Nonostante i colloqui di pace e le risoluzioni Onu si susseguano a ritmo serrato, la guerra civile in Libia si inasprisce e assume contorni sempre più violenti.
Il paese è diviso in due: a Tobruk, nell’Est del paese il governo di Al-Thinni, filo-occidentale e sostenuto dall’Egitto, a Tripoli il governo guidato da Omar al-Hassi sostenuto da Turchia e Qatar. In mezzo, le milizie dell’Is che controlla la regione intorno a Sirte.
I governi occidentali premono per un governo di unità nazionale al fine di combattere la minaccia del terrorismo fondamentalista, ma un qualunque accordo sembra molto lontano. Al nuovo round di colloqui apertisi in Marocco lo scorso 13 marzo il governo di Tobruk (quello “legittimo” per la comunità internazionale) non si è presentato.
Il conflitto in Libia non è una guerra meramente tribale ma è diventato il teatro di scontro fra varie potenze imperialiste e soprattutto fra diverse potenze regionali. Un inferno creato dall’imperialismo, che ha sostenuto e finanziato qualunque gruppo ribelle che si proclamasse nemico di Gheddafi.
Non è facile infatti trovare un accordo quando il governo di Tobruk, che dovrebbe essere il principale referente dell’occidente, decide di stracciare tutti i contratti petroliferi stipulati con imprese turche. La colpa di Ankara? Sostenere apertamente il governo di Tripoli.
Il ruolo crescente dell’Egitto, che attraverso bombardamenti massicci ha costretto, per il momento, l’Is a ritirarsi da Derna, è visto come una minaccia aperta per Al-Hassi e i suoi.
La ritirata è comunque solo temporanea e la recente alleanza tra lo Stato islamico e Boko Haram, che sta espandendo la sua influenza al Niger, confinante con la Libia, pone ulteriori pericoli all’integrità di una Libia ove la prospettiva di uno scenario somalo è sempre più probabile.
La differenza tra la Somalia e la Libia è dovuta alla posizione e alle risorse di materie prime.
La ricchezza di petrolio e il fatto che la Libia si affacci sul Mediterraneo non ne fanno un paese di cui non si possa a lungo ignorare le vicende.
Le Nazione Unite, che agiscono per procura delle potenze occidentali, cercheranno fino all’ultimo di trovare un accordo per l’unità nazionale. Se mai dovessero scegliere l’intervento diretto, lo farebbero scendendo in campo a fianco di Al-Sisi e del governo di Tobruk, di cui, il generale Khalifa Haftar, uomo della Cia, è appena diventato capo dell’esercito.
Il governo Renzi ha ribadito il pieno appoggio ad Al-Sisi nella sua recente visita a Sharm el Sheik. “La stabilità dell’Egitto è la nostra stabilità”, tralasciando volutamente il fatto che il governo dei generali non è un esempio né di libertà né di democrazia. Sono migliaia i detenuti politici che affollano le carceri egiziane, tra cui i principali dirigenti dei movimenti di sinistra, mentre dal 2012 il paese è senza un parlamento eletto.
Il governo italiano ha compreso che un intervento di terra diretto con proprie truppe è difficilmente realizzabile. Dietro i proclami che puntano alla soluzione politica Renzi (e Hollande) sono disponibili a sostenere Al-Sisi nella lotta all’Isis. I generali incassano l’appoggio (e i contratti stipulati con multinazionali come l’Eni) ma un’eventuale offensiva egiziana in Libia, lungi dal risolvere la guerra civile contribuirà
alla frantumazione ulteriore del paese.
Nessuna fiducia nei negoziati, così come nessun appoggio alle borghesie e ai governi che si affollano come avvoltoi sulla Libia martoriata. Questa è la bussola che deve guidare l’azione dei comunisti in Italia.