Introduzione
Dopo 6 anni dall’aggressione imperialista contro l’Irak ci troviamo ancora alla vigilia di una nuova guerra (6 settimane di bombardamenti massicci) perché - ci viene detto - l’Irak non permette le ispezioni internazionali in 8 siti "presidenziali" dove sarebbero nascoste micidiali armi chimiche e batteriologiche.
Rifiutano la proposta dell’Iraq di permettere le ispezioni a patto che partecipino anche rappresentanti della Francia, della Russia e della Cina.
Risulta evidente dunque che all’imperialismo Usa e britannico serve dare "un’altra lezione" all’Irak, ma perché?
A questa domanda hanno provato a rispondere i marxisti britannici Ted Grant e Alan Woods. Nel testo che riproduciamo di seguito vengono smascherate le autentiche ragioni dell’imperialismo Usa, il motivo delle differenze con Francia, Russia e Cina, che nel 1990 appoggiarono l’intervento, il ruolo dell’Onu e l’impossibilità di capire questi avvenimenti partendo da una posizione pacifista. Intendiamoci, è umano il rifiuto della guerra, delle sofferenze inflitte a popoli innocenti, delle ingiustizie e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Il marxismo parte da questi sentimenti per cercare le cause e provare a rimuoverle. Di conseguenza un comunista non dirà solo "no alla guerra" dirà "no alla guerra imperialista" e "si alla guerra contro l’imperialismo". Denuncierà il ruolo dell’Onu come copertura degli interessi dei paesi membri permanenti del consiglio di sicurezza e specialmente del più forte tra loro: gli Usa. Non farà appelli a "rispettare il diritto internazionale", ma lo denuncierà come l’insieme delle regole imposte dai paesi dominanti a quelli dominati. Un comunista spiegherà che il compito di abbattere l’odiato regime di Sadddam è solo dei lavoratori iracheni e sottolinearà come gli imperialisti preferiscono mille volte Saddam al potere piuttosto che vedere una rivoluzione vittoriosa in quel paese. Infine spiegherà che la logica "cinica e terribile", nelle parole di Bertinotti, del pentagono è intrinseca al capitalismo, di tutto il capitalismo, non solo di quello Usa; o abbiamo dimenticato i misfatti dell’esercito italiano in Somalia?
Lenin disse 80 anni fa che la crisi protratta del capitalismo poneva l’umanità di fronte a un bivio: "Socialismo o barbarie". Da allora ci sono state guerre in continuazione, fame e malattie provocate da un ordine mondiale ingiusto che le diverse borghesie (Usa, europee, giapponese) vogliono perpetuare ad ogni costo.
Il movimento operaio deve abbandonare qualsiasi illusione in un capitalismo "democratico" e "rispettoso dei diritti umani". Lasciamo questi appelli inutili alle diverse chiese che si sono sempre distinte per "predicare bene e razzolare male". C’è solo una speranza che l’incubo finisca: con l’abbattimento del capitalismo e lo sviluppo del socialismo basato sulla democrazia operaia.
La minaccia di una nuova campagna di bombardamenti dell’Iraq da parte dell’imperialismo Usa e dei suoi burattini britannici ha introdotto un elemento nuovo ed esplosivo nella situazione mondiale. Prima del crollo dell’Unione Sovietica, per quasi mezzo secolo i rapporti mondiali furono caratterizzati da una relativa stabilità, solo disturbata da conflitti militari qua e là (Corea, Vietnam ecc.). Ora invece l’intera situazione è cambiata; anche prima dell’arrivo di una nuova recessione mondiale, la situazione generale è caratterizzata da una turbolenza e da un’instabilità estrema a livello economico, finanziario, sociale, politico e militare.
La crisi del sud-est asiatico ha già avuto un effetto sugli altri cosiddetti "mercati emergenti", provocando la caduta degli investimenti, l’aumento dei tassi d’interesse e una maggior instabilità. Questi fattori hanno iniziato ad influire sul fragile equilibrio delle forze in Medio Oriente. Il rallentamento economico in Asia sta facendo ulteriori pressioni sul prezzo del petrolio, l’esportazione più importante della regione. Sono finiti i tempi in cui l’Opec poteva dettar legge al resto del mondo. In seguito alla crisi petrolifera del 1973-74, le nazioni imperialiste e i grandi monopoli hanno preso una serie di misure per tener basso il prezzo del petrolio. L’Opec praticamente non esiste più, con conseguenze a lungo termine. D’altro lato, per l’imperialismo, il Medio Oriente rimane una zona di importanza fondamentale, particolarmente per gli Usa che sono decisi a rafforzare la loro influenza sulla regione con ogni mezzo a disposizione.
Come conseguenza del crollo dello stalinismo, l’imperialismo ha acquisito un dominio totale. Il mondo ha visto raramente una tale concentrazione di potere economico e militare in mano ad un solo paese. Questo fatto si esprime in un’intensificazione dell’oppressione e dello sfruttamento dei paesi ex coloniali dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. Il debito accumulato dal Terzo Mondo è aumentato dai 700 miliardi di dollari di un decennio fa ai 1.200 miliardi circa di oggi. Ciò significa che i popoli ex coloniali sono totalmente asserviti alle potenze imperialiste in generale e agli Usa in particolare.
Questo asservimento si verifica attraverso il meccanismo del mercato e del commercio mondiale, invece del dominio militare-burocratico diretto del passato. Ma gli effetti sulla vita delle masse non sono meno brutali di prima. I termini del commercio sono ponderati a svantaggio dei paesi sottosviluppati i quali, per usare l’espressione di Marx, sono costretti a scambiare "più lavoro per meno". Il prezzo dei macchinari e dei prodotti finiti esportati dai paesi capitalisti sviluppati verso il Terzo Mondo è aumentato molto di più rispetto alle materie prime esportate da questi ultimi. Di conseguenza essi sono costretti a vendere più prodotti per ottenerne di meno. Questa situazione - accompagnata dal crescente indebitamento, dalla rovina delle industrie locali e dall’impoverimento delle masse - contiene tutti gli elementi per un’esplosione in questi paesi di una rivoluzione nel prossimo periodo.
Gli imperialisti statunitensi, europei e giapponesi hanno intensificato i loro sforzi per ritagliarsi mercati, sfere d’influenza e fonti di manodopera e di materie prime a basso prezzo in Africa, Asia e America Latina. Hanno esercitato una pressione spietata su questi paesi perché riducessero le loro barriere doganali e aprissero i propri mercati nel nome della "liberalizzazione". Una tale politica significa la rovina delle deboli industrie locali nell’interesse delle grandi aziende multinazionali, mettendole totalmente in balìa dei banchieri e dei capitalisti stranieri. Di conseguenza il concetto di indipendenza nazionale si riduce ad una frase priva di contenuto. I popoli coloniali sono legati al carro dell’imperialismo mondiale molto più strettamente che in qualsiasi periodo della storia.
La crisi dei paesi ex coloniali è illustrata dal persistere di guerriglie in Colombia e Perù e in una certa misura anche in Messico. Nell’eventualità di una nuova recessione economica scoppierebbero inevitabilmente nuove guerriglie in altri paesi, che potrebbero portare alla formazione di regimi di bonapartismo proletario(1), particolarmente in condizioni di profonda recessione su scala mondiale. Il carattere instabile dei regimi di tutti questi paesi è senz’altro un fattore importante nella condotta dell’imperialismo Usa nei suoi rapporti con paesi come Iraq, Iran, Libia e Cuba e, in precedenza, in Somalia, Grenada, Panama e Libano. Prima della Seconda guerra mondiale Trotskij previde che gli Usa sarebbero emersi come potenza capitalista dominante del mondo, ma con dinamite posta alle sue fondamenta. Ora vediamo che la sua prospettiva sta per avverarsi.
