Note critiche sulla proposta di “documento sardo” al prossimo congresso nazionale
Così come “in vista del congresso del Partito, Rifondazione Comunista deve cominciare a fare politica” (1), l’appuntamento offre anche l’occasione di affrontare nuovamente la questione sarda.
Per noi che, al pari di altri, viviamo in questa terra, ne parliamo la sua lingua e ne conosciamo le sue sofferenze, tutto questo non è un problema quanto un motivo di confronto, anche se non pensiamo che occorra aspettare i congressi, né per fare politica, né per praticare la trasformazione a partire dalla terra in cui viviamo. Ma il congresso è alle porte ed è qui che ora si misureranno le diverse opzioni. Ebbene, pur non conoscendo ancora i documenti nazionali (o meglio solo una prima traccia del documento alternativo a quello che avrà come firmatario il segretario Ferrero), la questione sarda cala nel dibattito schierandosi aprioristicamente con quello maggioritario non ancora prodotto, e quindi neanche analizzato e discusso, attraverso uno scritto di 26 pagine intitolato “Una sinistra sarda per l’unità popolare”. Ci pare del tutto assurdo chiedere garanzie alla minoranza etnica sarda (quale noi tutti siamo) attraverso “rapporti di parità con il nazionale”, agendo però in un modo che non tiene minimamente conto delle minoranze politiche all’interno della comunità Rifondazione. Ci si dichiara anticolonialisti giudicando calata dall’alto qualsiasi cosa provenga da Roma e poi si applica una politica che per ironia della sorte oseremmo definire coloniale provando a blindare il congresso (negli intenti in accordo con la maggioranza nazionale) ben prima che la discussione abbia inizio.
Possiamo certamente intuire che il fine è un altro, ovvero basarsi sull’articolo 23 dello statuto del Prc (2), per far scaturire dall”autonoma proposta politica” una rappresentanza tale da garantire il controllo del partito nell’isola alla variegata (geograficamente e non solo) area politica che tale documento sostiene. Detto questo e non andando oltre, poiché non conosciamo ancora il regolamento nazionale del congresso, andiamo ora ad analizzare il documento nel merito delle questioni affrontate.
L’unità popolare e le alleanze della sinistra sarda
Il documento che si pone l’obiettivo di costruire “una sinistra sarda modernamente rivoluzionaria” alla fine è quanto di più moderato possa esserci. Non si rompe infatti con il quadro interclassista delle alleanze. Infatti, pur differenziandosi poco dalla prassi consolidata del partito che a parole si vorrebbe cambiare, si ripete come un mantra il binomio “unità autonomia” che in ultima istanza si è sempre tradotto in una perdita della nostra autonomia tanto nelle maggioranze e nei governi nazionali quanto nelle giunte locali. Non è un caso che l’occhio dei compagni vada a strizzare immancabilmente alla Giunta Soru: “Le forze progressiste sarde devono tenere conto che la Sardegna può, a brevissimo, conoscere una stagione simile a quella sperimentata tra il 2004 ed il 2009”.
Non possiamo glissare sul perché i quattro anni e mezzo guidati dal patron di Tiscali abbiano spianato la strada a Cappellacci e ai suoi: concertazione al ribasso sulle estenuanti vertenze aziendali (con l’assessore al lavoro in quota Prc), pasticcio Abbanoa con un servizio idrico di fatto privatizzato seppur a capitale pubblico, contadini stritolati nelle campagne senza una politica di classe sul credito, continue manifestazioni dei lavoratori della formazione professionale ampiamente disprezzati (vedi un nostro articolo dell'epoca ).
