Gli zapatisti e la lotta per il socialismo
Da qualche anno, e precisamente dal 1° gennaio del 1994, molti occhi sono puntati sui processi in atto nel Chiapas messicano. La lotta dei contadini indios ha riscosso e riscuote enormi simpatie tra i giovani e i lavoratori di tutto il mondo. L’eroismo di chi si erge contro l’oppressore ha colpito la fantasia di molti.
Come dimostra la storia - e soprattutto la storia delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni in America latina - l’eroismo purtroppo non è sufficiente a vincere la lotta iniziata. Il sostegno che ogni comunista deve dare al tentativo di un popolo di lottare per l’autodeterminazione non può condurre a chiudere gli occhi
di fronte all’esigenza di un’analisi critica delle teorie che, a partire da queste lotte, vengono diffuse nel movimento operaio internazionale.
Nelle ultime settimane è stata pubblicata l’edizione italiana dello scritto del subcomandante Marcos, portavoce dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln), "La quarta guerra mondiale è cominciata", diffusa insieme a Il manifesto in migliaia di copie. Questo scritto, la più compiuta elaborazione teorica prodotta fino ad ora dal movimento zapatista, pone questioni di importanza vitale per il movimento operaio e per la rivoluzione messicana e speriamo che non mancherà di suscitare un dibattito serio fra i migliori attivisti. Sicuramente tale è l’intenzione di chi lo ha scritto. Per parte nostra, riteniamo che una franca discussione rappresenti un servizio migliore alle idee esposte da Marcos e alla lotta degli indios messicani rispetto, a tanta retorica agiografica che si incentra sul personaggio romantico del guerrigliero mascherato o, dall’altro, alla carità astratta di matrice laica o cristiana che si limita a condannare chi viola i diritti umani nel Chiapas.
A chi, come noi, ritiene che l’esito della lotta dei contadini e del proletariato messicano contro l’oppressione e il capitalismo abbia a che vedere in modo decisivo con il nostro stesso futuro lanciamo prima di tutto un avvertimento: non scambiare i propri desideri per la realtà. Entriamo più nel dettaglio dei punti principali sollevati.
Mondializzazione, neoliberismo e stato nazionale
Come ogni rivoluzionario Marcos parte dall’analisi dei processi in atto a livello della struttura profonda della società proponendo un’analisi del processo inarrestabile di penetrazione del modo di produzione capitalista a livello mondiale.
Nelle sue parole Marcos ricostruisce "il rompicapo mondiale" del neoliberismo. Lo scenario che si è determinato con il crollo dell’Urss presenta "un nuovo teatro di operazioni mondiali": vaste "terre di nessuno" create dal fallimento politico, economico e sociale dei paesi dell’est; potenze in espansione (Usa, Europa occidentale e Giappone); crisi economica mondiale e una nuova rivoluzione tecnologica, l’informatica. Secondo Marcos la tecnologia informatica è il veicolo di una trasformazione complessiva degli assetti mondiali, lo strumento che in mano al "re supremo del capitale, la finanza", ha imposto il dominio sul mondo dei mercati finanziari.
Per Marcos il neoliberismo, inteso come il dominio assoluto del capitale finanziario sul pianeta, entra necessariamente in conflitto con ciò che di più vitale c’era nel capitalismo: lo stato nazionale inteso come tradizione, cultura e mercato cioè relazioni economiche. "Il capitalismo internazionale incassa alcune delle sue vittime fiaccando i capitalismi nazionali e smagrendo fino all’inedia i poteri pubblici", che "non dispongono della forza necessaria per opporsi al volere dei mercati internazionali, quando questi ledono gli interessi dei cittadini e dei governi" e ancora: "il capitalismo mondiale sacrifica senza misericordia alcuna ciò che gli ha assicurato futuro e progetto storico: il capitalismo nazionale" (p. 14).
