La più costosa campagna elettorale della storia americana, che ha visto una spesa complessiva di sei miliardi di dollari, si è conclusa con le elezioni dello scorso 6 novembre, nelle quali Barack Obama ha conquistato il suo secondo mandato alla Casa bianca. Ma il suo successo appare distante anni luce dalla trionfale vittoria che aveva riportato nella sua prima elezione quattro anni fa.
Il primo mandato di Obama
Nel 2008 c’era infatti stata la più alta partecipazione al voto dal 1960, con 131 milioni di americani che si erano recati alle urne. Obama aveva vinto nettamente, conquistando 69.456.897 voti e staccando il suo rivale repubblicano McCain di sette punti percentuali.
Questa volta invece l’affluenza alle urne non solo è stata più bassa rispetto al 2008, ma in molti Stati è stata più bassa persino rispetto alle elezioni del 2004. Hanno infatti votato 10 milioni di persone in meno rispetto a quattro anni fa e Obama ha preso solo 62.088.847 voti, perdendone più di sette milioni e riportando un margine di vantaggio di solo il 2,7% rispetto al suo sfidante Romney. I repubblicani sono riusciti a mantenere la maggioranza dei seggi che avevano conquistato alla Camera dei rappresentanti nelle elezioni di medio termine del 2010.
Questi dati dimostrano che nel giro di quattro anni è profondamente cambiato l’umore di milioni di americani, che nel 2008 vedevano in Obama la speranza di un cambiamento e avevano accolto la sua vittoria come l’inizio di una nuova era. Oggi non c’è quasi più traccia di quell’ottimismo generalizzato. Durante il suo primo mandato il presidente ha disperso gran parte dello straordinario entusiasmo popolare che lo aveva portato alla Casa bianca.
A dispetto di tutte le promesse, durante la sua presidenza le condizioni di vita di gran parte della popolazione sono peggiorate, persino rispetto ai tempi dell’amministrazione Bush e nonostante tecnicamente da tre anni gli Usa siano in una fase di ripresa economica. La verità è che solo la ristretta minoranza più ricca del paese ha beneficiato della crescita economica, vedendo incrementare molto rapidamente i propri redditi, mentre la stragrande maggioranza delle famiglie ha visto calare i salari reali, i redditi medi e anche i propri consumi. In base ad un recente censimento, nell’ultimo anno le famiglie che costituiscono l’uno per cento più ricco del paese hanno visto aumentare le proprie retribuzioni del 5,5%, mentre il reddito è diminuito dell’1,7% per i 96 milioni di famiglie che compongono l’80% più povero. In base agli indici di disuguaglianza sociale, gli Usa sono attualmente al primo posto tra i paesi Ocse.
Il “baratro fiscale”
Di fronte ad una simile situazione non stupisce quindi che l’appoggio al presidente sia notevolmente calato. Se Obama, nonostante tutto, ha comunque vinto è perché Romney si è presentato come un paladino del rigore dei conti, auspicando pesanti tagli alla spesa pubblica, soprattutto nel settore sanitario. Sono stati quindi in molti a turarsi il naso e a votare comunque per i democratici con l’obiettivo di sconfiggere il programma di austerità del candidato repubblicano.
Per inciso questo è anche uno dei motivi per cui la vittoria di Obama è stato accolta con tanto favore da numerosi commentatori nostrani, che vedono nella politica del presidente americano un’alternativa a quella del rigore che va per la maggiore nei paesi europei. Si mette in evidenza che mentre l’Europa strangolata dalle politiche di austerità è sempre più avviluppata dalla crisi, negli Stati Uniti un atteggiamento meno rigoroso sul debito pubblico favorisce una crescita economica, seppur limitata e altalenante.
Ma la realtà è ben diversa. Nel prossimo periodo nemmeno Obama potrà fare a meno di applicare politiche di lacrime e sangue. Tutti i nodi della finanza pubblica americana stanno infatti arrivando al pettine. Dopo la vittoria il presidente ha dichiarato che “il meglio deve ancora venire”, ma in realtà sul suo orizzonte incombe minaccioso il “fiscal cliff”.
