“Dialogo nazionale” o indipendenza di classe?
“Né laico né islamista: la nostra rivoluzione è quella del povero”
(Zwewla [i proletari], gruppo di graffitari tunisini)
A tre anni dalla cacciata di Ben Ali non c’è traccia di trasformazione sociale. Ad aprile lo hanno ricordato i minatori della provincia di Gafsa, insorti contro bassi salari e dispotismo aziendale; nella città di Metaloui, operai e giovani disoccupati hanno assaltato e dato alle fiamme commissariato di polizia, tribunale e sede del partito islamico Ennahda.
Disoccupazione e inflazione sono alle stelle, le ricchezze minerarie (fosfato) sono gestite da un’élite, s’allargano le differenze tra le regioni costiere, offerte come “zone speciali” al capitale straniero, e quelle, abbandonate, dell’interno. L’apparato statale – giudici e polizia in primis – è rimasto intatto e rialza la testa, ad esempio riducendo con motivazioni grottesche le pene per i responsabili della repressione contro l’insurrezione che rovesciò Ben Ali dopo 347 morti e migliaia di feriti.
Malgrado ciò, la Tunisia è presentata dai liberali come l’esito più maturo della “primavera araba”, a causa della transizione “morbida” e parlamentare seguita alla fine dei governi islamici di Ennahda, partito legato ai Fratelli musulmani egiziani. Nel gennaio 2014, infatti, la quasi totalità dei parlamentari ha approvato la nuova Costituzione “di compromesso”, il Primo ministro di Ennahda si è dimesso ed il paese è guidato da un governo di “tecnici”, appoggiati da tutti i partiti e incaricati di convocare elezioni politiche entro l’anno. La fine del monopolio di Ennahda, screditata per le sue politiche liberiste e la sua complicità coi vili omicidi di due dirigenti della sinistra tunisina (Choukri e Brahmi), è stato il frutto del “Dialogo nazionale”, sostenuto dall’alleanza interclassista creatasi nell’autunno 2013 tra il principale sindacato operaio (Ugtt), l’unione degli industriali (Utica), la Lega per i diritti umani e l’ordine degli avvocati. A livello politico, il “Dialogo nazionale” è stato appoggiato dal Fronte di salvezza nazionale, coalizione di partiti capeggiata da Appello per la Tunisia di Essebsi – punto di riferimento della grande borghesia laica e riciclatore di “benalisti” ma anche di burocrati dell’Ugtt – e partecipato anche dal Fronte popolare (Fp), cartello elettorale costituito da una dozzina di organizzazioni di sinistra e panarabiste, tra cui Partito dei lavoratori e Movimento dei patrioti democratici. Il Fronte di salvezza nazionale è nato dopo l’omicidio di Brahmi, luglio 2013, quando la risposta rabbiosa dei giovani aveva sospeso in aria gli islamici. Nel pieno della rivolta, un comunicato del Fp aveva addirittura strizzato l’occhio ai militari, invitando “esercito e forze di sicurezza a proteggere il popolo tunisino ed a permettergli di esercitare le sue libertà tra cui quella di manifestare per completare la rivoluzione”.
“Larghe intese” contro la rivoluzione?