Fallimento della borghesia coloniale
Trotskij previde inoltre che la borghesia coloniale non avrebbe potuto offrire una soluzione ai problemi dei paesi coloniali arretrati e semifeudali. La storia del Terzo Mondo, particolarmente dal 1945, dimostra in modo impressionante la validità della teoria della rivoluzione permanente(2). In nessun posto la debole e corrotta borghesia coloniale è riuscita a trovare una via d’uscita dall’abisso della povertà, dell’analfabetismo e dell’arretratezza. Cinquant’anni dopo la cosiddetta indipendenza, la borghesia indiana non ha risolto nemmeno uno dei problemi del subcontinente. La questione agraria, la modernizzazione, la questione nazionale e l’indipendenza, nessuno di questi problemi è stato risolto; non è stato abolito nemmeno il sistema delle caste. L’emergere del fondamentalismo indù è una dimostrazione eclatante del fallimento della borghesia indiana, che in passato si definiva laica e addirittura "socialista".
Come risultato dei saccheggi dell’imperialismo e dell’impossibilità di sviluppare la società sotto il capitalismo, sono ricomparsi elementi di barbarie in molti paesi ex coloniali: Uganda, Ruanda, Burundi, Sierra Leone, Liberia, Cambogia, Somalia, Haiti, Afghanistan, Algeria e persino Pakistan. L’ondata di integralismo islamico che ha interessato il Medio Oriente e altre zone è il prezzo che si paga per i crimini dello stalinismo(3) che, con la teoria delle "due fasi"(4), consegnava il potere alla borghesia coloniale, marcia e corrotta, in situazioni in cui l’avrebbe potuto prendere la classe operaia. Fu così specificamente in paesi come Iran, Iraq, Sudan e Indonesia. In tutti i casi questa politica portò alla catastrofe e all’ascesa di dittature mostruose come quella di Saddam Hussein.
Nonostante la campagna propagandistica ipocrita che oggi viene portata avanti da Washington e Londra, gli imperialisti avevano accolto e sostenuto il sanguinario dittatore di Baghdad e sono stati disposti ad armarlo e a finanziarlo finché serviva al loro scopo, cioè come contrappeso all’Iran che, fino all’invasione del Kuwait, era visto come nemico principale nella zona. Solo quando Saddam, come risultato di uno stupido errore della diplomazia Usa, decise di impossessarsi del Kuwait nel 1990, hanno cambiato atteggiamento. Improvvisamente questi ipocriti hanno "scoperto" che Saddam Hussein è un dittatore, un mostro disumano, che "faceva la guerra contro il proprio popolo". Tutto questo era volto a suscitare l’ostilità contro l’Iraq e a preparare l’opinione pubblica per la guerra del Golfo. Non aveva assolutamente nulla a che fare con la difesa della sovranità del "povero piccolo Kuwait", ma era dettato dal fatto che gli Usa non potevano permettere a Saddam Hussein di impossessarsi del petrolio kuwaitiano, che gli avrebbe assicurato un dominio schiacciante sul Golfo Persico, minacciando così la posizione degli alleati-chiave dell’America: l’Arabia Saudita e le altre monarchie feudali reazionarie del Golfo.
Basandosi sui timori di questi reazionari governanti arabi e sull’interesse delle altre potenze per il petrolio arabo, Washington riuscì temporaneamente a cucire insieme un’instabile "coalizione" che gli servì come foglia di fico per coprire la sua brutale aggressione. Come di solito avviene in guerra, furono mobilitate tutte le forze della massiccia macchina propagandistica per mentire, ingannare e manipolare l’opinione pubblica riguardo il vero carattere del conflitto. In particolare si diede da bere all’opinione pubblica occidentale un’immagine "igienica" dei bombardamenti aerei, che vennero presentati come un’operazione chirurgica praticamente senza spargimento di sangue, in cui "bombe intelligenti" distinguevano attentamente fra gli obiettivi militari e la popolazione civile. Questa bugia è stata totalmente demolita; la sanguinosa campagna di bombardamenti fu un massacro su scala mai vista dal tempo della Seconda guerra mondiale (forse con l’eccezione del bombardamento del Nord Vietnam e della Cambogia). Almeno centomila persone fra uomini, donne e bambini furono massacrati inutilmente per portare avanti gli interessi degli imperialisti e dei baroni del petrolio statunitensi.
Terrorismo palese
Quale fu lo scopo di questa operazione? Semplicemente affermare il potere militare schiacciante degli Usa, spaventare e terrorizzare le masse, non solo del Medio Oriente, ma del mondo coloniale in generale. Il messaggio di Washington era brutale nella sua chiarezza: "Fate come vi diciamo, o sarà peggio per voi!". Mentre s’indignano contro il "terrorismo", gli imperialisti, bombardando intere popolazioni, ricorrono al terrorismo più crudele, distruttivo ed indiscriminato. Con tali mezzi "civili" e "cristiani", i difensori dei valori occidentali sono riusciti a mettere in ginocchio l’Iraq. Tuttavia l’intera storia della guerra moderna dimostra che per vincere una guerra non è sufficiente la supremazia aerea. In ultima istanza occorrono truppe terrestri per occupare il paese nemico e sottometterlo alla propria volontà. La storia dei bombardamenti aerei smentisce l’affermazione (fatta spesso dai generali dell’aviazione per giustificare le enormi somme di denaro pubblico spese per i loro giocattoli) per cui nella guerra moderna si può sconfiggere il nemico con la sola forza aerea.
Questo punto è stato spiegato recentemente dal Financial Times:
La copertura aerea è necessaria, ma non è sufficiente; occorrono anche truppe a terra. Comprensibilmente gli Usa non amano dispiegare forze terrestri nelle guerre altrui (…). Ricostituire ora un’opposizione efficace nel paese non sarà facile, ma rimane l’unica strategia che abbia una possibilità reale di cacciare Saddam. Finché questa non sarà instaurata, nuovi bombardamenti non otterranno altro che ulteriori sofferenze e odio in tutta la regione verso gli Stati che li hanno lanciati. (11/2/98)
I feroci bombardamenti aerei da parte di Hitler non misero in ginocchio la Gran Bretagna; al contrario rafforzarono la decisione del popolo britannico a continuare la guerra. Nello stesso modo i bombardamenti selvaggi del Nord Vietnam e della Cambogia da parte degli Usa non impedirono la sconfitta della potente macchina militare statunitense nel sud-est asiatico. Fin dal tempo di quella sconfitta (la prima vera sconfitta militare subita dagli Usa) l’establishment militare e il Congresso si sono mostrati riluttanti ad impegnare truppe terrestri in qualsiasi parte del mondo. Questo spiega l’estrema esitazione che hanno avuto prima di mandare truppe sia ad Haiti che in Bosnia.
Invece nel periodo fra le due guerre mondiali non ebbero esitazioni a mandare i marines in qualsiasi paese provocasse loro fastidio. "I marines sono sbarcati e la situazione è sotto controllo", era il solito titolo dei giornali. Ora non più. Sia nel Libano, sia in Somalia gli americani si sono insanguinati il muso. Così dopo il crollo dell’esercito iracheno non sono avanzati su Baghdad, nonostante non ci fosse nulla che li potesse fermare. Sapevano benissimo che una cosa era occupare Baghdad e un’altra reprimere a lungo l’intero popolo iracheno. Napoleone osservò che con le baionette si può fare qualsiasi cosa tranne sedercisi sopra. Nonostante tutta la sua potenza, l’esercito statunitense non avrebbe potuto superare la resistenza del popolo iracheno. Si sarebbe trovato di fronte ad un movimento di resistenza nazionale, di stile vietnamita, con le conseguenze più terribili.
Non dimentichiamo che la guerra del Vietnam fu conclusa dal massiccio movimento contro la guerra negli Usa e dallo stato d’animo da ammutinamento dei soldati americani stessi, che secondo uno dei generali americani era analogo a quello della guarnigione di Pietrogrado nel 1917. Se fosse esistito negli Usa un partito rivoluzionario di massa, la situazione avrebbe potuto portare alla rivoluzione.
