Milioni ai padroni, briciole ai lavoratori
In un periodo di crisi economica in cui la “spending review” diventa legge e le parole d’ordine sono ”austerità” e “rigore”, il governo Monti, non meno del suo predecessore, con i suoi ministri Riccardi e Barca, trova “nuove” risorse, milioni di euro per il Sud: dal “Piano nazionale per il sud al Fondo per lo sviluppo e la coesione”, al “Piano di azione coesione”.
L’intervento straordinario al Sud si è chiuso dopo 43 anni, nel 1993, con la soppressione della Cassa del Mezzogiorno, da allora i trasferimenti statali si sono via via ridotti: tra il 2004 ed il 2010 vi è stata una riduzione della spesa per investimenti al Sud del 3,4% in media all’anno. A limitare i danni a partire dal 1994, con i Pop (Programmi operativi plurifondo) 1994-1999 prima ed i Por (Programmi operativi regionali) 2000-2006 e 2007-2013 ora, è arrivata la Politica di coesione europea, che ha portato ad un effetto “sostituzione” dei fondi statali con quelli comunitari per la realizzazione degli interventi ordinari e straordinari al Sud.
La partita dei fondi strutturali nel Mezzogiorno è di notevole interesse. Negli ultimi due cicli di programmazione oltre 88 miliardi di euro su un totale nazionale di 123 miliardi (45 nel 2000-2006 e 43 nel 2007-2013) sono stati programmati per le regioni ex “obiettivo 1” ed oggi “obiettivo convergenza”, ovvero quelle regioni che esprimono un Pil pro-capite inferiore al 75% della media europea (Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Basilicata). Queste risorse vengono attivate attraverso i Programmi operativi regionali (Por), due per ogni regione, uno finanziato attraverso il Fondo sociale europeo (Fse) e l’altro attraverso il Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr). Il Fse ha tra le sue finalità quella di “accrescere l’adattabilità dei lavoratori e delle imprese”, migliorare l’accesso all’occupazione e la partecipazione al mercato del lavoro, rafforzare l’inclusione sociale. Il Fesr invece sostiene programmi in materia di sviluppo regionale, di cambiamento economico, di potenziamento della competitività e di cooperazione territoriale.
Belle finalità che, tradotte per i non addetti ai lavori, significano milioni di euro per le imprese e pochi spiccioli ai privati cittadini che, per l’arbitrarietà con i quali vengono gestiti, consentono la riproduzione del sistema clientelare che mantiene in vita la classe dirigente e politica del Mezzogiorno.
I dati relativi alla spesa realizzata sino ad ora parlano chiaro e sono drammatici, in merito alla capacità amministrativa di questi territori: a due anni dalla chiusura del settennio sono stati spesi solo il 21% delle risorse programmate col rischio di disimpegno automatico delle risorse non impegnate.
Gli aiuti diretti alle imprese attraverso contratti di investimento, strumenti di finanza innovativa, fondi di garanzia, rappresentano da soli il 20% del totale delle risorse a cui aggiungere gli investimenti in infrastrutture e servizi per le imprese, gli interventi in ricerca ed innovazione e gli sgravi e gli incentivi all’occupazione che illudono sulla creazione di lavoro di lunga durata e rappresentano invece un comodo e vantaggioso strumento per le imprese per assumere a costo zero giovani e meno giovani meridionali, da rispedire a casa una volta finite le risorse ed i vincoli temporali di assunzione, oltre che un modo per riprodurre le vecchie logiche clientelari.
Nella stessa direzione va anche il Piano per il Sud, proclama del governo Monti delle ultime settimane, che attraverso il riutilizzo delle risorse non spese dalle regioni meridionali, stanzia 2,3 miliardi di euro di fondi Ue destinandone circa il 40%, per un importo pari a 900 milioni, direttamente alle imprese attraverso Fondi di garanzia, Contratti di sviluppo ed i sempre verdi finanziamenti per autoimpiego e imprenditorialità giovanile (leggi prestiti d’onore), a cui si aggiungono misure per i giovani quali finanziamenti al privato sociale (38 milioni di euro), incentivazione dell’apprendistato (50 milioni), ecc.
Se a qualcuno non fosse chiaro, ancora una volta non c’è austerità che tenga quando si tratta di “aiutare” gli imprenditori di questo paese, lasciando invece che le problematiche annose del Mezzogiorno (assenza di lavoro, devastazione ambientale, carenze infrastrutturali e di servizi alle persone, ecc.) diventino emergenze dalle quali trarre enormi profitti (sanità, trasporti, rifiuti, dissesto idrogeologico…).
Non è con i fondi strutturali ed i piani speciali che si risolve il disagio sociale, oggi ancor più diffuso, che vivono i migliaia di lavoratori e disoccupati del Mezzogiorno. Il riscatto sociale del Mezzogiorno sarà possibile solo attraverso il protagonismo della classe lavoratrice del Sud.