In vista delle elezioni, Essebsi copre di elogi l’attuale governo e propone il prolungamento dell’unità nazionale, inclusiva di Ennahda, il cui capo, Ghannouchi, si augura a sua volta un voto a favore di un “governo di coalizione con tutti, o quanto meno col maggior numero possibile di partiti, ma anche con la società civile, i sindacati, le associazioni padronali, e con l’inclusione di Ennahda”. Né Appello per la Tunisia né Ennahda si sentono sufficientemente forti per soffocare da soli l’energia suscitata dal processo rivoluzionario. La loro alleanza è ritenuta necessaria per la stabilizzazione anche dall’imperialismo occidentale. In tale quadro, la politica del Fp è concretizzata dalla permanenza nel Fronte di salvezza nazionale, nell’intento di evitare l’alleanza tra Appello per la Tunisia ed islamici. L’attuale strategia del Fp è di creare un “fronte democratico” in funzione anti-islamica, ipotizzando peraltro che tale coalizione possa avanzare misure per “alleviare l’impatto della crisi economica sulle masse”. Tale linea ha sollevato discussione nelle principali formazioni del Fp. L’integrazione nel Fronte di salvezza nazionale è, infatti, basata sull’idea dell’esistenza nella borghesia tunisina di un settore patriottico e produttivo. Tale prospettiva, tracciata dai gruppi maoisti e stalinisti tunisini già negli anni ’70, determina alleanze a perdere per i lavoratori. Chi è infatti Essebsi? Consigliere di primo piano del presidente tunisino dell’indipendenza, durante la dittatura di Ben Ali presiedette il parlamento e fu nominato Primo ministro del secondo governo provvisorio post Ben Ali: un uomo dell’apparato statale che domina ferreamente la società da decenni. Il suo partito è stato il solo a non solidarizzare coi parenti delle vittime della rivoluzione, infuriati all’idea di dover vedere i responsabili della repressione uscire di galera nei prossimi mesi. In economia, Essebsi continuerà la politica liberista seguita sinora e il debito estero – equivalente al 46% del Pil – sarà ripagato fino all’ultimo centesimo, perché “un paese che si rispetti, quale che sia il governo, paga i propri debiti”. Ennahda non dice nulla di diverso. Per la Tunisia il pagamento degli interessi sul debito – 8,5 miliardi di euro – è la terza voce nel bilancio dello Stato, un fardello sulla società, e tra i percettori delle cedole ci sono molti membri dell’oligarchia di Ben Ali. Più in generale, il padronato tunisino è all’attacco: chiede il ritorno al subappalto ed al lavoro precario, il congelamento dei salari, la condanna degli scioperi che insidiano la prosperità delle imprese, finanziamento pubblico alle società private in crisi, repressione del commercio informale. Appello per la Tunisia ed Ennahda saranno esecutori, nei limiti dei rapporti di forza reali, di questo programma. Nessun punto programmatico del Fronte popolare potrà realizzarsi in alleanza con Essebsi: né la tassa del 5% sui profitti delle imprese petrolifere, né la sospensione del pagamento degli interessi sul debito in attesa di audit, né – tantomeno! – la soppressione del segreto bancario. Neanche una vita democratica potrà realmente svilupparsi senza una rottura sociale col capitalismo. La forza politica emergente in campo borghese, Appello per la Tunisia, è moderatamente laica ma soprattutto è spudorata nella difesa degli abusi di polizia e non dice nulla sulle migliaia di tunisini ancora in carcere o sotto processo per manifestazioni e scontri di piazza risalenti alla cacciata di Ben Ali. Oggi in Tunisia si può finire sotto processo o persino in carcere per aver lanciato un uovo contro il Ministero degli interni o quello della cultura... Recentemente, l’arresto di sei artisti per possesso di hashish è stato preceduto dal furto in casa di uno di loro, Abidi, di un hard disk col suo nuovo film, nel quale denunciava la complicità della polizia tunisina coi trafficanti nelle tratte dell’immigrazione clandestina e le politiche dell’Ue.
In epoca di crisi economica strutturale, i diritti democratici, sempre meno compatibili con l’esistenza del capitalismo nei paesi imperialisti, sono ancor più fuori dall’agenda delle borghesie dei paesi ex-coloniali. Cercare la via di una rivoluzione “democratica”, da anteporre storicamente alla rivoluzione sociale, conduce in un vicolo cieco.
La rottura del Fronte popolare col Fronte di salvezza nazionale è dunque necessaria per una strategia socialista e rivoluzionaria. Tra gli oppressi sono ancora vive le forze risvegliatesi nel 2011, basarsi esclusivamente su di esse è vitale: dalla conflittualità operaia – di cui i minatori di Gafsa sono l’avanguardia – alle lotte di decine di migliaia di giovani dell’associazione “laureati disoccupati”, dalla rabbia dei giovani delle periferie di Tunisi in piazza per un mese dopo l’assassinio di Brahmi fino alla sete di terra dei contadini, ignorati da governi che promettono terra in saldo a compagnie qatarine e saudite. Puntando sull’indipendenza di classe ed un audace programma rivoluzionario di ripudio del pagamento del debito, riforma agraria ed esproprio della borghesia – a partire dalle colossali ricchezze dei Ben Ali-Trabelsi –, il Fp potrebbe divenire quella forza politica di cui in Tunisia gli sfruttati hanno bisogno. Sennò, la “rivoluzione dei gelsomini” potrebbe entrare in un triste “inverno”.
In Tunisia, l’antagonismo è in primo luogo tra classi sociali. Quello scontro, dal versante proletario, non può autolimitarsi nella camicia di forza di una fantasmatica rivoluzione “democratica” che non tocchi i rapporti sociali. La società ha perso quel tratto di unanimità proprio della prima fase di ogni rivoluzione, i lavoratori devono concluderla.