Per paura di una tale situazione gli Usa hanno esitato e perso l’unica occasione che avevano di eliminare Saddam Hussein. Hanno sperato che Saddam rimanesse indebolito, o anche che venisse rovesciato da generali dissidenti oppure dai curdi o dagli sciiti. Ma anche per questo hanno tentennato. Temendo le conseguenze, sul resto della regione, della disintegrazione dell’Iraq non hanno aiutato né i curdi né gli sciiti. Invece, con un’arroganza incredibile, hanno imposto le cosiddette "no fly zones", una palese violazione della sovranità dell’Iraq sul proprio spazio aereo. Non essendo soddisfatta di questo, Washington ha deciso di sottoporre il popolo iracheno agli orrori dell’inedia di massa attraverso un blocco economico criminale, i cui effetti sono descritti dall’Economist nel seguente brano a commento delle conseguenze della riduzione parziale dell’embargo, il piano "petrolio per cibo":
Il piano attuale, avviato lo scorso aprile, "fornisce a malapena le necessità di base per vivere", secondo Denis Halliday, uomo dell’Onu in Iraq. Un terzo dei due miliardi di dollari finanzia le operazioni degli Usa e compensa le vittime della guerra. Della parte rimanente, 805 milioni di dollari si spendono per alimenti, 210 per la sanità e il poco che resta per l’infrastruttura danneggiata dell’Iraq: energia elettrica, sistemi igienici e istruzione. Il denaro non è affatto sufficiente. Negli ospedali mancano non solo medicine come antibiotici, ma persino guanti per i medici e lampadine per le sale operatorie. La razione alimentare mensile dura quindici giorni e la malnutrizione è diffusa. Annan (segretario generale dell’ONU, ndt) vuole aumentare il consumo energetico pro capite da 2.030 a 2.450 calorie giornaliere, includere più proteine nel paniere e fornire alimenti supplementari per quasi 2 milioni di persone particolarmente vulnerabili. La maggior parte degli iracheni impegnano tutto il loro tempo per la sopravvivenza. Le scuole sono vuote, senza libri di testo, (altro che computer!). I bambini si assentano per mendicare ai semafori in tutta Baghdad. Gli edifici della città si stanno sbriciolando; molti sistemi di fognatura sono crollati. Le strade sono state trasformate in mercatini dell’usato dove la gente vende scarpe vecchie e altri oggetti (7/2/98).
Come risultato del feroce bombardamento dei civili iracheni e della successiva imposizione di un brutale blocco economico che ha ridotto le masse irachene alle miseria e alla fame più orrende, Washington è riuscita solo a rafforzare la posizione di Saddam Hussein. Ogni nuova umiliazione dell’Iraq è servita sempre a questo scopo. Ha unito i popoli arabi intorno al dittatore di Baghdad come la macchina propagandistica di Saddam non avrebbe mai potuto fare. Dovunque è visto come un eroe arabo e un combattente contro l’imperialismo, nonostante la storia dimostri come non sia niente del genere.
Il presidente Truman osservò una volta che i generali americani erano incapaci di marciare e di masticare chewing gum allo stesso tempo. Evidentemente lo stesso è vero per i diplomatici Usa; Washington ha commesso una gaffe dopo l’altra. Saddam Hussein si sente così sicuro di sé che ha armato le masse per la difesa del paese, persino le donne. Se gli Usa tentassero un’invasione dell’Iraq, avrebbero di fronte un altro Vietnam. Proprio per questo motivo, sia il Congresso sia il Pentagono sono implacabilmente contrari. Questo fatto dimostra le limitazioni del potere degli Stati Uniti. Pur disponendo di una potenza di fuoco senza precedenti e senza un avversario degno di questo nome, non sono in grado di usare il potere che hanno in mano. È per questo che ora tornano a minacciare attacchi aerei.
Armi chimiche
Nelle parole di un diplomatico francese della vecchia scuola, "questo è peggio di un crimine, è un errore"! Cosa si otterrebbe con un tale bombardamento? L’ulteriore distruzione dell’Iraq; l’uccisione di decine di migliaia di persone. E a quale scopo? La posizione di Saddam non sarebbe indebolita, ma rafforzata. Inoltre ci sarebbe una conflagrazione in tutto il Medio Oriente; le ambasciate americane sarebbero distrutte. Quando le notizie e le immagini delle vittime civili venissero all’attenzione del pubblico, crescerebbe la ripugnanza in Usa e Gran Bretagna. Se il conflitto si protraesse, aumenterebbe l’opposizione. Per questo motivo le autorità Usa vorrebbero fare un colpo veloce per abbattere alcuni obiettivi chiave e poi ritirarsi il più velocemente possibile. Ma l’idea che sia possibile semplicemente bombardare obiettivi militari senza provocare numerose vittime civili è assurda. E ancora più assurda è l’idea di "cancellare" l’arsenale chimico e biologico di Saddam coi bombardamenti. Anche se Baghdad possiede ancora scorte di antrace e di altri simpatici prodotti forniti in passato da aziende occidentali con il beneplacito dei governi di Londra e di Washington, come si può sapere dove sono, se la situazione attuale dipende dal fatto che Baghdad ha impedito agli ispettori dell’Onu di scoprirle? Il Guardian ammette:
Una valutazione delle informazioni da parte di Whitehall (il governo britannico, ndt) ha rivelato all’inizio di questa settimana che l’Unscom, organismo di ispezione dell’Onu, semplicemente non sa quante testate chimiche o biologiche utilizzabili giacciono nascoste. (11/2/98)
Anche se disponessero di tali informazioni dettagliate, il bombardamento è il metodo meno adatto per eliminare batteri altamente contagiosi e letali. Secondo il dott. Douglas Holdstock,
i gas nervini come il VX e gli agenti biologici come l’antrace potrebbero andare dispersi lontano come risultato di bombardamenti; bisognerebbe centrare con precisione l’obiettivo per produrre le alte temperature e le pressioni necessarie per distruggere con certezza le armi; pare che le conoscenze per potere raggiungere una tale precisione non siano disponibili. Se l’Iraq ha armi chimiche e biologiche montate su missili utilizzabili, questi potrebbero essere usati in una prima risposta ad un tale attacco. Una zona contaminata di germi di antrace rimane inabitabile per anni. Un solo milligrammo (una goccia) di VX, che può essere assorbito attraverso la pelle, è letale nel giro di pochi minuti in assenza di cure intensive e di antidoti specifici (ibid.).
I risultati di una tale pazzia devono essere sufficientemente evidenti anche ai responsabili non troppo furbi della politica statunitense sull’Iraq.
L’ultima invenzione della macchina propagandistica angloamericana è che i bombardamenti saranno condotti in modo tale che le alte temperature risultanti distruggeranno tutti i germi. Ciò implica che il bombardamento sarà di un’intensità tale da provocare tempeste di fuoco, come quelle che distrussero Dresda nella Seconda guerra mondiale, con un’orrenda perdita di vite umane. Non si può sfuggire a questa conclusione: lo scopo del bombardamento non è di "cancellare" le armi segrete, reali o immaginarie, di Saddam, ma intimidire e terrorizzare il popolo iracheno e chiunque altro osi dire no agli Usa. Il trattamento riservato all’Iraq vuole essere un’affermazione del potere statunitense. È un avvertimento a tutto il mondo che chiunque si opponga agli Usa sarà schiacciato nella polvere, nello stesso modo di quelle città che osavano opporre resistenza ai re assiri dell’antichità.
Ipocrisia nauseante
Naturalmente la stampa servile di Gran Bretagna e Usa sta svolgendo fedelmente il ruolo che gioca sempre alla vigilia della guerra: quello di un megafono per la propaganda reazionaria e di disinformazione che sgorga dai rispettivi Ministeri degli Esteri al fine di presentare i nemici come dei mostri e dei barbari subumani, per preparare così l’opinione pubblica all’imminente massacro. In questo caso c’è una lieve variazione sul vecchio tema. Il popolo iracheno non è cattivo, ma languisce sotto il tallone del dittatore Saddam. Verissimo… ma quale è stato l’atteggiamento della Gran Bretagna e degli Stati Uniti verso questo mostruoso dittatore?
Scrivendo sul Guardian del 9 febbraio Paul Foot osserva giustamente:
(…) Saddam stesso non sarebbe dov’è oggi se non avesse avuto l’appoggio del Pentagono e di Whitehall. Secondo una persona così autorevole come Oliver North (colonnello USA molto attivo nel Golfo persico durante gli anni ‘80, ndt), il governo statunitense, fin da quando iniziò nel 1980 la guerra fra Iran e Iraq, "prese di nascosto la parte dell’Iraq" sotto il suo nuovo dittatore Saddam Hussein. Quando la guerra finì otto anni dopo, lasciando ad entrambe le parti una montagna di debiti e un milione di cadaveri, i governi degli Usa e della Gran Bretagna si precipitarono a vendere armi al dittatore di Baghdad.
