse. La stessa Hamas - per non parlare di Fatah, la cui immagine è ulteriormente screditata dai recenti scandali mostrati da Wikileaks - è consapevole del malcontento crescente contro di sé: ha chiaramente fallito sia dal punto di vista della lotta, non riuscendo più a organizzare una resistenza efficace nei confronti di Israele, sia da un punto di vista politico, infatti non attuato nessuna azione che concretamente abbia modificato le condizioni di vita della popolazione. I palestinesi erano ben consapevoli che un cambio di regime, soprattutto in Egitto, governo amico di Israele, avrebbe potuto cambiare la loro situazione. Sebbene il governo militare egiziano non abbia soddisfatto le rivendicazioni dei manifestanti e stia organizzando una transizione del potere senza di fatto cambiare nulla, verso la questione palestinese ha mostrato un piccolo cambio di rotta: il 28 aprile infatti è stato annunciato da Nabil al-Arabi la riapertura a tempo indeterminato del valico di Rafah, chiuso dal 2006 e aperto solo in rari casi, contribuendo in maniera determinante a strangolare la popolazione della striscia. Il ministro degli esteri egiziano ha definito “vergognosa” (aljazzera.net) la politica precedente. Questa misura presa dal governo può essere stata spinta dal desiderio di mettere a tacere l’opinione pubblica interna: durante gli attacchi di Israele alla Striscia tra la fine di marzo e l’inizio di aprile ci sono state numerose manifestazioni sotto l’ambasciata dello stato ebraico e l’amicizia tra Egitto e Israele è stato uno degli motivi della contestazione al regime di Mubarak, già a partire del 2000. Secondo un sondaggio del Pew Research Center (istituto americano) il 54% degli egiziani sarebbe contro gli accordi di pace tra Egitto e Israele. C’è da dire che comunque al-Arabi ha dichiarato che l’Egitto continuerà a rispettare gli accordi internazionali (indi per cui anche quelli con Israele) e di continuare a considerare gli U.S.A. un paese amico: è, quindi, ancora presto per parlare di un cambio della politica egiziana verso Israele.
Un altro cambiamento sullo scenario politico sul fronte palestinese è dato dall’accordo, siglato al Cairo il 6 maggio, di riunificazione nazionale tra tutte e tredici le fazioni palestinesi, che ha provocato dura reazione da parte israeliana, soprattutto di Netanyahu. L’accordo firmato al Cairo prevede la creazione di un governo di unità nazionale, composto da tecnici scelti di comune accordo, che guidi i territori palestinesi fino alle elezioni previste fra un anno e l’unione degli apparati di sicurezza. L’accordo che mostra una debolezza reciproca delle parti in causa, non tocca le questioni principali della politica palestinese, ad esempio una riforma dell’OLP, ormai crogiuolo di burocrati, che continuerà ad essere l’interlocutore principale dei processi di pace e tace sulla collaborazione di Fatah con Israele in Cisgiordania emersa dai documenti i Wikileaks. La debolezza delle fazioni palestinesi, oltre che a fattori interni può essere ricondotta a fattori esterni: da una parte Fatah con la caduta di Mubarak, perde uno dei più importanti sostenitori nella regione e la nuova alleanza tra esercito e Fratelli Mussulmani sposta la bilancia a favore di Hamas, dall’altra Hamas stessa, che aveva uno dei principali appoggi politici nel regime di Assad in Siria, ha perso un sostegno importante, anche perché ha mantenuto un atteggiamento ambiguo verso le manifestazioni, senza condannare le rivolte, come il governo siriano avrebbe voluto, ma nemmeno schierandosi a favore delle stesse.