La dimostrazione di come non si possa agire negli interessi dei più deboli rimanendo in quadro capitalista se era chiara nel 2004-2009 lo è ancor di più ancora oggi. Non la pensano così i nostri, in un contesto decisamente peggiore: “Un comunista per assolvere al suo ruolo deve sempre darsi l’obiettivo di incidere sulla società e, quindi, verificare la possibilità di allearsi con chi, magari in modo organico, rappresenta interessi diversi dai nostri”. Rimarcando quanto detto a riguardo delle possibilità di incidere in quadro del genere, rimane un mistero come tale verifica debba essere condotta, forse rinunciando all’alleanza solo quando il Pd vira ancora più a destra (3). Non sia mai che la rottura avvenga da parte nostra su basi di classe! Per ciò che riguarda le alleanze sociali nel documento si legge invece: “Il nostro essere colonia fa si che il nostro blocco sociale debba comprendere sotto-proletariato, proletariato classico, nuove forme di lavoro subordinato o parasubordinato, agricoltori e pastori, piccoli intellettuali, pensionati, artigianati, piccoli imprenditori, emigrati ed immigrati. Un blocco sociale composito, che agisce in modo nettamente diverso rispetto al passato”. A parte il fatto che scorrendo il documento non si capisce se la Sardegna sia una colonia o semi-colonia (4), non ci riconosciamo nella tendenza che nega la centralità della classe operaia nella trasformazione dell’esistente.
Solo attraverso un programma operaio fondato sull’esproprio delle industrie che licenziano, che impongono prezzi da fame ai pastori e che inquinano si può unificare l’agricoltura e la pastorizia con la trasformazione finalizzandole alle effettive esigenze della popolazione sarda. Solo attraverso la nazionalizzazione del credito si possono liberare quelle risorse necessarie alla riconversione ambientale dell’industria pesante, alla costruzione delle opere necessarie quali strade, scuole, ospedali, case popolari. Solo in questo modo, con il controllo operaio (e più in generale con il controllo sociale) sulla produzione, sulla distribuzione, sul credito e sulla gestione dei beni comuni si può rendere la Sardegna “più giusta e felice”.
Diversamente la ripetizione continua del “nuovo modello di sviluppo” senza individuarne i protagonisti, gli strumenti e le finalità non aiuta ad uscire da quel vuoto programmatico che in questo modo continuerà a perdurare (nonostante nel documento si rivendichi più di una volta la necessità del programma autonomo). Un programma del genere, che contenendo i veri elementi di “sovranità agita” non dovrebbe dispiacere a quei settori classisti dell’indipendentismo sardo, va quindi ben oltre l’auspicio della chiusura dei poligoni militari e della gestione democratica dell’economia e delle risorse semplicemente partendo da un “maggior coraggio da parte dei nostri amministratori”, dalle “pressioni” regionali “sullo Stato”, dai “rapporti equi con l’Unione Europea” (davvero fuori luogo in periodi come questi di totale fallimento dell’Ue capitalista). La vertenza entrate, con la mancata restituzione dei fondi sottratti alla Sardegna (violando l’art.8 dello Statuto sardo) la dice lunga sull’efficacia di tali pressioni.
Che tipo di organizzazione?
Non è scorretto sostenere, come i nostri fanno, che “il progetto della Rifondazione Comunista, nato poco meno di venti anni fa, è bloccato. Con ciò il gruppo dirigente ai massimi livelli dovrebbe, e non l’ha ancora fatto, confrontarsi. Le ripetute scissioni, l’appoggio a burocrazie sindacali, l’istituzionalizzazione di apparati di partito, l’accettazione tra i dirigenti di azzeccagarbugli e notabili, hanno minato la credibilità e la forza propulsiva del PRC”. Sottolineiamo però che l’opportunismo che caratterizza la direzione del partito deriva da una linea politica riformista e istituzionalista, non solo già ampiamente collaudata da alcuni consiglieri e assessori (ex o attuali, comunali o provinciali) sottoscrittori del documento, ma che qui, come abbiamo visto, viene riproposta attraverso alleanze interclassiste. Ha quindi senso citare Rosa Luxemburg, quando sostiene che “l’opportunismo è una pianta che si sviluppa rigogliosamente nelle acque ferme. In una corrente impetuosa muore da se”. Inoltre quanto viene proposto nel documento per ciò che riguarda le questioni organizzative è una totale apertura al vendolismo, nonostante qui in Sardegna la scissione abbia avuto i connotati più deplorevoli. Ricordiamo il passaggio di consiglieri regionali nel movimento di Vendola dopo essere stati eletti nelle liste di Rifondazione nelle elezioni regionali del febbraio 2009. Che significa, ci chiediamo, lavorare per la costruzione di una sinistra “modernamente post-ideologica”? Se intendiamo per ideologia un punto di vista filosofico elaborato coerentemente (e non certo una liturgia iconografica che a molti può essere attribuita, men che meno a chi scrive queste righe), chi voglia andare oltre è destinato inevitabilmente a riflettere e a far proprie le idee e con esse i pregiudizi della società e dell’ambiente in cui vive. Non lo diciamo a caso: non proporre oggi un programma di trasformazione che veda nel lavoro salariato il soggetto principale è già un riflesso dei pregiudizi piccolo-borghesi che, ad esempio, vedono nei diritti acquisiti dalla classe dei privilegi che portano all’imborghesimento della stessa. Un resoconto dei commenti che puntualmente scandiscono le riunioni di partito confermerebbe la sfiducia nutrita nei confronti della classe, ma allungherebbe di molto questo scritto e perciò abdichiamo.