In uno scritto euforico sull’Iraq, William Waldegrave, che era allora un sottosegretario "moderato" presso il ministero degli Esteri, non sapeva contenersi: "Dubito che esista altrove un mercato potenziale di una tale dimensione in cui la posizione potenziale della Gran Bretagna sia così buona, se giochiamo bene le nostre carte, né riesco a pensare ad un mercato significativo dove il ruolo della diplomazia per la nostra posizione commerciale sia così importante". Lui e i suoi colleghi allentarono i regolamenti sull’esportazione di armi all’Iraq e nel paese entrò un fiume di "mezzi di difesa" britannici. Quando due anni dopo Saddam utilizzò questa attrezzatura per invadere il Kuwait e minacciare i rifornimenti di petrolio a basso prezzo per gli Usa, divenne rapidamente un "brutale dittatore" e fu schiacciato. Nel momento della sconfitta militare, egli sembrava essere finito; finalmente il popolo iracheno aveva via libera per cacciare l’odiato oppressore. Ma poi la politica degli Usa invertì di nuovo la rotta: le forze vittoriose degli alleati non vennero schierate in modo da far cadere Saddam, ma anzi per mantenerlo al potere. La prospettiva di una rivolta popolare provocava molta più paura della continuazione del regime di un dittatore brutale. Tutta la regione avrebbe potuto rimanere "destabilizzata"! I curdi iracheni avrebbero potuto conquistare la propria autonomia, ispirando le comunità curde altrove. Che ne sarebbe stato allora dei regimi "stabili" di Turchia e Siria? Così Saddam sopravvisse, non per caso, come suggeriva qualcuno, né tantomeno per una perversa compassione, ma per un piano preciso.
Per decenni la Gran Bretagna e gli Usa non solo sostennero Saddam Hussein, non solo lo armarono, ma addirittura gli fornirono di orrende armi di distruzione che ora dicono ipocritamente di voler eliminare per il bene dell’umanità. Per la verità, tutte le grandi potenze erano e sono impegnate nella produzione di armi chimiche e batteriologiche. Il Guardian fa notare che dopo la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti svilupparono armi che utilizzavano antrace, febbre gialla, tularemia, brucellosi e altre febbri, più malattie mirate a colpire i raccolti;
La Gran Bretagna non è stata contraria allo sviluppo di tali armi. Durante la Prima guerra mondiale la Gran Bretagna accumulò una scorta di cinque milioni di blocchetti di mangimi per bovini, infetti di antrace, da lanciare sul bestiame tedesco nel caso che gli scienziati del Kaiser avessero usato armi biologiche. Alla fine della guerra erano impegnati gruppi britannici, statunitensi e canadesi nello sviluppo di una bomba "antipersonale" ad antrace che però non fu mai prodotta (Guardian, 11/2/98).
La Gran Bretagna e gli Usa giocarono entrambi un ruolo importante nel creare l’arsenale biologico iracheno da usare contro l’Iran. Secondo lo stesso articolo, nel 1986 forme specifiche di antrace, clostridium botulinum e clostridium perfringens, pagate di nascosto dai militari iracheni, furono consegnate all’Università di Baghdad con la piena approvazione del Dipartimento di commercio statunitense. Nel 1987-88 l’Iraq ha potuto ordinare da aziende, sia inglesi, che svizzere 39 tonnellate di sostanze di supporto, sufficienti per coltivare 4 tonnellate di batteri.
L’ipocrisia della propaganda con cui l’Occidente cerca di giustificare la propria aggressione contro l’Iraq è mostrata dal fatto che l’America, che pretende che gli iracheni aprano ogni angolo e recesso ai suoi ispettori, sta preparando contemporaneamente la legislazione per impedire un’ispezione internazionale simile delle proprie scorte di armi chimiche che indubbiamente sono di gran lunga più imponenti di quelle di qualsiasi altro paese del mondo:
Gli Stati Uniti, che si preparano per fare la guerra con l’Iraq per aver bloccato le ispezioni internazionali delle sue armi, hanno preparato una legislazione sull’ispezione del proprio arsenale chimico in modo che il Presidente possa vietare l’ingresso agli ispettori internazionali. La proposta di legge permette inoltre al Presidente di scegliere gli ispettori e di negare l’accesso, senza precisarne i motivi, ad individui di certi paesi, senza possibilità di ricorso legale contro le sua decisione. Così i due dettagli del codice di ispezione per cui gli Usa minacciano la guerra contro l’Iraq sono entrambi specificamente omessi. (…) Il senatore Joseph Biden ha avvertito: "Con poche eccezioni, il rifiuto di un’ispezione regolarmente autorizzata sarebbe in violazione della convenzione [sulle armi chimiche]".
Ieri Amy Smithson, che aveva condotto da sola una campagna per la ratifica statunitense della convenzione, ha detto: "Siamo in violazione del trattato ed è davvero ironico il fatto che stiamo per entrare in conflitto con l’Iraq sulla questione dell’ispezione delle armi, poiché Saddam Hussein ha rivendicato precisamente le stesse eccezioni che abbiamo fatto noi".
Il Guardian ha saputo che due ispettori - un cubano ed un iraniano - sono già stati esclusi dagli Usa. Certo che Washington potrà considerare tali ispettori come ostili ai suoi interessi… ma è precisamente lo stesso argomento usato da Baghdad sulla preponderanza di ispettori statunitensi - e britannici - nel gruppo ora contestato. Il senato ha dato al Presidente il potere di andare oltre, approvando una legge che gli permetterebbe di negare qualsiasi richiesta di ispezionare una struttura adducendo che tale ispezione possa costituire una minaccia agli interessi della sicurezza nazionale. Anche questo non è molto diverso dal diritto rivendicato da Saddam Hussein di escludere dal controllo certe installazioni (Guardian, 12/2/98).
Francia, Cina e Russia
Già prima che si lancino le prime bombe, la politica statunitense in Medio Oriente è un disastro. La vecchia coalizione è caduta in pezzi. L’Arabia Saudita ha rifiutato di concedere l’uso delle sue basi per gli attacchi aerei contro l’Iraq; la Turchia deve ancora chiarire la propria posizione. Solo Kuwait e Bahrein - entrambi fantocci dell’imperialismo con popolazioni minuscole e regimi feudali reazionari - hanno acconsentito all’utilizzo delle loro basi. Il re Hussein di Giordania è andato a Londra a pregare gli inglesi di non procedere ai bombardamenti. Per peggiorare le cose, la Francia, la Russia e la Cina si sono dichiarate contrarie.
Questo non è casuale. Nel 1990 l’Urss aveva dato il via alla guerra contro l’Iraq, nonostante quest’ultimo fosse considerato un suo alleato. In quel periodo Mosca subiva l’influenza di Washington e inoltre poteva usare l’Onu come una comoda copertura. Ma ora le cose sono cambiate. C’è una crescente reazione contro il capitalismo e l’umiliante dipendenza dall’Occidente in generale e dall’America in particolare. La casta militare ribolle di malcontento per i ripetuti cedimenti, particolarmente l’estensione della Nato fino alle frontiere della Russia. Ulteriori attacchi aerei statunitensi contro l’ex alleato Iraq provocheranno un’ondata di rabbia nelle caserme russe e daranno un’ulteriore impulso nella direzione di un golpe. Tutti questi fattori spiegano le prese di posizione di Eltsin, compresi i suoi discorsi sul pericolo di una "guerra mondiale", ecc.
