La mobilitazione dell’ex-Siemens, attuale Jabil, ha creato sconcerto nella cittadinanza marcianisana, quasi stupore. Vedere operai che presidiano una fabbrica, con turni notturni e diurni, che stendono striscioni di protesta e occupano le strade è sembrato un fatto anomalo, eccezionale. Di fronte a tale protesta l’interesse dell’opinione pubblica è stato scarno, quasi inesistente, il tutto è stato liquidato con la solita espressione, «È la crisi!». Troppo spesso la crisi economica che stiamo vivendo viene utilizzata come alibi e data in pasto alla folla per giustificare licenziamenti, tagli salariali, cassintegrazioni e carenza di lavoro.
Questa superficialità d’analisi non permette che siano approfondite questioni che riguardano lo stato di salute reale dell’industria marcianisana e quale sia la qualità del lavoro legata al territorio. La partecipazione della cittadinanza a temi di tale natura è scarna o sviata da luoghi comuni, questo anche a causa della quasi inesistente informazione. Da una indagine socio-economica condotta sui Comuni di Caserta-Ovest risulta che il tasso di disoccupazione generale a Marcianise ammonta al 29,8%, mentre quello di disoccupazione giovanile al 65% e non chiaro risulta il tasso dei lavoratori a nero che in tutto il sud ammonterebbe al 20% secondo i dati Istat. I dati sono allarmanti ed è difficile imputare alla sola crisi economica la responsabilità di quanto sta accadendo. È chiaro che il problema ha radici politiche.
L’occupazione a Marcianise ha il sapore del clientelismo e la controindicazione della politica clientelare è che sviluppa nelle persone un senso di inadeguatezza rispetto alle dinamiche di lotta, come se fosse più facile rivolgersi a qualcuno che sta “in alto” piuttosto che impegnarsi in prima persona affinché le cose cambino.
Si ignora che la storia di Marcianise è sempre andata in tutt’altra direzione. Si ignorano o si tendono a dimenticare le lotte dei disoccupati marcianisani nei grandi cantieri alla fine degli anni ’70 e del post-terremoto. Si ignora che nel 1997 nacque a Marcianise un Comitato dei Disoccupati in Lotta per il Lavoro. All’epoca la città sembrava stesse vivendo una nuova stagione industriale e di lavoro: l’apertura della Marconi Sud, il casello autostradale di Caserta Sud, assunzioni all’ex-Olivetti, i cantieri dell’Interporto, dell’Ospedale nuovo e del Velodromo. Eppure i dati disoccupazionali erano tra i più alti in Italia. L’anno precedente, il 1996, era stato anno di elezioni e tutti questi cantieri, che alteravano coi loro scheletri di cemento il paesaggio locale, erano come una ruota panoramica per i giovani e i disoccupati marcianisani, una ruota manovrata dall’alto, dai più potenti politici locali.
Una delle esigenze che portò alla nascita del Comitato dei Disoccupati era rompere col clientelismo, coi voti di scambio, avere voce in capitolo in ambito occupazionale. Uno dei fondatori del Comitato, Giuseppe Letizia, ne racconta le origini: «Il Comitato dei Disoccupati in Lotta per il Lavoro fu “pensato” in un Congresso straordinario dell’allora circolo del PRC (Partito della Rifondazione Comunista) di Marcianise “A. Gramsci”. Eravamo un piccolo nucleo di una ventina di compagni o poco più, alcuni giovani o vecchi militanti di Democrazia Proletaria che cercavano, attraverso il circolo di Rifondazione, una differente politica, allergica all’istituzionalismo e orientata all’intervento attivo nel sociale, tra i lavoratori e gli studenti, nei quartieri.
Il Comitato lo lanciammo a maggio, credo, del 1997, quando riuscimmo ad avere i fondi per stampare un paio di centinaia di manifesti nei quali convocavamo i disoccupati marcianisani ad unirsi e lottare per il diritto al lavoro, nelle opportunità che c’erano e in quelle che si poteva ed era necessario creare. Chiesi e ottenni di poter utilizzare per la prima riunione la sede dello SPI-Cgil (il sindacato dei pensionati) in p.zza Principe di Napoli, allora unica sede della Cgil a Marcianise. Fu un fiasco. Vennero solo undici persone, tra cui io, Valerio Fretta, un paio di compagni di Rifondazione, un lavoratore delle ferrovie amico di famiglia e solo un paio di disoccupati incuriositi dal nostro manifesto. Ma non ci scoraggiammo, sapevamo che la cosa non sarebbe stata facile e dovevamo ancora dimostrare di credere in noi stessi se volevamo che qualcuno credesse in noi».