Da qui la necessità di rappresentare un blocco sociale (cosa sacrosanta) senza però indicare quale classe debba guidarlo. Da qui la necessità di un partito che, anziché costruire un fronte unico con “socialisti, indipendentisti, militanti dei movimenti”, ne sia de essi composto. Un liquidazionismo strisciante, quindi, che va a ripiegare nella ricerca della “leadership autorevole” (poiché “senza di essa non vi è futuro per alcuna organizzazione”, contraddicendosi con quanto detto poche pagine prima: “Non abbiamo bisogno di leader né di “fabbriche” che ne sponsorizzino il nome”) e nel rifiuto della “classica forma-partito”. Su questo secondo aspetto occorre riflettere su quale sia la forma partito alla quale dobbiamo rinunciare. Se si parla dell’attuale “simulacro di un partito, che dedica troppe energie al mantenimento dei suoi organismi” non possiamo non essere d’accordo, ma se si vuole cancellare quanto di buono il movimento operaio del secolo scorso ha prodotto in termini di organizzazione e democrazia interna non ci stiamo. Partendo dal presupposto che il dibattito sulle forme organizzative è quanto di più “vecchio” possa esistere nelle questioni del movimento, occorre secondo noi puntare su un’organizzazione centralizzata con la massima unità nell'azione nel contesto in cui opera (e per questo respingiamo anche le separazioni organizzative su basi etniche (5) ma al tempo stesso democratica secondo il principio della massima libertà della discussione, stravolto in decenni di centralismo burocratico di matrice stalinista. Facendo ovviamente precedere il tutto da una separazione tra corpo militante e sostenitori simpatizzanti per evitare ciò che oggi il partito è: linee politiche decise in ambiti molto ristretti e ratificate dai pacchetti di tessere da spendere di congresso in congresso e correnti interne trasformate da strumenti di proposta a cordate per il controllo dell’organizzazione.
Infine, non è conformandoci ad una società che si vuole definire “liquida”, giustificandone le forme snelle di intervento, che si fa crescere la proposta dei comunisti in un periodo di crisi del capitalismo. Al contrario, solo subordinando l’aspetto parziale (la lotta in difesa dei beni comuni, dei migranti, contro i radar etc...) al piano generale di intervento, elaborazione e attività si possono arricchire e potenziare i singoli aspetti evitando anche che diventino materia per specialisti dei diversi settori.
Conclusioni
Abbiamo sorvolato su molte parti del documento per concentrarci essenzialmente sui nodi da noi ritenuti essenziali. Non affrontiamo come dovremmo, ad esempio, la questione della lingua sarda per ovvi motivi di spazio. Certo siamo convinti che rifiutare forme di standardizzazione (la “variante unica”) porti egualmente alla scomparsa del sardo nelle sue infinite varianti locali. Certo è anche che siamo convinti che ha poco senso avere “bisogno di politici che parlino in sardo” quando non si tiene minimamente conto dell’articolo 76.6 (6) da noi proposto al Congresso nazionale del 2005. Su questa questione, come su altre, ci ritorneremo. Conta ora dire da parte nostra che nonostante il documento si proponga di contribuire al rilancio del Partito, si ripropone il solito autonomismo di stampo riformista, che caratterizzò il Pci e che lo portò nella condizione di governare la regione senza riuscire ad approvare, a proposito, neanche una legge che istituisse il bilinguismo! Il solito battere sulla spalla dello Stato italiano per elemosinare le (poche) risorse per poter meglio gestire l’esistente, e consentire non tanto la creazione di posti di lavoro, il miglioramento sanità etc... ma il normale corso dell’economia capitalistica, così come determinato dalla volontà dei capitalisti italiani, sardi e stranieri e dai loro partiti.