La Cina, di fronte alla prospettiva di una crisi economica e di malcontento sociale al suo interno, si sta tranquillamente armando per difendere i propri interessi in Asia e su scala mondiale. Nonostante le dimostrazioni pubbliche di solidarietà, il conflitto d’interesse fra Cina e Usa si sta intensificando. Il surplus commerciale della Cina nei confronti degli Stati Uniti si sta avvicinando rapidamente al livello di quello giapponese. La recente raffica di critiche in America sulle violazioni dei diritti umani, che per qualche strano motivo non venivano notate prima, ma improvvisamente trovano espressione persino nei film di Hollywood, riflette in fondo un crescente umore protezionista negli Usa, diretto non solo contro il Giappone, ma appunto anche contro la Cina. L’appoggio di Washington a Taiwan e in generale le sue ambizioni di dominare l’Asia hanno provocato le suscettibilità nazionaliste della Cina che nell’ultimo periodo si è avvicinata alla Russia. L’opposizione all’egemonia statunitense sta così preparando la strada ad un blocco futuro fra Mosca e Pechino, il che deve riempire Washington di apprensione.
La Francia ha una propria politica da seguire. Parigi non ha mai abbandonato la sua ambizione di giocare il ruolo di potenza mondiale; non si è rassegnata alla perdita d’influenza a vantaggio dell’America in Africa e Medio Oriente. I francesi vogliono l’accesso alle riserve petrolifere irachene e lucrosi appalti edili una volta che si sarà normalizzata la situazione; come risultato della loro posizione attuale, è probabile che otterranno entrambe le cose. La Francia si è distanziata in modo ben visibile dagli Usa. In questo c’è sicuramente un elemento vendicativo; nel conflitto dello Zaire la Francia, appoggiando Mobutu, ha sostenuto la parte perdente. Di conseguenza ha perso un’importante sfera d’influenza in Africa, mentre gli Usa hanno guadagnato sostenendo Kabila (anche se nella guerra del Congo-Brazzaville, dove sono stati sconfitti i burattini degli Usa, la Francia ha spalleggiato la parte vincente). Bruciando di rancore per la sua sconfitta nello Zaire, Parigi ora intende prendersi la rivincita su Washington manovrando per l’influenza nel Medio Oriente. È inutile dire che gli interessi del popolo iracheno non c’entrano nulla con tutte le manovre diplomatiche dell’imperialismo francese che servono a sottolineare il fatto che, in fondo, quasi tutte le guerre "piccole" che si svolgono nel Terzo Mondo sono in definitiva conflitti per procura fra i vari gruppi imperialistici.
Crisi del Medio Oriente
Tuttavia le conseguenze più gravi si fanno sentire nel Medio Oriente. Un nuovo attacco all’Iraq non otterrebbe l’obiettivo desiderato - la rimozione di Saddam Hussein - ma darebbe un forte impulso al movimento antimperialista in tutto il mondo arabo e anche più lontano. Questo è il motivo principale per cui paesi come l’Arabia Saudita non sono disposti a permettere che gli attacchi aerei Usa siano lanciati dalle loro basi. Questi regimi reazionari sono già visti dalle masse come fantocci dell’Occidente. Se facessero vedere che appoggiano una nuova offensiva contro il popolo iracheno, ciò potrebbe portare alla loro caduta.
Già prima della crisi attuale c’erano chiari segnali che il regime Saudita aveva problemi. Si parla di divisioni all’interno della famiglia reale. Questo indubbiamente riflette una crisi profonda della società saudita. La caduta del prezzo del petrolio non permette più alla cricca governante di dare alla propria popolazione le riforme e le concessioni che in passato assicuravano la stabilità al regime. Si sta accumulando un malcontento che può produrre lo stesso tipo di rovesciamento che si vide vent’anni fa con la caduta dello Scià d’Iran. Oltre ai problemi economici la mancata risoluzione del problema palestinese e la condotta provocatoria dell’imperialismo israeliano alimentano lo scontento delle masse di tutta la regione. È precisamente il timore delle masse che spinge la cricca governante reazionaria saudita a cercare di distanziarsi ora dalle attività dell’imperialismo Usa.
I timori che un attacco all’Iraq provochi sconvolgimenti rivoluzionari nel Medio Oriente sono stati espressi apertamente sulle pagine della stampa borghese:
Il bombardamento dell’Iraq potrebbe innescare un’ondata di radicalismo islamico e di nazionalismo arabo in tutta la regione, destabilizzando i governi arabi laici e rovesciando il processo di pace in Medio Oriente; è quanto hanno osservato ieri funzionari e commentatori egiziani. (…) Hani Shukrallah, direttore dell’edizione settimanale in lingua inglese dell’Al-Ahram, ha detto: "(…) se iniziano i bombardamenti, vedremo una reazione. Insorgeranno i popoli in tutto il mondo arabo e questo potrebbe sfuggire ad ogni controllo. Se Israele risponderà al fuoco, possiamo immaginare quale effetto avrà". Mohamed El-awa, avvocato e attivista islamico, ha detto: "Non credo che regimi come Giordania ed Egitto resisteranno a lungo. La loro caduta avverrà rapidamente entro uno o due anni, come risultato diretto del bombardamento dell’Iraq" (Guardian, 11/2/98).
Il problema palestinese rimane la contraddizione centrale nel Medio Oriente. La caduta dell’Urss ha provocato un mutamento del rapporto fra le forze presenti nella regione. Inizialmente Washington pensava di poter ridurre la propria dipendenza dal regime israeliano in quanto principale baluardo della reazione in Medio Oriente, che per motivi sia economici che strategici è una zona di importanza fondamentale per gli Usa. Gli americani non hanno interesse a guerre e instabilità in questa zona vitale. Speravano di spingere Tel Aviv verso un accordo con l’Olp, cosa che avrebbe ridotto la tensione e contemporaneamente avrebbe allargato la sfera d’influenza degli Usa nel mondo arabo. Questo però è un sogno. Le contraddizioni inerenti a questo conflitto non si possono risolvere sulla base del capitalismo. Rabin e la direzione del Partito Laburista israeliano erano pupazzi fedeli di Washington ed erano disposti a portare avanti la sua politica, ma i coloni e la destra israeliana sono rimasti impassibili. L’assassinio di Rabin e l’elezione di Netaniahu hanno cambiato completamente l’equazione. In ogni caso le "concessioni" ai palestinesi non costituiscono per loro una vera soluzione, ma offrono solo un irrisorio staterello monco che dipenderebbe totalmente da Israele. Sotto Netaniahu anche le limitate concessioni previste dall’accordo di Oslo sono state sistematicamente erose. Questo ha creato una situazione esplosiva fra i palestinesi, che porterà facilmente ad una nuova Intifada.
Un nuovo attacco all’Iraq potrebbe essere la scintilla che accenderà la polveriera. Ci sono state già manifestazioni di rabbia nei territori palestinesi a sostegno dell’Iraq. Il fatto che l’Autorità nazionale palestinese abbia vietato queste manifestazioni semplicemente sottolinea il fatto che Arafat e compagnia sono diventati servi di Tel Aviv. Se questa situazione continuerà, possono trovarsi esclusi. Per lo stesso motivo re Hussein di Giordania è terrorizzato dalla reazione delle masse di fronte ad un attacco all’Iraq ed ha proibito anche lui le manifestazioni. Ma se scoppiano le ostilità è del tutto possibile che venga rovesciato. Una rivoluzione in Giordania potrebbe provocare l’intervento armato degli israeliani per conto dell’imperialismo Usa per impedire che la rivoluzione si estenda agli altri paesi, ma un tale sviluppo avrebbe conseguenze esplosive in tutto il Medio Oriente.
Anche in Iran la situazione è esplosiva. Dopo 20 anni di potere dei mullah le masse cominciano a muoversi. La caduta del prezzo del petrolio ha colpito duramente l’Iran (un barile di grezzo iraniano si vende ormai a soli 12 dollari). Dato che il petrolio fornisce il 30% delle entrate totali dell’Iran e l’80% della valuta estera, ciò minaccia di destabilizzare le finanze del paese. Sebbene l’ultima legge finanziaria preveda un aumento di spese del 16%, si tratta in termini reali di un taglio, dato un tasso d’inflazione del 25%. Se si considera che il 40% della spesa pubblica è destinato all’istruzione e che in Iran ci sono 20 milioni di studenti, è evidente il potenziale di sconvolgimenti sociali. L’Iran è già colpito dal calo degli investimenti nell’industria, nelle costruzioni e nel commercio al dettaglio. L’elezione del presidente Khatami è stata un’indicazione dell’opposizione che cresce. C’è una chiara divisione fra l’ala di Khatami e il parlamento conservatore (il Maijlis). È possibile che un attacco all’Iraq rafforzi l’ala fondamentalista, ma un tale sviluppo avrebbe un carattere temporaneo. Lo scatenarsi di una nuova ondata di manifestazioni anti-Usa ha una logica propria che il regime nelle condizioni attuali troverebbe difficile controllare.