Dei fatti conserva ricordi anche Vincenzo Salvatore che entrò a far parte del Comitato dei Disoccupati come studente: « La gente un po’ alla volta iniziò ad incuriosirsi e i disoccupati del bar dietro la piazzetta iniziavano a frequentare sempre più assiduamente le riunioni e sempre più numerosi. A un certo punto si rese necessario un elenco degli iscritti. L’elenco era importante anche per segnare le presenze alle iniziative di lotta in modo che si facesse una sorta di graduatoria nel caso il Comitato dovesse avanzare nomi per i posti di lavoro».
Il Comitato era democratico fino alle estreme conseguenze. Ogniqualvolta c’era da prendere una decisione la si prendeva tutti insieme. Franco Liguori, ancora precario, entrò nel Comitato in una seconda fase ma descrive così l’organizzazione interna: «Elemento cardine del Comitato era la democrazia proletaria, si tenevano assemblee settimanali fisse e si decideva a maggioranza. Nel momento della lotta però tutte le forze si compattavano e alle divergenze interne corrispondeva massima compattezza verso l’esterno. Era bello perché a un certo punto ci rendemmo conto che non tutti avremmo ottenuto un lavoro ma eravamo lo stesso tutti lì, pronti a lottare comunque».
«È opportuna una precisazione» chiarisce Giuseppe Letizia «il Comitato non era comunista, anzi la maggior parte dei compagni avevano sempre votato partiti dell’ex DC. Il nostro “inno”, la canzone che ci spronava, non era Bandiera Rossa né l’Internazionale, ma “Un ragazzo e una ragazza” di Nino D’Angelo che parla del sogno di tutti di avere una vita normale». Prima di partire si pensava ad ogni dettaglio ed ogni iniziativa veniva poi commentata, in modo da migliorarsi. Ai compagni più equilibrati veniva chiesto di mantenere la calma dei compagni che non riuscivano a controllarsi dinanzi alle prepotenze e allo sperpero dei soldi dei lavoratori.
Durante le riunioni si discuteva delle iniziative da intraprendere ma anche di questioni di politica generale. «Mi ricordo» racconta ancora Vincenzo Salvatore «che si fece una discussione sul razzismo e i disoccupati partirono da un sentimento di odio perché gli stranieri erano visti come coloro che toglievano lavoro. Poi, insieme, col dibattito, si giunse alla conclusione che il razzismo fosse un elemento usato dai padroni per dividere». «Per la maggior parte dei disoccupati» aggiunge Giuseppe Letizia «il problema del lavoro a Marcianise erano “quelli di Napoli” che lavoravano nelle “nostre fabbriche”.
Col tempo sviluppammo un vero e proprio programma sociale fatto di proposte per il lavoro, salario garantito, riduzione di tasse comunali per i disoccupati. Così quando veniva qualcuno di nuovo a lamentare la presenza di “napoletani” nelle “nostre fabbriche” c’era sempre un compagno che gli rispondeva: “Tutt’e disoccupati amma faticà!”». «Il primo atto del Comitato» ancora Giuseppe Letizia «fu organizzare dei banchetti fuori l’ufficio del collocamento. Andavamo lì un paio di giorni a settimana con uno striscione che c’eravamo fatti da noi, distribuendo volantini, informando che il Comitato si riuniva ogni sabato, discutendo coi passanti dell’inutilità di quell’ufficio e della necessità di lottare per il lavoro.
Le nostre riunioni diventavano sempre più affollate. Eravamo una ventina quando decidemmo di irrompere in un Consiglio Comunale protestando per il lavoro. Da lì in poi fu un crescendo continuo. Arrivammo ad essere ben più di un centinaio».
