La vittoria di Bush prepara nuove esplosioni sociali
La vittoria alle elezioni di Bush è stata una doccia fredda per molti attivisti di sinistra, in Italia e nel resto del mondo. Delusione e scoramento erano i sentimenti dominanti nei giorni successivi al 2 novembre.
Come è possibile, chiedono in molti, che una persona così ignorante e arrogante, che sta portando avanti una guerra terribile dove i morti americani sono più di mille possa essere riconfermato alla Casa Bianca? Oltretutto la maggioranza repubblicana al senato aumenta, dando così ancora più margine di manovra alle politiche dei terribili “neocons”.
Subito si sono tratte le conclusioni più pessimistiche sulle sorti del mondo. L’opinione più diffusa è che gli americani siano troppo stupidi e si meritino un presidente come Bush. Oppure ci imbattiamo in analisi in apparenza più raffinate, che teorizzano che sia avvenuta una vera e propria rivoluzione conservatrice tale da cambiare definitivamente il panorama politico americano per i prossimi decenni.
Ci pare che il carattere di queste analisi sia del tutto impressionista; esse offrono una lettura parziale degli avvenimenti.
Due facce della stessa medaglia
Abbiamo assistito a delle elezioni dove si è sviluppata una grande mobilitazione da parte di chi voleva mandare via Bush, ma che allo stesso tempo ha provocato una reazione uguale e contraria da parte dell’elettorato conservatore. Il risultato ci presenta un paese diviso, con Bush vittorioso col 51% dei voti, in un contesto dove comunque oltre cento milioni di americani, il 40%, non hanno ritenuto che fosse così importante recarsi alle urne.
Un grande aiuto ai repubblicani è arrivato senza dubbio dal meccanismo dei grandi elettori. Il voto per il presidente infatti non è diretto ma piuttosto un voto per degli “elettori” scelti dagli stessi partiti politici. A parte pochissime eccezioni, chi vince si aggiudica tutti i “grandi elettori”. C’è una certa proporzionalità nella distribuzione stato per stato di questi ultimi, ma, dato che ogni stato ha diritto a un minimo di tre rappresentanti, si tende a favorire le aree rurali della nazione. Si prenda l’esempio del North Dakota, che ha tre grandi elettori per 650 mila residenti (un elettore ogni 217mila residenti) e la si paragoni allo stato di New York che ha 31 grandi elettori con una popolazione di venti milioni di persone (un elettore ogni 645 mila residenti). Si comprende così come si possa essere eletti senza disporre della maggioranza dei consensi. Non proprio un esempio esaltante di democrazia.
L’aspetto centrale di queste elezioni è comunque che non esisteva una chiara alternativa da contrapporre a Bush. I partiti democratico e repubblicano sono ambedue espressione del grande capitale. Kerry, se avesse vinto, sarebbe stato il presidente più ricco della storia statunitense. D’altra parte, solo chi ha i soldi può permettersi una campagna elettorale con speranze di successo, affidandosi al suo patrimonio personale o a donazioni provenienti da miliardari o da grandi multinazionali. La campagna elettorale del 2004 è stata la più costosa di tutta la storia americana, un totale di seicento milioni di dollari sono stati investiti in spot televisivi e radiofonici, il doppio di quanto speso nel 2000. E come dice il proverbio, chi paga l’orchestra sceglie la musica.
Sul versante della politica estera l’intenzione di Kerry era di continuare la politica aggressiva portata avanti da Bush, compresa l’occupazione dell’Iraq. Voleva semplicemente un maggiore coinvolgimento anche di altre nazioni nella difesa degli interessi americani nel mondo.
Solo nell’ultimo mese, vistosi molto indietro nei sondaggi, il candidato democratico che aveva votato in parlamento a favore dell’attacco all’Iraq, ha cominciato ad attaccare Bush sulla gestione della guerra e della lotta al terrorismo. Il ragionamento di Kerry era più o meno “noi possiamo fare meglio dei repubblicani”, non “faremo qualcosa di diverso”. Davanti a una simile posizione, molti americani avranno pensato che non si dovesse cambiare un presidente mentre il paese è in guerra solo per alcune differenze secondarie sulle tattiche da adottare sul campo di battaglia.
Il Partito democratico non è un’alternativa a quello repubblicano. Era il difensore dello schiavismo durante la guerra civile, e sono stati presidenti democratici a decidere l’entrata in guerra degli Stati Uniti nella prima e nella Seconda Guerra Mondiale, così come fu Kennedy a iniziare la guerra in Vietnam.