La rivista Middle East International osserva (30/1/98):
Gli Usa, o per lo meno settori dell’establishment politico di Washington, sono decisi a fermare l’industria petrolifera iraniana privandola di investimenti internazionali e costringendo Teheran a piegarsi alla politica Usa e israeliana
nella zona.
L’insolenza dell’imperialismo Usa, che tenta di subordinare tutto il Medio Oriente al proprio controllo, produrrà una reazione uguale e opposta.
Il fatto che gli americani possano anche solo contemplare una tale azione dimostra una miopia estrema. L’ottusità dei loro rappresentanti diplomatici è personificata da Madeleine Albright che crede di poter sottomettere i governanti mediorientali con prediche nello stile di una maestra elementare provinciale che parla con i suoi scolaretti. Tuttavia i rappresentanti più seri del capitalismo hanno dato severi avvertimenti contro una tale azione. Il generale che comandava le forze Usa nella guerra del Golfo ha indicato i pericoli di un nuovo attacco aereo:
Il Generale Norman Schwarzkopf, ex comandante dell’operazione Desert Storm, ha avvertito ieri che se gli Stati Uniti bombarderanno l’Iraq corrono (…) "il rischio di ripetere quello che (hanno) fatto al Nord Vietnam" In quella guerra i bombardamenti Usa si intensificarono senza però raggiungere obiettivi militari o politici. "È senz’altro un rischio", ha detto il gen. Schwarzkopf: "Cosa succederà dopo?" (Guardian, 9/2/98).
Il ruolo dei riformisti di destra e di sinistra (5)
Tutti, dal direttore del Financial Times al Papa, hanno espresso forti apprensioni per l’avventura proposta. Eppure Tony Blair si è precipitato ad appoggiare i bombardamenti.
La posizione di Blair si può spiegare sotto due punti di vista: la posizione reale del capitalismo inglese nel mondo e la politica del riformismo di destra. In primo luogo, si riflette qui il totale crollo del potere del capitalismo britannico su scala mondiale. La distruzione della base industriale dell’Inghilterra l’ha ridotta allo status di una potenza di terzo livello. Malgrado le pretese di Blair e dei nazionalisti conservatori, la Gran Bretagna in realtà non è che un’isola di poco conto al largo di un’Europa in cui tutte le decisioni importanti vengono prese dalla Germania e dalla Francia. Il cosiddetto "rapporto speciale" con l’America è semplicemente un altro modo per esprimere la dipendenza umiliante della Gran Bretagna dal gigante d’oltreoceano. Tuttavia dal punto di vista dell’imperialismo Usa la Gran Bretagna gioca un ruolo utile quale unico alleato affidabile in Europa. Questo ora è stato sottolineato dalla fretta indecente con cui Blair si è precipitato a sostenere la proposta d’azione statunitense contro l’Iraq. Il primo ministro britannico ha fatto la parte del barboncino di Clinton e ciò esprime precisamente il vero rapporto che c’è fra la Gran Bretagna e gli Usa. Senza l’appoggio della Gran Bretagna, gli Stati Uniti avrebbero trovato molto più difficile procedere all’azione militare, poiché nessun altro era disposto a giocare questo ruolo.
Il marxismo spiega che la politica estera è solo la continuazione della politica interna. Come tendenza politica il riformismo di destra riflette le pressioni dirette del capitalismo all’interno del movimento operaio. Molto di più di quegli uomini politici che rappresentano apertamente la borghesia, i dirigenti della destra laburista esprimono gli interessi della classe dominante nel modo più rozzo e servile. Così sul fronte della politica interna Blair sta portando avanti una politica brutale di tagli che va anche oltre quanto i conservatori osavano contemplare. Nel campo della politica estera Blair assume un atteggiamento ancora più servile verso l’imperialismo Usa. Nei due casi la causa è la stessa: un’accettazione servile dei dettami delle banche e delle aziende monopolistiche, a livello nazionale ed internazionale. Questo, dopo tutto, è il ruolo storico del riformismo di destra, solo che Blair lo ha portato ad un punto estremo.
In nessun contesto la contraddizione fra le parole e i fatti del riformismo di destra emerge più chiaramente che nel campo della politica estera. Quando i laburisti erano all’opposizione, promettevano di "non rilasciare licenze di esportazione per la vendita di armi a regimi che potrebbero usarle per la repressione interna o per l’aggressione internazionale", così come quando la loro vendita avrebbe potuto "intensificare o prolungare i conflitti armati esistenti o dove tali armi potrebbero essere usate per violare i diritti umani". Quando è entrato in carica, il ministro degli esteri Cook ha fatto presto ad emanare una dichiarazione della propria missione in cui prometteva di "mettere i diritti umani al centro della nostra politica estera". Malgrado ciò la Gran Bretagna rimane una delle maggiori esportatrici di armi; secondo cifre pubblicate questa settimana (dal Military Balance 1997-98, dell’International Institute for Strategic Studies, 14/10/97), la Gran Bretagna ora controlla quasi un quarto del mercato mondiale di armamenti, precisamente il 22,1% - superato solo dal complesso militare-industriale degli Usa - per un valore di 5 miliardi di sterline l’anno (14mila miliardi di lire). A dispetto della cosiddetta "politica estera etica", la Gran Bretagna vende ancora enormi quantità di armi ai regimi reazionari:
I consiglieri legali del governo hanno avvertito che i contratti preesistenti per la vendita all’Indonesia di aerei di addestramento Hawk, di autoblindo Alvis e di idranti Tactica, per un valore di 160 milioni di sterline [460 miliardi di lire], non si potevano revocare. Cook ha insistito che occorre trovare un giusto equilibrio: "La Gran Bretagna è una delle maggiori esportatrici d’armi del mondo", ha detto. "Una tale posizione dominante ci obbliga a prendere sul serio la reputazione del commercio d’armi. Il successo e la responsabilità vanno di pari passo" (Guardian, 16/10/97).
Questa politica non è del tutto priva di interessi acquisiti. Fra i sostenitori imprenditoriali del "New Labour" di Blair vi sono produttori di armi, come ha osservato il Sunday Times:
Il Partito Laburista ha ricevuto di nascosto migliaia di sterline da produttori stranieri di armamenti, attraverso un’organizzazione messa in piedi da un amico di Tony Blair. Una delle aziende è la Thomson-CSF, il gigante francese delle armi che in passato è stata accusata di aver tentato di vendere attrezzatura militare di alta tecnologia all’Iraq (…). La Thomson, che è in parte proprietà del governo francese ed è una delle maggiori aziende di armi in Europa, è una delle quattro aziende straniere che hanno offerto migliaia di sterline al partito attraverso attività di raccolta di fondi a cui hanno assistito Blair e ministri di alto livello. Robin Ashby, un importante finanziatore dei laburisti e consulente di pubbliche relazioni, che aveva gestito le donazioni, dice che hanno contribuito le compagnie statunitensi Lockheed-Martin e Boeing e l’azienda francese Trimarine. Al Labour sono stati canalizzati fondi di altre otto aziende, comprese la British Aerospace e la Babcock International (…). I contributi di denaro non sono stati elencati così dal Partito Laburista nella lista ufficiale dei donatori, pubblicato il mese scorso. Invece compaiono sotto il nome di Ashby (…). Egli dice che una parte dei soldi che il Labour descrive come un suo contributo è in realtà denaro fornito da aziende di armamenti britanniche e straniere. "Il mio nome è nell’elenco dei donatori perché raccoglie tutto", ha detto (Sunday Times, 23/11/97).
