Non c’è dubbio che i lavoratori, negli ultimi anni, siano stati messi sotto pressione come raramente si è visto nel passato.
Un triennio di recessione ha lasciato per strada centinaia di migliaia di posti di lavoro. In compenso le imprese dichiarano per il 2011, profitti record nel mezzo della crisi più grave degli ultimi ottanta anni.
Dal 2008 sono stati espulsi dal lavoro 400mila italiani. Secondo Confindustria, con un calo del Pil dell’1,6%, a fine anno saranno oltre un milione i posti di lavoro cancellati. Si tratta di un dramma per chi perde il lavoro, ma anche per chi rimane in fabbrica e subisce ogni giorno il ricatto di finire per strada se non si piega alle “necessità aziendali”.
Non a caso lo sfondamento contro i diritti fondamentali, come il contratto nazionale e l’articolo 18, viene tentato in un momento come questo.
Alla testa dell’offensiva, manco a dirlo, la Fiat: prima con gli accordi separati di Pomigliano e Mirafiori poi con l’uscita da Confindustria e l’imposizione del modello Pomigliano a tutti i lavoratori del gruppo.
Saranno coinvolti 86mila lavoratori di 80 stabilimenti, non proprio un’inezia. Ma non finisce qui, se il modello Marchionne passa in Fiat, dal giorno dopo si estenderà dappertutto.
Su queste basi non è fuori luogo affermare che attorno a questa vertenza si giocano gli interessi e il futuro dell’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici di questo paese.
I profitti della Fiat
Si sente spesso dire che i sacrifici sono giustificati dalla crisi e dalle difficoltà che incontra la Fiat sui mercati globali.
Analizzando i bilanci la situazione è più articolata.
Se è vero che nel 2011 il Lingotto registra una riduzione delle consegne su scala mondiale (-4,6%), con un calo in Europa del 10,7%, è anche vero che questa crisi si concentra sul mercato delle utilitarie (-15% sul segmento A, -9% sul segmento B) mentre si mantengono sostenute e in crescita le vendite sui segmenti medio-alti.
Notevole la performance di Chrysler (+ 26%), in forte ripresa sui mercati americani. Da annotare il successo dei marchi di lusso, con Ferrari che aumenta del 17,3% rispetto al 2010 (2,3 miliardi di euro) e Maserati che conferma i livelli dello scorso anno (588 milioni), con profitti in forte ascesa.
Fuori dall’Europa, Fiat continua a registrare buoni risultati: in Brasile per il decimo anno consecutivo conferma il primato, in un mercato che costituisce ormai un quarto di quello europeo e che si mantiene in costante ascesa (+ 2,9% nell’anno 2011).
Nonostante il calo del numero di auto vendute da Fga (Fiat Group Automobiles) i profitti del gruppo sono comunque in crescita. Nel 2011 il Lingotto ha ricavi per 59,6 miliardi di euro (+ 4,2% rispetto al 2010) con un utile netto di 1.651 miliardi di euro (645 da Chrysler, 1.006 da Fiat Auto). Nel 2010 l’utile era stato di 222 milioni. Nel 2009 c’era stata una perdita secca di 848 milioni di euro.
Secondo i bilanci, oggi Fiat dispone di una liquidità di oltre 20 miliardi di euro e riduce il debito industriale in misura superiore alle previsioni. Agli azionisti vengono distribuiti 40 milioni di euro in dividendi. Risultati niente affatto negativi, se si considera il contesto in cui versa l’economia mondiale.
Il ricatto su Pomigliano
Come detto, uno degli effetti più evidenti della crisi è stato il crollo delle vendite delle utilitarie a fronte di un notevole aumento registrato sui segmenti superiori. Questo, se ha una chiara lettura sul piano sociale (su chi paga realmente la crisi), ha degli effetti non trascurabili anche sul piano sindacale.
Possiamo affermare infatti che ad essere maggiormente sotto pressione sono gli stabilimenti che producono o sono destinati a produrre utilitarie.
Pomigliano su tutti, anche per le particolari condizioni che vivono i lavoratori dello stabilimento G.B. Vico, che oggi in grande maggioranza sono fuori dalla fabbrica senza garanzie sul futuro.
Ad oggi la Fip (la new company creata dalla Fiat) ha assunto un migliaio di lavoratori, il Cda ha annunciato che da marzo se ne aggiungeranno altri 950, su un totale di oltre 5mila che erano occupati a Pomigliano, prima che si formasse la nuova società.