Il Comitato cominciò a dirigere la propria protesta verso l’Ospedale nuovo, allora in costruzione. Durante una Assemblea i disoccupati decisero di occupare la struttura. Si decise che il giorno più adatto per la mobilitazione fosse una domenica mattina, in modo che potessero prendere parte alla protesta anche i lavoratori a nero. «Mi ricordo» interviene Vincenzo Salvatore «che entrammo fino a dove oggi c’è il pronto soccorso. Eravamo in tanti. Ad ogni iniziativa leggevo sul volto di quella gente la disperazione mista ad una voglia di riscatto e giustizia sociale». Anche Franco Liguori ricorda quel giorno: «Ero presente all’occupazione dell’ospedale, è durata circa un mesetto. Lo scopo iniziale era quello di bloccare la ditta che vi stava lavorando così picchettammo le entrate con programmate presenze giornaliere. L’obiettivo era che qualcuno di noi venisse assunto in quel cantiere in modo che avesse un’occupazione ma anche la possibilità di continuare dall’interno la lotta». L’impresa che lavorava in quel cantiere era in subappalto e teneva i suoi pochissimi lavoratori in condizioni disastrose, senza diritti ed esponendoli a pericoli mortali. Fu grazie al Comitato che la FILLEA, il sindacato edile della Cgil, denunciò formalmente la questione. «Iniziammo le trattative col Prefetto» continua Liguori «ed entrò anche la Cgil.
La Cgil appoggiava il movimento ma, in modo velato, lavorava perché non si facesse casino. Delegarono un tale Borriello affinché si occupasse di noi e facesse scemare l’impeto della nostra protesta. La Cgil provò anche ad assumere qualcuno all’interno del Comitato ma noi decidemmo che nessuno dovesse andare nel sindacato per non svendere la lotta». «La Cgil a Caserta trattava le vertenze singolarmente» aggiunge Letizia «senza mai convocare uno sciopero provinciale o regionale, nonostante crisi e svendite, anche di quella Marconi che ci sembrava la nostra FIAT. Questo ci impediva di inserirci in un contesto di lotta più ampio, con maggiori possibilità di vittoria».
Fu avanzata la proposta di far entrare alcuni membri del Comitato nel cantiere ospedaliero, ci fu una Assemblea che decise chi dovesse entrare e il blocco fu sciolto. In questa fase il Comitato dei Disoccupati raggiunse un suo obiettivo. Gli eventi iniziarono a susseguirsi con un movimento a spirale, sembrava che Marcianise fosse il centro del mondo, il livello di lotta s’infittiva ogni giorno che passava, dal 1997 fino agli inizi del 2000 il Comitato era ogni settimana sui giornali locali, convocato in Prefettura e a riunioni di ogni tipo. La lotta iniziò ad estendersi verso i cantieri dell’Interporto ed il Comitato dei Disoccupati di Marcianise fece fronte unico coi disoccupati di Maddaloni. Si chiedeva che almeno il 15% degli assunti fossero presi dal territorio e che il Comitato avesse voce in capitolo in merito alle assunzioni. Ricorda questa occupazione Valerio Fretta, tra i fondatori del Comitato: «La protesta è durata diversi giorni. Occupammo anche l’incrocio che porta verso Benevento. Non passava più nessuno. Eravamo tantissimi, ci hanno dovuto sgomberare. Con noi c’erano i disoccupati di Maddaloni e, mi ricordo, che occupammo anche il Comune di Maddaloni per una intera giornata».