I legami diretti fra i riformisti di destra, il grande capitale e l’imperialismo sono sufficientemente evidenti. La loro "politica estera etica" è una finzione. Qui l’unica etica in gioco è quella del gran capitale e dei suoi sostenitori militari e diplomatici, ovvero l’etica della giungla. È questa stessa "etica" che taglia il misero sussidio ai genitori singoli ed ai disabili, che vuole obbligare i disoccupati ad accettare posti di lavoro a basso salario ed ha permesso la chiusura di ospedali e miniere da parte dei conservatori. Questo sta già provocando una reazione fra i militanti del partito e dei sindacati, preparando un grande spostamento a sinistra. Se Tony Blair crede di aumentare la sua popolarità con "misure dure" contro l’Iraq lo aspetta una grande sorpresa. Nonostante una propaganda continua sul dittatore di Baghdad, armi da incubo ecc., non c’è entusiasmo per la guerra in Gran Bretagna. Sebbene una maggioranza si sia espressa a favore della politica del governo, il Guardian fa notare che è chiaro che [l’appoggio all’azione militare] non è affatto analogo al livello rivelato da un sondaggio simile del Guardian/ICM nel settembre 1990, poco prima della guerra del Golfo, né prima della partenza delle forze britanniche per le isole Falkland nel 1982. Allora il pubblico sostenne la partecipazione britannica alla guerra del Golfo col 71% a favore e il 19% contrario; la decisione di inviare la "task force" alle Falkland fu appoggiata dal 78% (Guardian, 10/2/98).
In contrasto con la politica palesemente filoimperialista dei riformisti di destra, quelli di sinistra si oppongono al bombardamento dell’Iraq e questo fa loro onore. Tuttavia lo fanno non da una posizione socialista e di classe, ma dal punto di vista di un confuso pacifismo. Si lamentano che queste azioni sono "contrarie alla legge internazionale". Però la legge internazionale è priva di significato quando sono in gioco gli interessi fondamentali dell’imperialismo. Chiedono una "soluzione diplomatica", ma la diplomazia capitalista è solo una giustificazione degli interessi delle grandi potenze, che in ultima istanza devono essere difesi con la forza delle armi, come fanno presente Blair e compagnia, giustamente dal loro punto di vista. Peggio ancora, persistono nel presentare le cosiddette Nazioni Unite come arbitro accettato dei rapporti internazionali e difensore della pace nel mondo e dei diritti umani. È un’illusione e un inganno. Chi determina la politica delle Nazioni Unite? Le grandi potenze, particolarmente gli Stati Uniti. L’Onu è in grado di "risolvere" solo dei conflitti secondari che non riguardano direttamente gli interessi delle grandi potenze. È stata utilizzata frequentemente come una comoda copertura per atti di aggressione imperialista. Non dimentichiamo che la guerra del Golfo (come quella di Corea e l’intervento reazionario nel Congo nel 1960) fu condotta sotto la bandiera dell’Onu. I due pesi e due misure dell’Onu si vedono in chiaro rilievo se confrontiamo la sua inattività totale riguardo le risoluzioni sulla questione palestinese con l’agilità con cui scatenò l’assalto barbaro all’Iraq. Diffondere illusioni nell’Onu suppone l’abbandono di una politica socialista. L’unica politica che possono difendere autentici socialisti è basata su un punto di vista internazionalista e di classe.
È vero che Saddam Hussein è un dittatore, un mostro e un nemico del popolo iracheno. Ogni marxista deve opporsi implacabilmente al regime iracheno. Ma il compito di saldare i conti con Saddam Hussein spetta ai lavoratori ed ai contadini dell’Iraq; non lo si può affidare agli imperialisti che, ricordiamoci, sostennero ed armarono Saddam Hussein per decenni e ruppero con lui solo perché rifiutava di essere un burattino obbediente. L’ipocrisia di questi sedicenti democratici si può smascherare facilmente col fatto che, senza battere ciglio, continuano a sostenere e ad armare altri regimi reazionari e dittatoriali del Medio Oriente. La Turchia opprime e massacra i curdi (ed ha appena approfittato della situazione per lanciare un nuovo attacco ai curdi dell’Iraq, senza destare condanne da parte di Londra e Washington); l’Arabia Saudita è una dittatura feudale reazionaria; Israele opprime spietatamente i palestinesi. Ma tutto questo va benissimo, purché sostengano gli interessi americani.
Che si combatta sotto la bandiera dell’Onu, quella della Nato o qualsiasi altra è una questione senza alcuna importanza; il risultato finale sarà lo stesso. Anche se riuscissero a rovesciare Saddam Hussein, lo sostituirebbero con un altro pupazzo reazionario, disposto a ballare secondo la musica di Washington. Questo fatto è stato dichiarato apertamente nel seguente brano dell’Observer:
John Sweeney parla con i democratici iracheni e svela i progetti segreti dell’Occidente per sostituire il loro oppressore (…). La domanda è: se riusciremo finalmente ad avere la testa di Saddam, chi lo sostituirà? (…) Il terzo contendente, il dott. Ahmad Chalabi, è presidente del consiglio esecutivo del Congresso nazionale iracheno e si presenta con un programma democratico. (…) Un rappresentante importante degli Usa ha detto: "La Cia e l’MI6 hanno versato milioni di dollari in gola a questo tizio. Ci sono stati molti pranzi al Dorchester [un albergo di alta classe di Londra - ndt], ma a parte quello non abbiamo niente in mano".
(…) Dice la deputata di sinistra Anne Clwyd: "Il motivo per cui i ministeri degli esteri degli Usa e della Gran Bretagna sono ora guardinghi nei confronti del dott. Chalabi è che egli ha contestato la vergognosa doppiezza politica dell’Occidente verso il popolo iracheno". Il dott. Chalabi (…) aveva delineato la politica effettiva (e non le pubbliche relazioni) dell’Occidente verso l’Iraq. Secondo questa il popolo di quel paese non è ancora pronto per la democrazia. L’Occidente non vuole un democratico, ma un bel generale sunnita. Il metodo ideale per sbarazzarsi di Saddam sarebbe un golpe militare, non un’insurrezione. Ha detto con voce dura: "È deludente e assurdo. Nella politica reale dell’Occidente c’è un elemento di disprezzo e di razzismo. E i più inutili sono i progressisti".
Ma l’Occidente non lo farà [promuovere un’insurrezione] perché teme di non poter mettere un generale sunnita al vertice nel caso che la sollevazione popolare riuscisse. E il problema della strategia golpista dell’Occidente è che non funzionerà. Saddam si è reso a prova di golpe. Se ne sta a Baghdad, dentro il più interno di una serie di cerchi concentrici. All’esterno c’è l’esercito; i carri armati sono a 150 chilometri da Baghdad. Poi c’è la Guardia Repubblicana e dopo quella la Guardia Repubblicana Speciale.
Chalabi ha detto: "Certo che il Congresso nazionale iracheno ha ricevuto denaro dalla Cia, ma quando ho criticato la politica occidentale sull’Iraq, i soldi non sono più arrivati". L’errore del dott. Chalabi e degli altri romantici del Congresso nazionale iracheno sembra essere stato un altro: che quando i governi occidentali dicevano di volere la democrazia in Iraq, ci hanno creduto. Quello che l’Occidente vuole veramente, a quanto pare, è un despota più accettabile di Saddam… e se questo manca, allora Saddam può rimanere. Chalabi ha scosso la testa e ha ripetuto: "È vergognoso. Semplicemente ammazzeranno un sacco di iracheni innocenti, ma non rimuoveranno Saddam" (Observer, 8/2/98).
Mentre scriviamo, non è ancora del tutto chiaro se all’ora dei fatti le minacce americane e britanniche saranno messe in pratica o se Saddam, come è successo così spesso in passato, andrà fino all’orlo del precipizio solo per ritirarsi all’ultimo momento. Questo non è da escludersi. Tuttavia la guerra ha una propria logica e può mandare a vuoto i migliori progetti della diplomazia. Una volta che si è dato l’ordine della mobilitazione, è difficile mettere la macchina in retromarcia senza perdere la faccia.
