"L’attacco sottopone Bush a una prova severa delle sue capacità, ancora da dimostrare, di direzione".
Lo scetticismo traspare evidente da questo titolo del Wall Street Journal del 12 settembre. Fin dalla campagna elettorale Bush è stato generalmente considerato, a ragione, come particolarmente incompetente soprattutto in fatto di politica estera (il che, naturalmente, non significa che capisca alcunché di qualsiasi altra cosa). Gli Usa affrontano una grave crisi internazionale sotto la guida di quello che probabilmente è il più stupido presidente degli ultimi decenni, corazzato di una solida ignoranza. Il New York Times lo critica a sua volta, paragonando la sua "fuga" sull’Air Force One con il comportamento di Kennedy, che durante la crisi dei missili con Cuba (1962) rimase a Washington.
Criticato per la sua irreperibilità nelle prime ore di panico, Bush viene anche attaccato per la sua successiva presa di posizione: "Bush ha dichiarato che la prova verrà superata (…) mentre il senatore John McCain dell’Arizona, che per qualche tempo fu suo rivale nel partito repubblicano, si è detto fiducioso che i colpevoli sarebbero stati catturati e severamente puniti, e che il presidente avrebbe garantito che ‘cose di questo genere non avverranno mai più’". Entrambi si pongono obiettivi molto alti, forse troppo." (NYT, 12/9/01)
Dietro a queste critiche, emergono in realtà tutte le difficoltà dell’imperialismo Usa nello stabilire la propria linea di condotta, non solo in relazione a questi attentati, ma all’intera loro politica estera e alla loro strategia.
Per i parlamentari americani riuniti il giorno dell’attentato è ovviamente facile prodursi in dichiarazioni truculente. Si parla si rappresaglie "a qualsiasi costo", di "rispondere a un atto di guerra", di "trovare e colpire i bastardi", e via di seguito.
Ma una volta esaurito il repertorio della retorica, emergono le domande fondamentali: chi colpire? Come? E, soprattutto, con quali conseguenze?
Afghanistan e Asia centrale
Più volte abbiamo sottolineato come l’idea di un "nuovo isolazionismo" da parte degli Usa si sarebbe rivelata del tutto impraticabile. Gli Usa sono e rimangono la prima potenza mondiale, e questo li costringe ad intervenire ai quattro angoli del pianeta per difendere i loro interessi strategici. Ma ora la loro strategia è chiaramente in crisi. Su tutti i fronti nei quali sono coinvolti cresce l’instabilità, e si dimostra l’impossibilità di ottenere una stabilizzazione duratura, neppure con l’impiego massiccio della forza armata.
Nei Balcani, ogni intervento militare non fa che preparare quello successivo; in Medio oriente è chiaro lo stallo al quale sono giunti; il conflitto con la Cina è sempre latente; l’America Latina è attraversata da crisi economiche e conflitti sociali crescenti; il Pacifico vede crescere l’instabilità in paesi chiave come Filippine e Indonesia; la questione dello "scudo stellare" suscita l’opposizione della Russia e inquieta gli stessi alleati europei.
Un mondo ingovernabile, quindi, nel quale iniziative di forza possono avere effetti su scala molto ampia, in realtà imprevedibili.
Berlusconi, con il suo consueto fare da macchietta, ha indicato nel suo discorso in parlamento quali sarebbero le aree da mettere "sotto controllo": Afghanistan, Iran, Irak, Medio oriente in generale, Caucaso: decisamente un programma un po’ troppo ambizioso!
Dopo aver tanto tuonato, è probabile che Bush ordinerà qualche tipo di attacco aereo o missilistico contro l’Afghanistan o l’Irak, che rimangono gli obiettivi più "facili", che si possono colpire impunemente o quasi. Ma fatto questo, i problemi rimarrebbero tutti sul tappeto.
La richiesta rivolta al Pakistan di poter utilizzare il suo spazio aereo ed eventualmente anche terrestre sembrerebbe alludere a obiettivi più ambiziosi, magari una vera e propria spedizione militare in Afghanistan con l’impiego di truppe di terra. Questo sarebbe in linea con le strategie elaborate in ambienti Usa, per esempio dall’ex consigliere di Carter, Brzezinsky, che ha indicato recentemente proprio nell’Asia centrale il terreno decisivo delle lotte future per l’egemonia mondiale degli Usa.