Il Comitato dei disoccupati in Lotta per il Lavoro inizia un’attività di lotta frenetica, si occupano cantieri, strade, gli uffici dei Collocamenti di Marcianise, Maddaloni e Caserta, la Provincia di Caserta e persino, per pochissimo tempo, la Prefettura. Durante l’occupazione del Collocamento di Caserta era presente Giuseppe Vittorio De Chiara, entrato nel Comitato da studente universitario: «L’occupazione degli uffici della Massima Occupazione di Caserta avvenne per motivi legati alla questione dell’Interporto ma accadde un fatto eccezionale. Per un caso fortuito, in concomitanza con la nostra occupazione, iniziarono a mobilitarsi gli operai dello stabilimento della Barilla nei pressi della Motorizzazione. Ci giunse notizia della cosa e decidemmo di portare la nostra solidarietà agli operai. Andammo io e Luca Pedes con la mia Renault4. Giunti fuori la Barilla ci venne incontro un sindacalista dei COBAS, un tal Gianni Di Vece, gli chiedemmo di poter entrare ma lui ce lo negò. Tornai allora al Collocamento ma il giorno dopo avevo l’esame di storia moderna così salutai i compagni e me ne andai. Appena fui in un posto appartato mi fermò una volante della polizia. Non avevo fatto nulla ma mi fecero scendere dalla macchina e mi perquisirono corporalmente. Chiesi che la perquisizione fossa messa a verbale ma loro mi accusarono di arroganza e minacciarono di verbalizzare solo questo. Sarebbe stata la mia parola contro la loro e non credo che la parola di un cittadino che esercita il suo diritto allo sciopero, fermato senza motivo e perquisito, valga più di quella di due vigili e attenti poliziotti. Non ci fu nessun verbale e io il giorno dopo diedi l’esame di storia moderna».
Il raggio d’azione del Comitato era ampio. Erano presenti sue delegazioni a manifestare insieme agli operai dell’ex-Olivetti, che intanto cominciava la sua agonia. Si tentò di organizzare i senza casa. Si partecipava a manifestazioni a Napoli contro il pacchetto Treu, a Caserta al fianco degli studenti, a Roma per la manifestazione nazionale di Rifondazione nel 1998. In quest’ultima occasione il Comitato dei Disoccupati partecipò in modo indipendente, con un proprio striscione, e lanciò anche un appello che venne pubblicato su Liberazione.
Vincenzo De Filippo era uno studente medio quando conobbe il Comitato e ricorda le manifestazioni studentesche a Caserta: «Durante una di quelle manifestazioni i compagni del CSP (Comitato in difesa della Scuola Pubblica) si allontanarono da studenti che sventolavano bandiere e striscioni neri e volevano obbligare gli altri a indossare una fascia bianca come segno di apoliticità. Ci fu uno scontro. In una seconda manifestazione il Comitato dei Disoccupati, contro le provocazioni anzi le minacce, scese a difendere gli studenti del CSP e si mise alla testa del corteo per evitare che entrassero i fascisti. Le immagini vennero trasmesse anche al TG3 e ridemmo di gusto perché Peppe col suo barbone non sembrava esattamente uno studente».
Era l’anno 1998, Marcianise viveva quello che è stato ricordato come il suo periodo più buio. La città grondava del sangue che la camorra versava con omicidi che si susseguivano a catena e che portarono alla sera dell’Epifania, quando il prefetto Goffredo Sottile dichiarò il coprifuoco. Tutti i bar, i circoli e le attività ricreative dovevano essere chiusi entro le 22. L’allora sindaco Gianfranco Foglia dichiarava al Corriere Della Sera: «Non è chiudendo i bar che si può fermare la camorra. Il problema resta la disoccupazione, tutto nasce da lì». Niente di più falso. Immaginare un vincolo che leghi camorra e disoccupazione significa ignorare le dinamiche economiche con cui l’economia camorristica agisce, dinamiche che filtrano e si allacciano agli spazi che le istituzioni lasciano vuoti. La camorra a Marcianise non c’è arrivata per caso e non è per caso che è esplosa nel ’98. La verità è che ha trovato in loco terreno fertile per attecchire già a partire dagli anni 70/80, quando Marcianise si industrializzava, quando cominciava la speculazione edile inseguito al terremoto dell’’82 ed il territorio cominciò ad acquisire la lobby dello smaltimento illegale dei rifiuti speciali anche da fabbriche del nord.