Il prestigio nella politica internazionale può spesso diventare una forza materiale. L’obiettivo bellico essenziale dell’imperialismo statunitense (e in una certa misura anche di quello britannico) è precisamente di dimostrare il proprio potere. Ritirarsi palesemente di fronte alle manovre diplomatiche di Baghdad vanificherebbe tutta l’impresa. Le cose sono andate troppo in là per questo. Perciò l’andirivieni dei diplomatici francesi e russi non ha avuto il minimo effetto, né tantomeno i piagnucolii dei pacifisti, nonostante le buone intenzioni che esprimono. No. Qui le questioni serie vengono risolte con mezzi seri, cioè militari. Ma è sempre stato così in tutta la storia, come ben sa qualsiasi persona informata. Lo si può rimpiangere, ma è comunque la realtà.
L’unico modo in cui i bombardamenti si possono evitare nelle circostanze attuali è con una capitolazione totale da parte di Baghdad. Saddam dovrebbe accettare integralmente ogni condizione che gli venisse richiesta. Questo lo potrebbe fare per evitare quella che evidentemente vuole essere una terribile punizione. Ma potrebbe anche non farlo; è impossibile da prevedere. In ogni caso la crisi attuale offre lezioni importante ai comunisti ed ai lavoratori di tutto il mondo. Quando si pongono questioni decisive, solo i marxisti possono offrire una ferma posizione di classe basata sui princìpi. Ogni altra posizione politica manca alla prova.
Il caso attuale non è un’eccezione. Soprattutto è necessario contrastare la menzogna per cui le manovre attuali dell’imperialismo anglo-americano possano servire agli interessi del popolo iracheno, alla democrazia, alla pace o a qualsiasi altro obiettivo progressista.
L’idea stessa che coloro che hanno assassinato centomila persone nei bombardamenti e sono responsabili della morte di oltre un milione di bambini attraverso un blocco economico disumano e indiscriminato possano giocare in qualche modo un ruolo progressista in Iraq è un’abominazione e una bugia. Tutti gli autentici socialisti devono opporsi implacabilmente alle aggressioni (sia militari sia economiche) dell’imperialismo contro il popolo iracheno. Dobbiamo sostenere ogni sforzo per costruire un’opposizione indipendente e socialista della classe operaia in Iraq, impegnata a rovesciare la sanguinaria dittatura di Saddam per sostituirla con un’autentica democrazia operaia. Un Iraq socialista sarebbe un faro per i popoli oppressi del Medio Oriente. Potrebbe diventare la base per l’instaurazione di una federazione socialista del Medio Oriente, l’unico modo in cui si possa mettere fine all’orrore della guerra e dei conflitti etnici e religiosi e creare le basi per un futuro armonioso e progressivo di tutti i popoli.
Ted Grant e Alan Woods - Londra, 13 febbraio 1998
Note :
1.- Bonapartismo Proletario: Il concetto di bonapartismo venne sviluppato da Marx in riferimento a Luigi Bonaparte, l’imperatore francese del XIX secolo che in una situazione di stallo nello scontro tra la borghesia e il proletariato (dopo la rivoluzione del 1848) si alzò demagogicamente "al di sopra delle classi" per meglio difendere il capitalismo.
Appoggiandosi nell’apparato militare e poliziesco colpì il parlamento e le regole della democrazia borghese presentandosi come il salvatore dell’"unità nazionale" e in ultima istanza della borghesia stessa. I capitalisti furono costretti a subirlo perché non erano in grado di mantenere il dominio sulla società coi "normali metodi del parlamentarismo".
Si parla, più specificatamente, di bonapartismo proletario quando ci si riferisce agli ex regimi burocratici di "socialismo reale" dell’est, regimi in cui la borghesia era stata espropriata in nome del socialismo e della classe lavoratrice, ma senza la partecipazioni dei lavoratori, che non esercitavano alcun controllo democratico sui processi decisionali. Il termine venne coniato da Trotskij in riferimento alla degenerazione subita dall’Urss con l’avvento di Stalin.
Il bonapartismo proletario può giocare un ruolo progressista nella misura in cui si basa sull’economia pianificata e sulle nazionalizzazioni che permettono uno sviluppo maggiore delle forze produttive rispetto alle economie capitaliste, ma in mancanza di democrazia operaia, cioè della partecipazione libera e cosciente dei lavoratori nel controllo dello Stato, è destinato ad entrare in crisi per l’impossibilità a gestire su basi burocratiche una economia pianificata efficiente, soprattutto se si tratta di un’economia moderna e tecnologicamente avanzata.
2.- Rivoluzione permanente: Teoria sviluppata da Trotskij dopo la rivoluzione del 1905. Essa spiega come nel ventesimo secolo, quando il capitalismo diventa un sistema mondiale, la "rivoluzione democratica borghese" nei paesi coloniali e arretrati, non può essere guidata dalle deboli e corrotte borghesie nazionali, che di fronte allo spettro della rivoluzione socialista preferiscono allearsi con l’aristocrazia feudale e i latifondisti o giocare il ruolo di vassalli dell’imperialismo dei paesi industrializzati dominanti.
Non essendoci a livello mondiale le condizioni per il sorgere di borghesie rivoluzionarie, assimilabili ai giacobini francesi, i "compiti della rivoluzione democratica" (abbattimento della casta feudale, creazione dello Stato nazionale, riforma agraria, distribuzione delle terre e formazione di una democrazia parlamentare) passano nelle mani del movimento operaio, il quale non può limitarsi ad abbattere lo Stato reazionario aspettando che la borghesia sviluppi un sistema capitalista democratico borghese ma deve avanzare sulla strada della rivoluzione socialista e assicurarsi, come unica classe progressista nella società, il controllo dello Stato e del suo governo.
La dimostrazione pratica di questa teoria, come lo stesso Lenin ammise, si ebbe nella Rivoluzione d’Ottobre dove risultò evidente l’inconsistenza della borghesia russa e dei suoi rappresentanti a dirigere una rivoluzione democratica e la necessità per i bolscevichi di mettersi sulla strada della rivoluzione proletaria (linea consacrata dalle famose tesi di aprile) perchè la classe operaia portasse a termine attraverso i soviet i compiti della rivoluzione borghese assieme a quelli della rivoluzione proletaria.
3.- Stalinismo: Viene così definita la pratica politica della burocrazia sovietica che si è via via rafforzata trovando in Stalin una figura determinante nella sua battaglia contro il resto della direzione bolscevica. Dopo la morte di Lenin, Stalin sostituì la democrazia operaia con il "culto della personalità", la discussione aperta tra compagni con "l’ubbidienza cieca alla linea del partito", il centralismo democratico di Lenin con una forma di "centralismo burocratico".
Senza principi, tranne quello di mantenersi al potere a qualsiasi costo, Stalin si mise a capo della burocrazia nascente in un processo che Trotskij definì "controrivoluzione Termidoriana" in analogia col Termidoro della Rivoluzione francese che abolì molte delle conquiste della Rivoluzione, senza per questo mettere in discussione i nuovi rapporti di proprietà capitalistici.
4.- Teoria delle "due fasi": Sviluppata dallo stalinismo per "giustificare" la ricerca di alleanze dei partiti comunisti con "improbabili borghesie progressiste". Secondo questa teoria nella prima fase della rivoluzione, quella "democratica" la classe operaia doveva allearsi con la borghesia "democratica"; dopo sarebbe arrivata la seconda fase, quella "socialista". Dalla Cina negli anni ‘20 all’ Africa negli anni ‘50 e ‘60 l’applicaziona di questa teoria portò sempre alla sconfitta delle rivoluzioni e a dittature sanguinarie.
5.-Riformismo di destra e di sinistra: Il riformismo è quella corrente di pensiero presente nel movimento operaio che vede nel capitalismo un sistema migliorabile attraverso le riforme. I riformisti di destra non solo considerano il capitalismo riformabile ma lo considerano un sistema che non può e non deve essere abbattuto. Quelli di sinistra pensano che si possa arrivare al socialismo (o comunque a una società non basata sul profitto) attraverso le riforme senza una rottura rivoluzionaria. Ovviamente si tratta di una generalizzazione utile a distinguere le diverse sfumature che esistono tra due concezioni diverse che hanno però una base politica comune.
13 febbraio 1998