Ma un coinvolgimento di questo genere sarebbe una follia, finirebbe in un disastro senza precedenti e i militari Usa non possono non saperlo. Un intervento da condurre a quella distanza dalle proprie basi, con linee di rifornimento malsicure, in un paese che da vent’anni è teatro di guerre e guerriglie sanguinose, su un terreno montagnoso… il Vietnam apparirebbe come un paradiso al confronto. Inoltre, cosa ancora più importante, non sarebbe accettabile dalla Russia, che sarebbe costretta a reagire e a porsi di fatto dall’altra parte della barricata. Recentemente gli Usa hanno ricominciato ad aumentare la pressione verso la Russia, sia con il programma di riarmo spaziale, sia con la questione di includere nella Nato almeno uno dei tre paesi baltici, con l’offensiva diplomatica contro il presidente bielorusso Lukascenko.
Un’intrusione delle truppe americane in Afghanistan aprirebbe un nuovo fronte di conflitto nelle cinque repubbliche asiatiche dell’ex-Urss (Tagikistan, Uzbekistan, Kazakhstan, Turkmenistan e Kirghizistan), aprendo un conflitto di proporzioni imprevedibili legato al controllo delle fonti petrolifere e delle vie di comunicazione; da un simile conflitto la Russia non potrebbe in nessun modo tenersi fuori, e probabilmente neppure la Cina.
Bush si trova quindi di fronte a un vicolo cieco, e non a caso sembra riemergere, dopo un periodo di relativa eclissi, la figura del segretario di Stato Colin Powell, che era nei mesi scorsi stato oscurato dai "falchi" Rumsfeld (ministro della difesa) Cheney (vice presidente) e Rice (consigliere per la sicurezza nazionale).
Quale intervento in Medio Oriente?
La figura di Powell, ex capo di stato maggiore durante la Guerra del Golfo, si identifica con una linea in parte differente, che ripercorre per l’appunto la strategia di Bush padre nel 1991: intervenire sì, ma solo a tre condizioni:
1) Assenso, o perlomeno neutralità impotente, della Russia;
2) Pieno coinvolgimento dell’Europa, non solo diplomatico ma anche militare;
3) Coinvolgimento dei regimi arabi.
Questo significa prendere tempo per costruire queste condizioni e ricreare una coalizione simile a quella che nel 1991 condusse la guerra contro l’Irak.
Resta però un punto oscuro: quali sarebbero gli obiettivi di una simile campagna? Realisticamente si può immaginarne due: puntare a un rovesciamento di Saddam Hussein in Irak, e stabilire in Afghanistan un regime più ben disposto verso gli Usa.
Ma, ancora una volta, non è facile immaginare quali strumenti potrebbero essere utilizzati per raggiungere questi fini.
Sulla carta, una vasta coalizione in sostegno agli Usa sarebbe possibile. Ma gli scorsi dieci anni non sono certo passati invano. Nelle masse arabe è più forte che mai l’ostilità verso gli Usa e Israele, la carta della "trattativa" sulla questione palestinese (o, per essere più precisi, il tentativo di raggirare i palestinesi con l’aiuto di Arafat) è già stata bruciata. Un rinnovato intervento americano in Medio oriente con l’appoggio di paesi come Egitto, Giordania, Arabia Saudita, metterebbe in serio pericolo la stabilità di tutti quei regimi, già ora fragili. Si aprirebbe la prospettiva di una situazione rivoluzionaria, la monarchia giordana, quella saudita, il regime di Mubarak hanno già suscitato forte opposizione per l’appoggio dato agli Usa in tutti questi anni, particolarmente l’Arabia Saudita, che ospita sul suo territorio le truppe americane.
Questa prospettiva è ben presente nei pensieri della diplomazia europea, che se oggi non può certo rifiutare a Bush la solidarietà richiesta, trema all’idea di trovarsi in prima linea di fronte a una simile situazione.
Infine, non va dimenticato che il Medio oriente non è l’unico fronte aperto per gli Usa. Un impantanamento americano in Medio oriente alimenterebbe ulteriormente le spinte antiamericane in altre parti del mondo, fra le masse di quei regimi, a partire dalla Cina, che tollerano a malincuore il predominio mondiale di Washington. Altri conflitti, e soprattutto nuovi movimenti delle masse e nuove rivoluzioni si svilupperebbero come conseguenza di una deflagrazione in Medio oriente.
Per questo i governi europei, in particolare Francia e Germania, che non possono certo rifiutare la solidarietà a Bush, sono in realtà terrorizzati dalla prospettiva di trovarsi in prima linea in un conflitto su larga scala, nel quale avrebbero molto da perdere.
La lotta per l’egemonia mondiale
Oltre la cortina fumogena delle dichiarazioni, emerge quindi una sostanziale impotenza degli Usa a cambiare rapidamente e in modo decisivo il rapporto di forze in Medio oriente e su scala mondiale.
