La vertenza delle acciaierie di Terni, dopo oltre 35 giorni di sciopero ad oltranza pare essere giunta al termine. Anche se sembra sarà Martedì prossimo, 2 dicembre, il momento della firma definitiva dell'accordo che ripristinerà la pace sociale nella fabbrica umbra siamo già in grado di fare un bilancio della gestione della vertenza da parte dei vertici sindacali. Bilancio che purtroppo non può essere più impietoso.
Il dato di fatto essenziale è che il piano di ristrutturazione aziendale è passato esattamente come voluto dal suo consiglio di amministrazione. L'azienda ha fatto finta di cedere sui 550 esuberi annunciati a luglio, e ha fatto proprio il lodo Guidi, che i sindacati avevano respinto un mese e mezzo fa. La mobilità si chiuderà dunque con almeno 290 lavoratori che lasceranno, o hanno già lasciato, l'azienda. L'interrogativo di queste ore è se l'azienda accetterà la richiesta della Fiom di scrivere nell'accordo che i licenziamenti siano su base esclusivamente volontaria. Tuttavia a questo punto della vicenda, per quando sindacalmente la cosa possa essere rilevante, politicamente è di importanza decisamente secondaria. Un accordo che preveda comunque 290 licenziamenti, volontari o no, con 80 mila o 40 mila euro di buonuscita, significa accettare il piano di dismissione aziendale che nel giro di qualche anno porterà alla chiusura definitiva dello stabilimento. Esattamente come avvenne per la Fiat di Termini Imerese. D'altronde che queste siano le intenzioni dei vertici della multinazionale tedesca è ormai cosa nota da tempo come dimostra la fuga di notizie resa pubblica dall'eurodeputato Curzio Maltese pochi giorni fa.
Come se non bastasse l'altro pezzo della vertenza, quello sul rinnovo del contratto aziendale, sarà demandato ad un tavolo provinciale. Il punto anche qui è che il principio dell'azienda di ridurre i salari è già stato accettato. Infatti a fronte di un precedente contratto aziendale che aveva costi per 17 milioni di euro, per quello attualmente in discussione i sindacati chiedono di ridurne le dimensioni a 11 milioni mentre l'azienda vorrebbe arrivare massimo a pagarne 8.
Quindi riassumendo, alla fine della partita, l'azienda porta a casa sia la riduzione del personale sia il taglio dei salari per chi resta, in una dinamica assolutamente analoga a quella avvenuta qualche mese fa in Alitalia.
Non si può certo dire che la responsabilità di questo disastro sia da attribuire alla mancanza di combattività dei lavoratori AST. Al contrario, hanno dato grande prova di coraggio e tenacia. Eppure è bastata la fantasiosa e poco credibile minaccia di una cinquantina di impiegati di voler rientrare al lavoro sfondando i picchetti accompagnati dalla polizia (eventualità che pure il prefetto aveva spiegato a questi 50 crumiri non essere minimamente praticabile), per far accettare ai sindacati di imporre al resto dei lavoratori la fine dello sciopero ad oltranza contravvenendo persino a quanto deciso in assemblea.
Non si può riempire le pagine dei giornali di roboanti dichiarazioni sull'occupazione delle fabbriche e sull'intervento pubblico in siderurgia e poi, al momento di passare ai fatti, capitolare così clamorosamente al volere padronale. Questa è una responsabilità essenzialmente della Fiom. Certo occupare davvero le fabbriche e rivendicarne la nazionalizzazione sono azioni che hanno conseguenze ed implicazioni molto profonde. Significa di fatto mettere in discussione chi comanda in fabbrica, se il padrone o i lavoratori, e di conseguenza nel complesso della società. Ma proprio questo è il punto. L'attuale crisi è così profonda che ogni vertenza sindacale, anche la più banale, pone di fronte ad un bivio che non ammette terze vie: o vince il padrone o vincono gli operai. Il pareggio non è più contemplato. Questo significa che il ruolo del sindacato non può più essere quello di “mediazione” ma deve essere conseguente tra quello che dice e quello che fa. Il bivio a cui il sindacato è di fronte è se essere un'appendice dei padroni (come già sono Cisl e Uil) o un sindacato di classe come deve essere la Fiom.