La disoccupazione è la conseguenza di una politica scorretta non l’origine della camorra. Il Comitato dei Disoccupati in Lotta per il Lavoro fu addirittura scomodo alla camorra, più di una volta si verificarono minacce e più di una volta queste furono mosse personalmente a dei singoli compagni. Nonostante tutto la lotta continuò. «Diventammo un incubo» continua a raccontare Giuseppe Letizia «specialmente per il Consiglio Comunale e il Comune di Marcianise. Eravamo presenza fissa alle sedute del Consiglio, lo occupammo più volte. Da segretario di Rifondazione ero stato già al Consiglio Comunale, ma quando c’eravamo come Comitato attraevamo molta più gente di quanta ne avessi mai vista. Venivano perché c’era il Comitato che gli dava la parola, li ascoltava. C’era sempre l’abitante di un quartiere disagiato, l’anziano, che mi chiamava a un lato e mi incitava, mi chiedeva – come portavoce del Comitato – di porre questo o quel problema.
Durante una occupazione del Comune conoscemmo un giovane che viveva in una 127 con la moglie e una bimba piccola. Si trovava lì per chiedere l’aiuto degli assistenti sociali. Avevamo occupato il Comune per denunciare i ritardi nell’avvio del cantiere dell’Ospedale ma di comune accordo decidemmo che il nostro obiettivo diventava un altro: non ce ne saremmo andati finché quel ragazzo non avesse avuto dal sindaco un sussidio e una casa, almeno temporaneamente.»
«Non dimenticherò mai una delle occupazione del Consiglio Comunale,» interviene Vincenzo Salvatore «quella volta c’era molta rabbia perché dopo tanto lavoro e minacce familiari, politiche, camorristiche e anche da parte della polizia si iniziava ad essere stanchi. Bisognava avere qualcosa. Si decise di andare al Consiglio Comunale in cui era presente Domenico Zinzi e durante la seduta, mentre parlava il sindaco Foglia, un compagno esplose. Si diresse piangendo e sventolando le bollette da pagare contro il sindaco. Subito dopo tutti gli altri compagni iniziarono a spingere i consiglieri comunali per farli alzare e sedersi al loro posto. Ci fu un momento in cui ho temuto il peggio. In quella occasione ho stimato compagni come Valerio e Peppe che seppero mantenere la calma e diressero la lotta con diligenza».
Dopo anni di battaglie, di pressioni, di isolamenti, sotto i colpi delle minacce camorristiche e con la polizia che infiltrava le Assemblee, l’intensità della lotta iniziò a calare. «Un Comitato Disoccupati è difficile da gestire» afferma Franco Liguori «sia per questioni politiche sia per questioni personali. Quando vedi speculazioni, porte sbattute in faccia anche da parte dell’opposizione, che all’epoca era rappresentata da Filippo Fecondo, e hai problemi seri, come mettere il piatto di pasta a tavola, allora tutto diventa un problema». «Alla fine eravamo stanchi» dice Valerio Fretta «diventammo vulnerabili e avevamo tutti contro. Non ho rimpianti rispetto a come sono andate le cose, lo rifarei per altre 50 volte».
«Io rimpiango il movimento» aggiunge Vincenzo De Filippo «perché almeno c’era. Dopo un fallimento è difficile ricostruire. Non penso però che il Comitato sia stato un fallimento ma un’esperienza di crescita politica e intellettuale. Sono ancora coinvolto da certe dinamiche e a parecchie persone il Comitato ha aperto gli occhi».
« Si perché il Comitato era questo » parla ancora Giuseppe Letizia « una organizzazione di disoccupati in lotta per il lavoro, ma anche e soprattutto l’idea vivente che l’unità é forza e che attraverso la forza dell’unità si possono porre i problemi dei lavoratori e degli strati popolari e imporre soluzioni. Il contesto ci è stato però sfavorevole e la nostra condizione fu più forte della volontà di cambiarla.Molti migrammo, me compreso, come ancora si fa nel Sud Italia e il Comitato si dissolse così com’era nato».
Il Comitato dei Disoccupati in Lotta per il Lavoro a Marcianise è stato un esempio di come sia possibile prendere parte attivamente alle dinamiche politiche e che non occorre essere medici, avvocati, professori per avere voce in merito a questioni che ci riguardano da vicino quali la camorra, i tumori, le morti bianche, l’occupazione e tante altre. L’insegnamento più grande che il Comitato abbia donato al suo paese ha, ancora una volta, la voce di Giuseppe Letizia: «A tutti noi serve solo una possibilità per dimostrare che non siamo quello che nasciamo, ma quello che decidiamo d’essere».