Nessuno di coloro che ad oggi è stato assunto dalla newco risulta essere iscritto alla Fiom. Dire che è in corso una discriminazione è dire poco.
In un contesto del genere è del tutto naturale che la Fiom possa attraversare qualche difficoltà nel rinnovare le iscrizioni. Ma queste possono essere superate solo mantenendo una linea audace che punti a generalizzare il conflitto e a stabilire un rapporto costante di discussione con i lavoratori, superando i limiti del passato.
La battaglia per la difesa di tutti i posti di lavoro a Pomigliano assieme al sacrosanto diritto della Fiom ad essere presente nelle fabbriche del gruppo Fiat è di importanza fondamentale ed ogni attivista deve metterla al centro del proprio impegno politico e sindacale. Bisogna concentrare le forze sul punto d’attacco.
Scioperi efficaci e strategie di lotta
In un momento come questo, quando i lavoratori versano in condizioni economiche difficili non è facile scioperare se non si hanno forti motivazioni.
Questo spiega l’insuccesso che di recente hanno avuto alcuni scioperi rituali (lo si è visto il 12 dicembre).
Nella società matura una rabbia enorme ma questa non si traduce automaticamente in una maggiore partecipazione agli scioperi.
I lavoratori sono consapevoli che gli scioperi hanno maggiore effetto quando la produzione “tira” ed è normale che in un contesto di crisi (quando i rischi sono più alti) siano reticenti alla partecipazione se non vedono una direzione sindacale disposta ad andare fino in fondo.
L’audacia e l’affidabilità della direzione è fondamentale per la buon riuscita dei conflitti, oggi più che mai. È per questo che lì dove esiste una direzione con queste caratteristiche assistiamo a lotte estremamente dure e radicali che riescono a vincere (è il caso della Innse o della Terim).
Purtroppo, ci duole dirlo, in Fiat, nonostante la presenza di compagni straordinari, fino ad oggi la gestione del conflitto è stata condotta in ordine sparso, stabilimento per stabilimento, con molta approssimazione e senza alcuna regia a livello nazionale.
Diventa urgente dar vita a una direzione centralizzata e democratica allo stesso tempo, che riesca a coinvolgere i lavoratori più combattivi, in ogni aspetto della gestione della vertenza.
Questo è ancor più necessario in un contesto in cui la Fiom non ha in fabbrica le agibilità e la rappresentanza (la Rsu è stata sostituita dalla Rsa, un organo non eletto dai lavoratori in cui la Fiom non è riconosciuta dall’azienda in quanto sindacato non firmatario).
Airaudo, della segreteria nazionale Fiom, ha scritto di recente un articolo (pubblicato sul Fatto Quotidiano) in cui descrive con efficacia l’ambiente di rabbia che c’era tra i lavoratori durante la cacciata della Fiom da Mirafiori e dalle altre fabbriche del gruppo Fiat. Ma concludeva il pezzo limitandosi a fare un appello alle forze politiche, quando sarebbe necessario mettere in campo qualcosa di più consistente visto che è in discussione l’esistenza stessa dell’organizzazione.
Di fronte allo shock ricevuto una domanda è d’obbligo: era inevitabile che tutto ciò avvenisse? Se rispondiamo di sì, dobbiamo trarne le logiche conseguenze, e cioè che i capitalisti, almeno in questa fase, sono strutturalmente più forti di noi e nulla può essere fatto per contrastarli.
Con tali premesse sul piano sindacale ci troveremmo di fronte a due alternative: o passare dall’altra parte della barricata (è quanto hanno fatto gli apparati di Cisl e Uil) o combattere andando incontro a una sconfitta certa.
Per quanto ci riguarda pensiamo che la questione vada posta in termini molto diversi. Vincere è possibile. Il punto non è salvarsi la coscienza ma sconfiggere l’avversario, ed esistono le condizioni per questo.
Come? Usando la forza che è in grado di esprimere il movimento operaio quando viene mobilitato seriamente.
Questa forza non è mai stata messa in campo da quando la crisi è cominciata. Il problema non è oggettivo, è di natura puramente soggettiva.
Un bilancio di verità
In troppe occasioni invece di accendere le polveri, sono state bagnate, siamo onesti su questo. O per meglio dire invece di favorire il conflitto si è tentato di contenerlo.
Il problema non riguarda la volontà soggettiva di questo o quel dirigente o di questa o quella Rsu. Riguarda piuttosto l’assenza di una strategia complessiva.
