Sabato 10 ottobre, mentre il paese è distratto dai festeggiamenti per la qualificazione ai mondiali di calcio, 5mila poliziotti occupano le installazioni elettriche di Luz y Fuerza del Centro (LyFc), l’azienda pubblica elettrica di Città del Messico.
La militarizzazione degli impianti serve a impedire che un eventuale sciopero provochi interruzioni di elettricità. Il Governo emana infatti in contemporanea un provvedimento di che dissolve LyFc e licenzia in tronco i suoi 42mila dipendenti. Alla repressione si accompagnano finte concessioni: chi firma volontariamente per il licenziamento entro il 14 novembre riceve una liquidazione maggiorata del 200%. Soldi di cui però si riparlerà nell’aprile del 2010. Ecco servita quindi la risposta della classe dominante messicana alla crisi economica.
Nel 2009 il Pil calerà tra il 7 e l’8%. La stessa percentuale registrata nel 1995, quando lo Stato messicano sfiorò la bancarotta. Con una differenza: allora la crisi messicana fu tamponata grazie alla crescita economica degli Usa. Oggi è il crollo delle esportazioni verso gli Usa a incancrenire la crisi messicana. E soprattutto con una situazione politica assolutamente più instabile: il Governo del Pan di Calderon si è insediato nel 2006 attraverso una frode elettorale che ha provocato un movimento di massa di milioni di persone durato mesi. Un movimento che non è stato sconfitto, ma che è semmai evaporato a causa dell’assenza di una direzione politica. Lopez Obrador (Amlo), il reale vincitore delle elezioni, e i dirigenti del Prd, il principale partito di sinistra, vogliono tutto fuorché uno scontro decisivo con la classe dominante a cui sono legati da mille fili.
Siamo quindi al secondo atto dello scontro tra le masse e il Governo Calderon. Quest’ultimo, dopo una fase di stabilizzazione, ha deciso di provocare una sconfitta in campo aperto del movimento operaio messicano. E per fare questo ha deciso di concentrare il fuoco contro una delle categorie più sindacalizzate. Dietro al dissolvimento di LyFc non ci sono solo considerazioni economiche. L’attacco è diretto contro lo Sme, il sindacato degli elettricisti messicani, il quale a dispetto della forte corruzione dei propri dirigenti rappresenta uno dei più organizzati e combattivi del paese. E infatti la risposta non si è fatta attendere: il 15 ottobre si è tenuta una manifestazione di mezzo milione di persone. Una marea rossa composta dai dipendenti dell’LyFc, da delegazioni di altri sindacati e soprattutto da migliaia di giovani. Un fronte di lotta talmente ampio da rappresentare di per sé un invito alla convocazione di uno sciopero generale. E infatti questa parola d’ordine circola sempre più insistentemente nel movimento sindacale e studentesco. Per capirsi, l’ultimo sciopero generale in Messico è del 1936.
Il 5 novembre si è tenuta un’Assemblea Nazionale rappresentativa del movimento di resistenza popolare, con i rappresentanti di oltre 40 strutture sindacali. Il risultato è stata la convocazione di uno “sciopero civile nazionale” per l’11 novembre. Si tratta di una formula ambigua che può essere dialetticamente la prova di uno sciopero generale, o il succedaneo per non arrivare a convocarne uno vero. La partecipazione è stata comunque impressionante. Dalle 7 di mattina tutte le via d’accesso a Città del Messico erano bloccate. Nella città si sono svolte manifestazioni in 35 punti diversi mentre nel resto del paese si tenevano cortei di solidarietà di cui il più significativo a Oaxaca.
Il movimento è quindi forte, ma i problemi rimangono tutti sul tavolo. Il primo è rappresentato dal livello di repressione esercitato dallo Stato messicano. L’11 di novembre infiltrati nei cortei hanno esploso colpi di pistola contro la polizia. Un pretesto per trarre in arresto una decina di attivisti dello Sme. Casi di denunce e arresti si moltiplicano anche nel movimento studentesco. Il secondo problema è il livello di inadeguatezza della direzione politica e sindacale. Amlo e il Prd solidarizzano con il movimento ma insistono sulla via dei ricorsi giudiziari e legali. Una timidezza che demoralizza la lotta: non c’è da stupirsi se 22mila elettricisti hanno accettato il ricatto firmando la lettera di dimissioni volontarie. Il Prd e la direzione sindacale insistono sulla via “pacifica e legale”. Ma il punto è esattamente un altro. Data la crisi, la disoccupazione dilagante, il livello di repressione dello Stato, lo sciopero generale porrebbe immediatamente il problema del potere politico. Sarebbe destinato a dar via a una dinamica insurrezionale o viceversa ad essere il canto del cigno del movimento stesso.