La quarta guerra mondiale si combatte - secondo Marcos - per mezzo delle cosiddette "iperbombe finanziarie". Il neoliberismo si pone l’obiettivo di "attaccare territori (Stati Nazionali), distruggendo le basi materiali della sovranità nazionale". Il neoliberismo produce così "distruzione / spopolamento, da un lato, e ricostruzione / riordino dall’altro, di regioni e nazioni, per aprire nuovi mercati o modernizzare quelli esistenti".
Nell’analisi di Marcos prevale la caratterizzazione dell’epoca presente come epoca di crisi del capitalismo, nel senso di crisi intesa più come trasformazione dolorosa e gravida di conseguenze che come impasse generale di un modo di produzione e di un sistema sociale. Il capitalismo sembrerebbe attraversare un periodo in cui i nuovi padroni del mondo, i detentori del capitale finanziario, stanno affermando il proprio dominio a spese dei vecchi padroni e delle masse sfruttate e ridisegnando la geografia trasformando ogni assetto e spazzando via ogni residuo di tradizione e di cultura diversa dalla loro.
Elementi che prefigurano la nuova formazione sociale in ascesa sono l’affermarsi delle megalopoli che sono al centro dei processi di ricomposizione delle economie in macroblocchi quali l’Unione Europea, il Nafta, il Mercosur e le numerose varianti di integrazione economica su base regionale messe in opera nelle varie zone del mondo.
Fin qui Marcos esprime con accenti apocalittici ciò che Marx ha con largo anticipo e con maggiore chiarezza analizzato e previsto già nel Manifesto del Partito Comunista, cioè l’avvento del mercato mondiale sotto la guida della borghesia che "si crea un mondo a propria immagine e somiglianza". "Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi all’industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari" scriveva Marx che ricordava anche il ruolo oggettivamente progressista della borghesia ai primordi del capitalismo "la borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione del-l’antico modo di produzione".
Marcos tuttavia tende a scambiare un processo che interessa l’economia capitalista per un nuovo sistema sociale. Il capitalismo, lungi dall’essere alla soglia di una trasformazione epocale ha raggiunto il culmine della sua forza e già mostra da lungo tempo i segni della più classica delle crisi di sovrapproduzione, che assume la forma della strutturale tendenza alla sovraccapacità produttiva. L’impatto di questa crisi sui processi di integrazione economica, fin’ora apparentemente inarrestabili, sarà violento. Già da tempo si prospetta una guerra commerciale tra i principali blocchi economici che potrebbe far risorgere lo spettro del protezionismo.
L’enorme crescita del peso dei mercati finanziari è un ulteriore sintomo della stessa malattia la cui causa Marx aveva svelato sulla base della scoperta della legge della tendenza al calo del tasso di profitto in regime capitalistico.
Sarebbe inoltre sbagliato attribuire ai nuovi padroni del mondo il totale controllo della situazione. La borghesia ha suscitato, come l’apprendista stregone, forze che non è ormai più in grado di controllare e i mercati finanziari sono precisamente una di queste forze sfuggite al controllo della classe dominante. La borsa riflette i sogni della borghesia che, come è noto sono originati da impressioni che hanno comunque un legame con la realtà materiale. Il fatto che tali sogni stiano trasformandosi in incubi deve aver qualcosa a che vedere con lo stato dell’economia reale.
I limiti del programma dell’EZLN
Purtroppo in questo scritto di Marcos non si può registrare un sensibile avanzamento delle posizioni espresse dalla direzione zapatista.
Già in passato gli zapatisti avevano fatto presente la loro intenzione di limitarsi a essere parte di un processo di rivoluzione antiliberista su base nazionale. Nessuna parte del programma dell’EZLN si è mai posta il problema di proporre un’alternativa complessiva all’economia capitalista. Questo fatto, lungi dal rafforzare la loro lotta (come spesso è stato sostenuto da cattivi consiglieri) sta diventando il vero elemento di debolezza.