La Fiom dopo la vicenda di Pomigliano e la grande manifestazione del 16 ottobre 2010 doveva lanciare l’offensiva, invece si è limitata a giocare di rimessa finendo con l’inanellare una serie di arretramenti che l’hanno indebolita oltre misura.
Citiamo gli episodi più importanti:
• Ex Bertone di Grugliasco
Il 3 maggio 2011 si celebra il referendum tra gli operai sull’accordo modello Pomigliano.
L’Rsu Fiom dà indicazione di voto favorevole, contraddicendo la posizione sostenuta dall’organizzazione a Pomigliano e Mirafiori. Il risultato è 88% di Sì, 12% di No. Votano 1.011 operai su 1.087. L’Rsu firma l’accordo e poi si dimette, la Fiom nazionale non firma ma avalla la decisione della Rsu.
• Sevel di Val di Sangro
Lo stabilimento Sevel, il più grande stabilimento europeo di furgoni Ducato, ha avuto nel 2011 una produzione in controtendenza rispetto ad altri siti Fiat.
Ha chiuso il 2011 con 225mila veicoli prodotti, avvicinandosi alla produzione record del 2008, e con un raddoppio della produzione rispetto al 2009 (117mila veicoli).
Una realtà in cui la mobilitazione poteva avere grande efficacia. Ma così non è stato. Il 14 aprile viene sottoscritto un pessimo accordo sui sabati lavorativi, interinali e trasfertisti. La Fiom non firma. Ma il 26 luglio decide di sottoscrivere l’accordo sull’Ergo-Uas (la metrica di lavoro che ha effetti devastanti sulla salute degli operai).
• Irisbus di Flumeri (Avellino)
Il 21 dicembre 2011 è stato l’ultimo giorno di lavoro per 658 operaie e operai irpini. Dopo 33 anni è stato chiuso l’unico stabilimento italiano che produceva autobus.
Per due anni i lavoratori saranno in cassa integrazione straordinaria a zero ore, con 800 euro al mese. A cui potranno accedere se entro il 2012 saranno ricollocati almeno 197 di loro. Condizione imposta dall’azienda e subita da tutti, Fiom compresa, che ha firmato l’accordo.
Il tutto dopo 120 giorni di lotta, scioperi, occupazione della fabbrica e presidio permanente davanti ai cancelli.
• Fiat di Termini Imerese
Dal primo gennaio 2012 lo stabilimento è chiuso. L’ultima Lancia Ypsilon è stata assemblata il 24 novembre. Il 20 dicembre è stato firmato l’accordo, anche dalla Fiom, per la cassa integrazione. L’azienda è stata ceduta alla Dr. Motors, una piccola società che importa componenti dalla Cina e che ha presentato un progetto che prevede di impiegare nell’immediato solo 241 unità, da portare a 1.600 nel 2016, per la restante parte dei lavoratori si prevede (forse) il prepensionamento e l’impiego in altre aziende che si installerebbero nell’area ex Fiat. Nessuna certezza per gli operai dell’indotto. Come per l’Irisbus i lavoratori riceveranno il secondo anno di cassa integrazione se entro il 31 dicembre 2012 sarà ricollocato almeno il 30% degli operai.
• Lear di Caivano (Napoli)
Forse il caso più emblematico. Il 21 settembre viene sottoscritto un accordo da Fim, Fiom e Uilm che prevede un premio presenza radicalmente modificato allo scopo di penalizzare fortemente chi è in malattia.
Nelle assenze vengono considerate le malattie brevi, infortuni non lavorativi e scioperi non proclamati dalle Rsu. Sull’orario di lavoro l’accordo è sostanzialmente identico a quello di Pomigliano del 15 giugno 2010. Vengono elevate a 120, in deroga al Ccnl, le ore di straordinario comandato. Spostata la pausa refezione a fine turno. Introdotta una procedura tesa a limitare il ricorso allo sciopero con varie clausole di “raffreddamento”.
Il 7 ottobre i lavoratori bocciano l’ipotesi d’accordo: 54 No contro 52 Sì. Incredibilmente dopo qualche lieve modifica non solo Fim e Uilm ma anche la Fiom ratificano l’accordo.
Riprendere il filo del conflitto
Sono alcuni esempi che dimostrano come il gruppo dirigente della Fiom non abbia tentato di basarsi sulla forza che veniva dalla base, anche quando c’era tra i lavoratori una chiara disponibilità alla lotta, in forme molto radicali.
La lotta di classe ha le sue regole, le sue leggi e non si può ignorarle. Possiamo dedurle dall’insieme della esperienza storica del movimento.