È possibile che Abu Mazen abbia tentato la carta dell’unità in vista del voto di settembre all’Onu per il riconoscimento ufficiale di uno stato palestinese e presentare unito il fronte interno, dato che l’accordo è stato accolto positivamente su scala internazionale. A fare le spese dell’accordo sarà, sul piano politico principalmente Hamas, che entra nel processo di pace, un processo di pace in cui i palestinesi non hanno nessuna voce e nessuna possibilità di acquisire diritti, cedendo di fatto alle pressioni a cui è sottoposta e che probabilmente porterà a un ulteriore discredito verso il movimento islamista all’interno dei territori palestinesi, come già successo a Fatah. Anche il fatto di tacere la collusione di Fatah con Israele, prima sempre denunciata, e di non spingere perché quest’ultima cessi la collaborazione con lo stato israeliano (nella West Bank e fino al 2007 nella Striscia), sarà a lungo termine una mossa sbagliata. Il fatto che le relazioni tra Fatah e Israele siano rimaste fuori dagli accordi lo dimostrano anche le dichiarazioni dei comandanti israeliani stanziati in West Bank, raccolte da Aljazeera, secondo cui non ci sarebbero cambiamenti sul campo dopo gli accordi, e sempre secondo questi ultimi la massima preoccupazione di Fatah non sarebbe Israele, ma bensì che Hamas non estenda il suo controllo anche sulla Cisgiordania, come dimostrerebbero le stesse dichiarazioni di Abu Mazen al New York Times. Naturalmente a fare le spese di tutto ciò sarà la popolazione palestinese, che ha salutato gli accordi con entusiasmo nell’illusione che appianando le divisioni interne, la loro lotta riacquisti forza.
Israele naturalmente ha reagito a questi ultimi avvenimenti con la solita durezza verbale, queste le parole di Netanyahu all’indomani dell’accordo: "Abu Mazen deve scegliere tra la pace con Israele e l'accordo con Hamas. Una pace con tutti e due è impossibile perché Hamas aspira a distruggere lo stato di Israele e lo dice apertamente sparando missili contro le nostre città e razzi contro i nostri bambini. Io penso che l'idea stessa di una riconciliazione dimostra la debolezza dell'Autorità palestinese e solleva l'interrogativo se Hamas prenderà il controllo della Giudea e della Samaria (Cisgiordania) così come ha fatto a Gaza.” “Io spero - ha aggiunto Netanyahu - che l'Autorità sappia fare la giusta scelta, che scelga la pace con Israele. La scelta è nelle sue mani" (Repubblica). Israele si trova in una situazione difficile, perché da una parte si trova circondato da rivolte epocali nel mondo arabo che hanno sovvertito regimi tra i più vicini (Israele ha fatto di tutto per sostenere Mubarak fino all’ultimo), dall’altro le condizioni economiche e sociali al proprio interno non gli permettono di sostenere la solita linea dell’aggressione militare. La sensazione di essere sempre più isolati, cavallo di battaglia della propaganda israeliana, si respira nell’aria, la Livni, seppur condannando ‘accordo palestinese, ha accusato Netanyahu di isolare Israele e probabilmente l’appoggio internazionale all’accordo palestinese e il voltafaccia americano contro Mubarak hanno aumentato questa sensazione. La crisi economica poi fa il resto: Israele non può fare altro che lamentarsi degli avvenimenti, eventualmente agendo dietro le quinte, non certo mettere in campo un grande dispiegamento di forze: è probabile che tenti di far saltare l’accordo tra Hamas e Fatah, spingendo Hamas a rompere il cessate il fuoco, ma un’operazione come Piombo Fuso, così come un’eventuale aggressione militare nei pressi di Rafah, per scongiurare la riapertura del valico, sono da escludere, dato che sarebbero controproducenti, soprattutto molto rischiose anche sul fronte interno. Se Israele volesse optare per un’azione militare, è più probabile, purtroppo, un’aggressione alla Freedom Flotilla, più fattibile del punto di vista militare ed economico, anche se ciò provocherebbe, come accadde l’anno scorso, una reazione dell’opinione pubblica internazionale, ma si sa l’arroganza della classe dominante israeliana non conosce limiti né freni, data anche l’impunità che gode a livello internazionale.
Le spese di tutto ciò le faranno naturalmente i palestinesi in primis, ma anche i lavoratori israeliani sempre più vittime di un regime reazionario. Le rivoluzioni nel mondo arabo indicano la strada da percorrere, e come per Egitto e Tunisia è indispensabile rilanciare la lotta perché i sacrifici e i morti non siano stati vani e perché il sistema cambi radicalmente, così per i palestinesi è indispensabile riuscire a costruire un legame con il proletariato di questi paesi, e con il proletariato israeliano, per creare quell’unità di classe che sola può sconfiggere il governo d'Israele e le burocrazie palestinesi legate alla classe dominante. Nostro compito è sostenere la Freedom Flotilla, in primo luogo scendendo in piazza sabato per far sentire la nostra voce a fianco delle popolazioni di Gaza e della Cisgiordania, consapevoli del fatto che queste azioni coraggiose non possono da sole sconfiggere l’oppressione del popolo palestinese. Solo la lotta di classe può garantire una pace e un futuro migliore ai giovani, alle donne e agli uomini in Medioriente.
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