La tesi fondamentale è che nel quadro del processo di globalizzazione capitalista "il capitalismo mondiale sacrifica senza misericordia alcuna ciò che gli ha assicurato futuro e progetto storico: il capitalismo nazionale" (p. 14) e quindi si pone la prospettiva nel caso messicano che "il recupero e la difesa della sovranità nazionale sia parte di una rivoluzione antineoliberista" (p. 43).
Tale prospettiva pone il problema, ad esempio, di quale atteggiamento dovrebbero tenere i rivoluzionari di fronte ad una possibile crescita del settore nazionalista della borghesia messicana, che potrebbe esprimersi politicamente in una scissione del Pri o addirittura nel Pri stesso.
Il nemico da combattere non sarebbe tanto il capitalismo in sé quanto il neoliberismo, ovvero il sistema mondiale di sfruttamento. Per mezzo della penetrazione finanziaria e dei poteri criminali il neoliberismo annulla ogni identità storica e culturale, in un processo di penetrazione/ distruzione/ ricostruzione che lascia ai suoi margini schiere di esclusi:
"Le conseguenze di tutto questo si traducono in una vera devastazione sociale globalizzata. Il riordino dei processi di produzione e circolazione di merci e la riorganizzazione delle forze produttive producono una eccedenza peculiare: esseri umani in più, che non sono necessari al "nuovo ordine mondiale", che non producono, non consumano, non sono soggetti di credito e che, in sostanza, sono da buttar via" (p. 26).
A questo processo si contrappongono dovunque "sacche di resistenza" al nuovo ordine mondiale rappresentate dagli esclusi.
Ancora una volta gli "amici" nostrani degli zapatisti dimostrano una tendenza ad ingigantire il nemico e sminuire la capacità di reazione della classe lavoratrice, inventandosi nuovi soggetti sociali forse per colmare il vuoto.
Marco Revelli, dopo aver qualificato Marcos con l’appellativo di "intellettuale sociale del futuro", si interroga su quale sia il ruolo del proletariato in una società in cui "l’habitat entro cui sta imparando a muoversi la nuova aristocrazia finanziaria mondiale, l’emergente soggettività capitalistica, è ormai, esplicitamente il Caos; la dimensione del "disordine" elevata a paradigma" (p. 63). Raggiunge la conclusione che "il sistema disarticolato e multiplo della forza-lavoro globale non è più rappresentabile come soggettività organica e coesa (come classe universale)" (p. 67).
Marcos non si spinge così in là da negare che il proletariato esista in quanto classe e rivesta un ruolo fondamentale nell’assetto del capitalismo mondiale, tanto meno nel caso del Messico. La prospettiva che avanza Marcos ad ogni modo non è altro che quella di unire gli "esclusi dalla modernità", tra cui i lavoratori, in una prospettiva di resistenza sulla base della difesa delle proprie identità. Avanzando questa prospettiva e ponendo gli "esclusi" sullo stesso piano, Marcos rinuncia a porsi la domanda di quali forze sociali saranno il motore principale del processo rivoluzionario, chi lo guiderà e in quale direzione. Infatti rinuncia esplicitamente a porsi la questione del potere.
La questione del potere
Rinunciando a porre il problema della lotta per il potere Marcos e gli zapatisti inevitabilmente si pongono in una posizione debole in cui emerge chiaramente come un limite insormontabile alla loro azione l’assenza di una proposta alternativa ai meccanismi di sfruttamento capitalistici.
Purtroppo i nostri commentatori caserecci - che si dilettano a disquisire di rivoluzione a patto che questa se ne stia il più lontano possibile, relegata soprattutto in paesi esotici - sanno esaltare acriticamente proprio gli aspetti più poveri del pensiero di Marcos e lo dimostra Gianfranco Bettin che scrive nella sua postfazione: "è una pista, questa di Marcos, che allontana davvero dalla più greve tradizione leninista, e da pressoché tutta la tradizione rivoluzionaria sudamericana, nella radicale negazione di una politica finalizzata ossessivamente alla conquista del potere. In innumerevoli occasioni Marcos ha negato questa finalità e non a caso, anche nel testo che qui presentiamo, parla soprattutto di "resistenza"" (p. 58).