Questo non significa che la borghesia americana si ritirerà nel suo guscio, rinunciando alla rappresaglia. Rappresaglie ci saranno, e spietate, e ne pagheranno il prezzo maggiore le popolazioni della regione.
Ma soprattutto, la borghesia americana non potrà né vorrà sottrarsi alla lotta per mantenere la propria egemonia mondiale che oggi vede insidiata. La storia del XX secolo mostra che in questo genere di lotta, nella lotta che la classe dominante di un paese imperialista ingaggia per difendere o accrescere la propria posizione internazionale, ogni mezzo viene considerato valido. Reazione interna e internazionale, riarmo, provocazione, mistificazione, terrorismo, guerre dichiarate e guerre "nascoste", tutti i metodi sono validi. E la conclusione a cui inevitabilmente giungeranno sarà questa: occorrono più armamenti, occorre un controllo più ferreo nel paese e all’estero: un programma fatto e finito di reazione a livello internazionale.
È con questo scenario che il movimento operaio internazionale deve fare i conti, oggi e in futuro. Lo scenario da incubo immaginato da Orwell sessant’anni fa, con guerre interminabili tra interi blocchi di continenti, sembra materializzarsi nella crisi della "pax americana" e nel generale disordine mondiale. Questo è il capitalismo del XXI secolo, questa è la "barbarie senza fine" della quale parlava Lenin all’inizio del secolo scorso.
Per l’alternativa socialista!
L’alternativa al capitalismo e all’imperialismo non può venire da regimi corrotti e reazionari, per quanto possano indossare panni "antimperialisti". Il movimento operaio internazionale, deve riprendere la parola, rifiutare l’arruolamento dietro le bandiere dell’imperialismo (chiamato "civiltà occidentale"), tendere la mano alle giuste rivendicazioni dei popoli oppressi nel mondo ex coloniale, a partire dai palestinesi, e indicare una via d’uscita dall’oppressione e dal vicolo cieco del terrorismo.
Tutti i lavoratori del mondo aspirano alla pace e a un mondo senza guerre e sofferenze. Pensiamo davvero di ottenere tutto questo sostenendo la Nato perché vendichi l’attentato di New York massacrando altri innocenti? O invocando l’Onu, che da decenni non fa altro che fornire una copertura "legale" alle imprese militari, come fu nel caso della Guerra del Golfo e di quella contro la Jugoslavia?
Fino a quando a reggere il bandolo della matassa saranno i regimi arabi reazionari da un lato e le potenze occidentali dall’altro, i popoli saranno sempre e solo carne da cannone.
Solo il movimento operaio può dare una svolta positiva alla crisi in corso, aprendo un processo rivoluzionario che rimetta in discussione il capitalismo e l’oppressione nel mondo. La risposta all’oppressione delle masse arabe (e dei popoli oppressi in tutto il mondo) non potrà mai venire dai Saddam, dai Bin Laden, dai Talebani né da nessun’altra di queste cricche reazionarie fino al midollo.
Sì, le masse arabe devono liberarsi di questa banda, la lotta per la liberazione può avere successo solo come lotta di massa, basata sulla mobilitazione della classe lavoratrice, dei contadini, delle donne, di tutti i settori oppressi della società, una lotta che nei suoi obiettivi metta non solo la cacciata dell’imperialismo Usa dal Medio oriente, ma anche la liberazione sociale, cioè il rovesciamento dei regimi arabi che succhiano il sangue di questi popoli e che si sono dimostrati completamente incapaci di indicare una qualsiasi via di sviluppo alla società.
Ma dobbiamo anche capire un’altra cosa: noi in Europa, nel cosiddetto Occidente, non possiamo essere spettatori, limitarci a esortare le masse arabe a darsi un programma diverso, a organizzarsi dietro partiti diversi da quelli attuali.
La nostra parte la dobbiamo fare, e dobbiamo farla qui: il nostro appello alle masse arabe potrà essere udito, potrà essere credibile solo se noi stessi sapremo riconquistare la nostra indipendenza di classe, se lotteremo a nostra volta contro i "padroni di casa nostra", rifiutando di lasciarci trascinare nell’ondata reazionaria.
Un forte movimento operaio in Europa, una rinascita delle lotte dei lavoratori possono essere un punto d’attrazione per tutti i popoli, e superare quel fiume di sangue che già è stato versato e che si vorrebbe ancora versare. "Lavoratori di tutto il mondo unitevi": questo è il modo di fermare la guerra che la Nato sta preparando. Il resto, è solo fumo.