Gli errori della sinistra in Italia
In Italia la sinistra ha vissuto una sorta di allucinazione collettiva nei confronti di Kerry, visto come la “grande speranza”. Clamoroso ma indicativo a tal riguardo il titolo de “il Manifesto” della mattina successiva al giorno delle elezioni. Fidandosi dei primi exit polls che davano Kerry nettamente in testa, scriveva a caratteri cubitali “Good morning, America” e poi subito sotto “Con una valanga di voti gli americani cacciano Bush dalla Casa Bianca”. La logica del “meno peggio” che troppo spesso funge da bussola anche nella politica di casa nostra per tanti dirigenti della sinistra, ha abbagliato anche i giornalisti de “Il Manifesto”.
Addirittura secondo Bertinotti la vittoria di Kerry sarebbe servita come volano per il movimento contro la guerra e suggeriva di votare Kerry sostenendo il programma di Nader. Ma è proprio perché Kerry non ha il programma di Nader, e gli elettori americani lo sapevano bene, che è stato sconfitto.
Così, come è accaduto spesso nella storia, si è passati dall’illusione alla delusione. Lo stesso Bertinotti parla di una “rivoluzione conservatrice compiuta dalla destra americana” (Liberazione, 7 novembre), di una nuova ideologia, “un’uscita da destra dal pensiero unico”.
Noi pensiamo che ci sia invece ben poco di radicalmente nuovo nella politica di Bush. La borghesia ha sempre cercato di adottare le strategie e le tattiche più convenienti: ieri era il pensiero unico, oggi la possiamo chiamare in altri modi, ma sempre nella storia l’ideologia dominante è quella delle classi dominanti. Così come è altrettanto naturale che la borghesia americana utilizzi ogni mezzo per imporre il proprio pensiero.
Si presenta il fondamentalismo religioso come un nuovo pericolo. Ma la religione è sempre servita come guardiano degli interessi della classe domante, e come italiani rispetto al ruolo del Vaticano ne dovremo pure sapere qualcosa. Oggi i repubblicani fanno leva per la loro propaganda sulle paure dell’americano medio rispetto alla guerra, al terrorismo, ecc., e davanti all’insicurezza non c’è miglior rifugio della religione. Inoltre, tra credere alla mano del Signore che regola ogni cosa in questo mondo e credere nella mano invisibile che regola il libero mercato il passo non è così lungo.
In un momento in cui la borghesia americana deve andare all’attacco del tenore di vita delle masse in Usa e nel mondo, la religione è un valido aiuto per una simile crociata.
Certo l’ideologia dei “neo-cons” è particolarmente ripugnante, ma è solo con un appello così radicalmente reazionario che Bush e compagnia sono in grado di affrontare un periodo di guerra e di scontro sociale come quello in cui viviamo.
Come spiega il Manifesto “Il quadro (…) è quello di un padronato che crede fermamente nella lotta di classe e che ha una forte coscienza di classe. Solo negli anni novanta queste fondazioni (finanziate dalle grandi multinazionali, ndr) hanno profuso più di un miliardo di dollari nella macchina da guerra ideologica dell’estrema destra e dei conservatori cristiani”. (10 novembre 2004). I padroni hanno capito chiaramente qual è la posta in gioco. Fra le fila della borghesia non c’è stata nessuna “crisi dell’ideologia”, la loro strategia per mantenere il potere l’hanno sempre avuta ben chiara e al massimo hanno adattato alcune loro posizioni a seconda delle mutate condizioni. La loro bussola non è mai cambiata: quella del conflitto di classe. Sono i dirigenti del movimento operaio ad essersene dimenticati, abbracciando “nuove” teorie, quella che decretava la scomparsa della classe operaia alla “non violenza”, che hanno prodotto l’unico risultato di confondere le masse e consegnarle alla vandea della destra.
Proprio sulla base di queste esigenze dei capitalisti americani possiamo capire come la vittoria di Bush non è affatto un trionfo ma si poggia su delle basi del tutto instabili. Dopo l’undici settembre, Bush poteva contare sull’appoggio del novanta per cento della popolazione americana.
Il 2 novembre si è imposto con un margine molto risicato, rimane il presidente più odiato della storia e la sua impopolarità continuerà ad aumentare. La guerra in Iraq costa circa un miliardo di dollari alla settimana e il deficit di bilancio statale sta arrivando a livelli inediti e preoccupanti anche per il paese più ricco del mondo. Per sostenere i costi della guerra si annunciano tagli ancora più feroci a sanità e pensioni. La privatizzazione totale della Social Security (il sistema che garantisce un livello minimo di copertura sanitaria e di copertura previdenziale) farà aprire gli occhi anche a molti lavoratori “conservatori” che oggi hanno votato per Bush.
I repubblicani, galvanizzati dalla vittoria elettorale, approfondendo la loro politica iperliberista, scateneranno enormi tensioni sociali nel prossimo periodo. Nonostante i proclami roboanti che pontificano sulla potenza americana, gli Usa in realtà sono un paese in declino.