È curioso che venga caratterizzata come "ossessiva" la tradizione scaturita dalla più importante rivoluzione proletaria della storia che divenne tale proprio perché il proletariato seppe prendere il potere e conservarlo. Quanti si ricorderebbero oggi della rivoluzione d’ottobre se non fosse per quell’ "ossessivo" dettaglio?
Sorge lecita una domanda: cosa ne faranno gli zapatisti del potere nel caso la loro resistenza vincesse? Cosa cambieranno dell’economia?
La lezione nicaraguense
La rivoluzione contro Somoza rappresentò uno straordinario passo in avanti per i lavoratori e i contadini del Nicaragua. Con i sandinisti al potere, dopo il 1979, avvenne un enorme aumento delle risorse impiegate per migliorare le condizioni di vita delle masse contadine e operaie. La mortalità infantile scese drasticamente, la dieta migliorò, venne creato un sistema sanitario degno di questo nome e venne realizzata una massiccia campagna di alfabetizzazione della popolazione rurale con la costruzione di 1200 scuole.
Il fallimento di questa rivoluzione e la caduta dello stato sandinista nel 1990 non avvenne per lo scarso spirito combattivo delle masse, semmai fu il prezzo pagato per una serie di errori fondamentali commessi dalla direzione sandinista.
Nella rivoluzione i sandinisti si trovarono catapultati al potere ma non lo seppero difendere: i sandinisti, e soprattutto le masse, avevano spaventato a morte la borghesia, anche se non avevano strappato dalle sue mani il controllo dell’economia. Seguendo il miraggio dell’economia mista, i sandinisti lasciarono nelle mani dei padroni il 60% dell’economia del paese. Così il padronato e l’imperialismo Usa hanno potuto portare avanti con ampia disponibilità di mezzi un programma di destabilizzazione e di sabotaggio economico.
Ciononostante furono necessari oltre dieci anni all’imperialismo per sconfiggere la rivoluzione e disperderne le conquiste.
Per un vero internazionalismo
La rivoluzione nicaraguense ha suscitato moti di simpatia tra i giovani e i lavoratori di tutto il mondo tali da spingere migliaia di persone ad impegnarsi al suo fianco. La costituzione di associazioni solidaristiche presupponeva l’idea di fondo che l’aiuto alla rivoluzione dovesse essere concentrato sul luogo ed entro i confini del Nicaragua piuttosto che nei reali centri del potere capitalistico, i paesi capitalisti avanzati. L’ascesa del movimento operaio in qualsiasi di questi paesi avrebbe rafforzato enormemente di più la rivoluzione nell’America centrale di un numero imprecisato di aerei colmi di medicinali o di qualche migliaio di volontari disposti a combattere i Contras. L’estendersi della rivoluzione al Messico avrebbe provocato un impatto devastante sugli Stati Uniti neutralizzando la minaccia di un intervento militare, ma chi, all’epoca aveva l’autorità per rivolgere un appello alle masse latinoamericane? I sandinisti al potere non lo fecero cullandosi nell’illusione che bastasse non provocare l’imperialismo Usa direttamente per sopravvivere. Nessuno dei numerosi "amici della rivoluzione nicaraguense" si sognò mai di criticare Ortega per questa mancanza.
Gli stessi errori, le stesse ambiguità sono oggi una zavorra di cui ogni comunista dovrebbe liberarsi per fornire un contributo realmente decisivo alla causa della rivoluzione in Messico e nel resto dell’America latina, aiutando i giovani e i lavoratori messicani a sviluppare un programma rivoluzionario per attrarre alla rivoluzione le masse contadine e piccolo-borghesi schiacciate dalla crisi del capitalismo.