Come evolve la coscienza di classe in relazione alla crisi? Come si realizzano le grandi rotture nel conflitto di classe? Quando la classe dominante riesce a imporre la propria disciplina o invece prevale l’iniziativa operaia? Quali forme di lotta sono state più efficaci?
Discutere e dare risposte a queste domande significa trovare le soluzioni che oggi mancano e allo stesso tempo formare quei quadri che, nei luoghi di lavoro, sono assolutamente imprescindibili per reggere uno scontro di tali proporzioni.
Significa in una parola cominciare a ragionare in termini politici e non solo strettamente sindacali.
Questa è la prima osservazione che rivolgiamo al gruppo dirigente della Fiom, che ha denunciato più volte l’assenza di una rappresentanza politica e indipendente del mondo del lavoro, ma che allo stesso tempo non ha mosso un dito per favorirne la formazione.
Al contrario, in molte occasioni ha sfavorito la politicizzazione dei propri militanti, privilegiando una malintesa “autonomia sindacale”.
Una autonomia che, se era molto marcata verso i militanti di Rifondazione comunista, sfumava non poco i suoi accenti nei confronti di Vendola, nonostante la subalternità mostrata da Sel nei confronti del centrosinistra e del Pd, che sulla vicenda di Pomigliano e Mirafiori si schierava in modo netto e chiaro a lato di Marchionne.
La tendenza politica che pubblica questo giornale è stata impegnata attraverso i propri sostenitori in alcune tra le più importanti vertenze operaie degli ultimi anni. Una delle conclusioni a cui siamo giunti è che una seria strategia di lotta non può che nascere da una radicale revisione di quelle che sono state le pratiche sindacali adottate negli ultimi vent’anni.
L’epoca della concertazione, quando il conflitto veniva mediato da buone relazioni sindacali, estenuanti tavoli di trattativa e accordi tutto sommato stabili, con le burocrazie sindacali legittimate dai padroni nel loro ruolo di mediazione sociale, è oggettivamente superata.
Marchionne ha inaugurato una nuova fase. In fabbrica esiste solo la voce del padrone e tutti devono allinearsi.
Riusciranno i padroni in questo intento senza colpo ferire? È lecito dubitarne.
Non è un caso se lo stesso Romiti si domanda come si possa gestire una futura esplosione sociale senza la presenza dei sindacati che maggiore consenso riscuotono in fabbrica.
È una domanda lecita. Da padrone quale è sa bene l’enorme potere che può sgorgare da un conflitto incontrollato, senza alcun tipo di mediazione sindacale.
Dobbiamo aspettarci un conflitto di tale portata? Assolutamente sì. Dopo un periodo di shock iniziale assisteremo a una nuova primavera del conflitto in tutto il gruppo Fiat.
Guardando al passato (si pensi alla lotta dei 21 giorni a Melfi) possiamo prevedere che la miccia che appiccherà il fuoco dipenderà da fattori strettamente materiali. Perché si inneschi un processo di rottura radicale, bisogna che la condizione esistenziale, progressivamente sempre più degradata, superi la soglia della “sopportabilità”.
Per vincere però, la base materiale è necessaria, ma non sufficiente: serve l’azione politica cosciente, che fornisce un carattere di irriducibilità al conflitto. E questo è compito degli attivisti, delle avanguardie in ogni stabilimento.
Nel clima che esiste oggi nelle fabbriche, la futura ribellione operaia non arretrerà di fronte a nulla, perché attinge la sua forza nella dignità operaia ferita e nella soggettività di classe.
Una soggettività che può attraversare fasi di appannamento, ma si riscatta quando il padrone oltrepassa il segno dell’arroganza.
In una lotta dura gli operai investono la loro esistenza e quella delle loro famiglie. Attraverso un processo di condivisione degli obiettivi e dei relativi rischi, la base operaia, frammentata nel rapporto individuale con la direzione dell’azienda, si trasforma in comunità, in soggetto collettivo. Quando, come alla Fiat di Pomigliano, alla base della lotta c’è l’esistenza di un’intera comunità, quando sono in gioco l’integrità e la dignità di uomini e donne, le esperienze di indipendenza di classe non possono essere facilmente azzerate. E ciò a prescindere dall’andamento e dalla conclusione di una vertenza sindacale. La vertenza passa. La soggettività operaia prodotta dalla lotta resta.
Pomigliano non si piega! I lavoratori della Fiat non si piegheranno. Marchionne è avvisato.