Il declino dell’imperialismo americano
Negli anni cinquanta gli Usa controllavano la metà del commercio mondiale, negli anni novanta questa percentuale si è ridotta al quindici per cento, mentre quella del Giappone è passata dal due al dieci per cento e quella tedesca dal 2 al 12 per cento. L’industria americana nell’immediato dopoguerra dominava nel mondo: nel 1945 il 45 per cento di tutti i beni prodotti nel pianeta proveniva dagli Stati Uniti, oggi questa percentuale è scesa all’undici per cento. Gli Usa sono ancora i maggiori produttori di beni a livello mondiale e il secondo paese esportatore dopo la Germania, ma la Cina si sta avvicinando pericolosamente.
Oggi è il capitale finanziario che domina l’economia Usa. Se nell’82 la percentuale di profitti che le multinazionali ricavavano dal settore finanziario era il 4 percento, oggi tale cifra è pari al 38 per cento. L’imperialismo Usa è in debito con tutto il mondo, la somma totale dell’esposizione finanziaria di Washington arriva a un quarto del Prodotto Interno Lordo!
C’è solo un terreno dove gli Usa sono molto superiori ai loro rivali ed è quello militare. La classe dominante americana utilizza la propria superiorità su questo versante per recuperare con la forza il terreno perso in termini di mercati e competitività. Questo è il senso della politica aggressiva degli Usa in Medio Oriente e nel resto del mondo.
Bush sarà quindi prigioniero delle proprie contraddizioni. L’ostilità popolare crescerà. Già esiste un opposizione di massa alla guerra in Iraq. In Vietnam l’intervento cominciò nel 1963 e solo tre-quattro anni dopo cominciarono manifestazioni di protesta di una certa consistenza.
Oggi, fin da prima dell’invasione dell’Iraq, centinaia di migliaia di persone erano già scese in piazza nelle principali città degli Usa e da allora l’opposizione continua a crescere.
Il deficit di bilancio sta uscendo fuori da ogni controllo. Le decisioni più dolorose a riguardo sono state ritardate a dopo le elezioni, ma ora si dovranno alzare i tassi di interesse, misura che, accompagnata al crollo del mercato immobiliare, alla fine del boom dei consumi e alla disoccupazione crescente, indirizzerà la rabbia dei più verso un governo che ha promesso mari e monti ma che ha realizzato veramente poco.
Il nuovo governo annunciato da Bush è ancora più a destra, se mai era possibile, esemplificativa a riguardo la nomina di Condoleeza Rice a Segretario di Stato. Già si annunciano nuove limitazioni al diritto di aborto.
La necessità dell’indipendenza di classe
Ad un’analisi più approfondita, tutto è pronto per un ritorno della lotta di classe negli Stati Uniti. Il problema è la debolezza della sinistra in America e particolarmente l’assenza di un partito dei lavoratori. Proprio per questo è necessario che i sindacati rompano il loro legame con il Partito democratico e costruiscano una rappresentanza politica del movimento operaio. Anche se il tasso di sindacalizzazione negli Stati Uniti è diminuito, ancora decine di milioni di persone hanno la tessera di un sindacato in tasca. Se fossero organizzate in un partito operaio, costituirebbero una forza formidabile da contrapporre ai due partiti del grande capitale.
Come abbiamo spiegato, la prospettiva non è quella di una diminuzione della lotta di classe, ma bensì di una sua intensificazione. Un “Partito del lavoro”, o comunque si chiamerà, non sarà una mera riedizione dei partiti socialdemocratici europei, ma nascendo in un periodo di crisi del capitalismo, sarà subito aperto alle idee più radicali.
Il processo di presa di coscienza di classe del proletariato e di costruzione delle proprie organizzazioni negli Stati Uniti è stato rallentato dalla posizione privilegiata dell’imperialismo americano sul panorama mondiale. Negli anni ‘30 erano scoppiate negli Stati Uniti grandi lotte che avevano portato alla creazione di un nuovo sindacato più combattivo, la Cio. Il processo di radicalizzazione fu interrotto dalla guerra e dal boom economico seguente, con cui la borghesia americana potè comprare la pace sociale. Oggi la situazione è cambiata. Bush è il primo presidente dopo il crack del 1929 che ha visto l’occupazione diminuire durante il suo mandato. I salari reali dei lavoratori americani non crescono da vent’anni. Il sogno americano è ormai distrutto in mille pezzi. Ciò non significa che i lavoratori traggano immediatamente conclusioni rivoluzionarie. Cercheranno, come i lavoratori di tutto il mondo, la strada che ritengono più facile per risolvere i propri problemi. Questo a volte può significare fare anche scelte reazionarie, ma il ruolo stesso della classe lavoratrice nel sistema produttivo spinge alla lotta e al conflitto col padronato. Una direzione corrotta e moderata, come quella dei sindacati americani, può cercare di ritardare ma non può certo impedire la lotta di classe.
Compito dei comunisti in Italia è aiutare chi negli Usa porta avanti un programma rivoluzionario, costruendo una tendenza marxista di massa.