Le magnifiche e recenti lotte dei pastori, degli operai dell’Alcoa e tante altre. hanno dimostrato che cresce il protagonismo delle classi subalterne, ma che in assenza di una chiara strategia di lotta, che si estenda su tutto il territorio sardo (unificando le lotte con quelle dei lavoratori italiani), e di un programma politico di rovesciamento del capitalismo non potrà giungere alla vittoria. Solo la costruzione certosina di un partito di quadri e militanti, che si guadagnino la fiducia nei luoghi di lavoro, nei quartieri poveri e disagiati, nelle scuole, può rafforzare la lotta necessaria alla realizzazione delle misure politiche effettivamente efficaci che dicevamo più sopra. Ancora sulle alleanze: oltre a non escludere affatto quelle con il Pd, nel documento rinveniamo un corteggiamento, trasandato e senza nessuna sostanza politica, nei confronti dell’indipendentismo. Da comunisti dobbiamo dire che la questione sarda (oltre ad essere questione nazionale) si inserisce in un rapporto tra regioni arretrate e più sviluppate che non poteva svilupparsi diversamente all'interno del capitalismo. L’analisi gramsciana sul colonialismo nel meridione e nelle isole ce lo conferma e i dati forniti dai compagni sono di utile supporto in tal senso, ma bisogna anche dire l’unica indipendenza possibile è quella di classe, dei lavoratori sardi e italiani dai loro rispettivi padroni (borghesia compradora e padroni e banchieri italiani) e dai loro agenti istituzionali e politici.
Per tutti questi motivi serve quel partito di classe che ancora oggi nell’intero stato italiano manca e su questa prospettiva baseremo la nostra battaglia politica nell’imminente congresso.
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NOTE
1) http://www.enricolobina.org/wp/2011/08/16/una-sinistra-sarda-per-l%E2%80%99unita-popolare/
2) L’art. 23 dello statuto è il culmine della battaglia congressuale portata avanti dalla componente vendoliana nel congresso del 2008 attraverso un’odg sostenuto anche da alcuni settori della cosiddetta “Mozione Acerbo”.
3) A pagina 22 del documento si fa riferimento ai casi di Olbia, Sinnai e Capoterra, ma sarebbe opportuno citare il caso di Sassari dove comunque il Prc (con Dario Satta consigliere comunale e firmatario del documento da noi analizzato) stava al governo della città (e persino della provincia) insieme ai sardisti del Psd’Az che in regione stavano (e stanno tutt’ora) nella maggioranza guidata da Cappellacci.
4) “Riteniamo che i rapporti centro-periferia che hanno caratterizzato finora la Sardegna e l’Italia – pur essendo la Sardegna parte integrante dello Stato italiano, e nonostante le evoluzioni succedutesi nei secoli – siano di fatto equiparabili a una situazione di dominio semi coloniale”. Evidentemente per giustificare delle alleanze senza la guida operaia siamo una colonia, ma tale status non lo si raggiunge per evitare un diretto ricorso alle leggi internazionali che garantiscono il “diritto all’autodeterminazione per i popoli soggetti a occupazione militare straniera o a dominazione coloniale”
5) Il rifiuto di separare le organizzazioni politiche e sindacali non contraddice la rivendicazione del diritto all’autodeterminazione, del popolo sardo in questo caso.
6) “Nei territori in cui vivono minoranze etniche, linguistiche e nazionali, il simbolo e le scritte del partito devono essere plurilingue, così come gli atti ufficiali ove possibile”.