Questo “baratro fiscale” trae le sue origini proprio dallo spropositato aumento del debito pubblico americano, che nell’estate del 2011 raggiunse la soglia massima fissata per legge, tanto che l’agenzia di rating Standards & Poor’s declassò gli Stati Uniti. In quel contesto si verificò un duro scontro al Congresso, con i repubblicani che minacciarono di non votare l’innalzamento del tetto del debito pubblico, circostanza che avrebbe provocato il default tecnico del Tesoro americano. Questo conflitto venne risolto solo all’ultimo momento con un compromesso che prevedeva un piano drastico di tagli automatici alla spesa pubblica per 600 miliardi di dollari (pari al 4% del Pil) a partire dal primo gennaio 2013, con l’obiettivo dichiarato di costringere repubblicani e democratici a trovare un accordo per ridurre il debito pubblico.
Il verificarsi del “fiscal cliff”, con aumenti delle tasse indiscriminati e pesantissimi tagli a tutti i programmi federali di spesa, provocherebbe un crollo dei consumi ed un aumento della disoccupazione, facendo ripiombare il paese nella recessione. Per scongiurare questa eventualità Obama deve trovare al più presto un accordo con la maggioranza repubblicana alla Camera per stabilire aumenti delle tasse e tagli di spesa che consentano una riduzione del debito prima della fatidica scadenza del primo gennaio 2013.
I mercati hanno già provveduto a ricordare al presidente quale dovrà essere il primo punto della sua agenda: le agenzie di rating Fitch e Moody’s hanno minacciato di togliere la tripla A al debito pubblico americano in caso Obama non ponga rapidamente rimedio al dissesto fiscale e il giorno dopo le elezioni anche Wall Street ha dato il suo monito, registrando un ribasso del 2,4%.
Quale alternativa?
Si è dato ampio risalto, anche a sinistra, alle dichiarazioni in cui Obama ha parlato di aumentare le tasse a chi ha un reddito superiore ai 250mila dollari annui. Ma i repubblicani hanno basato tutta la loro campagna elettorale contro l’innalzamento delle tasse e la loro maggioranza alla Camera non accetterà mai una aumento significativo della pressione fiscale sui super-ricchi. Per trovare un accordo con i repubblicani, la Casa bianca dovrà necessariamente portare avanti pesanti tagli alla spesa sociale, applicando quella stessa politica che milioni di americani hanno tentato di scongiurare votando contro Romney.
Da tutto queste emerge in modo lampante la mancanza di una reale alternativa nelle elezioni americane, dove entrambi i candidati sono espressione degli interessi dei capitalisti. Sia con Romney sia con Obama la politica sarà sempre la stessa: austerità.
In molti obiettano che Obama rappresenta il “meno peggio” rispetto ai repubblicani. È stata peraltro questa la linea dei principali sindacati americani, che storicamente hanno finanziato il partito democratico e anche questa volta hanno prestato decine di migliaia dei propri militanti per sostenere la campagna elettorale di Obama, nel timore che Romney potesse estendere a livello nazionale le leggi anti-sindacali adottate dai governatori repubblicani in una serie di Stati (Wisconsin, Alabama, Arizona, Ohio…).
Ma si tratta di una soluzione illusoria, in quanto nemmeno i democratici portano avanti una politica a favore dei lavoratori, come dimostra il caso di Chicago, dove il sindaco democratico ha condotto attacchi durissimi contro il sindacato degli insegnanti. Le risorse finanziare dei sindacati e gli attivisti del movimento operaio potrebbero essere impiegati molto più proficuamente per dar vita ad un partito indipendente dei lavoratori, che rompa con
i democratici e che rappresenti finalmente gli interessi della classe operaia. Una simile forza potrebbe crescere rapidamente sulla base della disillusione generale e mettere in subbuglio il sistema politico americano, che così com’è vedrà sempre un solo vincitore: Wall Street.